Se stasera sono qui, è perché ti voglio bene…è perché tu hai bisogno di me, anche se non lo sai (Luigi Tenco).
QUANDO SARO’ CAPACE DI AMARE
Quando sarò capace di amare, probabilmente non avrò bisogno di assassinare in segreto mio padre
Né di far l’amore con mia madre in sogno. Quando sarò capace di amare, con la mia donna non avrò nemmeno la prepotenza e la fragilità di un uomo bambino.
Quando sarò capace di amare, vorrò una donna che ci sia davvero. che non affolli la mia esistenza
ma non mi stia lontana neanche col pensiero, vorrò una donna che. se io accarezzo una poltrona, un libro o una rosa, lei avrebbe voglia di essere solo quella cosa.
Quando sarò capace di amare, vorrò una donna che non cambi mai ma, dalle grandi alle piccole cose,
tutto avrà un senso perché esiste lei; potrò guardare dentro al suo cuore e avvicinarmi al suo mistero non come quando io ragiono ma come quando respiro.
Quando sarò capace di amare, farò l’amore come mi viene, senza la smania di dimostrare
senza chiedere mai se siamo stati bene. E, nel silenzio delle notti, con gli occhi stanchi e l’animo gioioso percepire che anche il sonno è vita e non riposo
Quando sarò capace di amare, mi piacerebbe un amore che non avesse alcun appuntamento
col dovere, un amore senza sensi di colpa, senza alcun rimorso; egoista, naturale come un fiume
Che fa il suo corso
Senza cattive o buone azioni, senza altre strane deviazioni che, se anche il fiume le potesse avere,
Andrebbe sempre al mare
Così vorrei amare
Cari Lettori, partendo da questo testamento spirituale di un grande artista che “sussurra” ad altri uomini (che potrebbero benissimo rappresentare l’emblema del mondo maschile)il bisogno di fermarsi a riflettere, ci siamo soffermati sui sempre più frequenti dibattiti riguardanti azioni violente verso “l’altra metà del Cielo” (che, in realtà, è molto di più…) con interessanti digressioni sul piano sociologico, filosofico, medico, etc.
Nonostante l’età anagrafica, siamo cresciuti in un ambiente dove, grazie all’esempio, ci è stata spiegata l’importanza di andare oltre steccati e pregiudizi e, per questo, da sempre, abbiamo trovato normale e naturale considerare Donna e Uomo completamente paritetici, valutando inappropriato il riferimento al Pater Familias come “capo della Casa”.
Come un tuono che caratterizza la peggiore delle tempeste, molte (troppe) donne subiscono, dai figli delle donne, il crimine più grande: quello di non essere riconosciute, rispettate e venerate come l’Origine da cui tutto ha preso vita e forma.
Per questo, sconfortati, ci si chiede: “Perché?”
La risposta non è agevole e rinvia ai massimi problemi del mondo.
Nel corso dei millenni tutto ha portato acqua al mulino della supremazia maschile. Anche la lettura distorta della Bibbia, con la conseguente affermazione che, essendo Eva nata da una costola di Adamo, la donna sarebbe una specie di derivazione maschile.
Potremmo sorridere se, purtroppo, dietro queste credenze non vi fossero paura, senso di umiliazione e di impotenza mista a delusione che scuote, “dalla pelle al cuore”, chi dovrebbe essere osservata e venerata per come si conviene.
E allora, da curiosi dell’essere umano, avvertiamo un forte bisogno di porci dalla parte dell’uomo della strada che, elementarmente, prova a capire le origini e le motivazioni di tanto astio (potenziale) verso la figura femminile.
Senza la pretesa di sostituirci ai grandi esperti della materia.
Ci siamo soffermati sul fatto che, uno dei principali problemi che ci attanagliano, da che Mondo è Mondo, riguarda il conflitto che nasce ogniqualvolta un nostro interesse corre il rischio di essere minacciato. E, siccome impariamo ad amare ciò che consideriamo nostro, ecco che, la sfera di maggiore sofferenza, diviene l’ambito affettivo.
Mi sono innamorato di te, perché non avevo niente da fare: il giorno, volevo qualcuno da incontrare; la notte, volevo qualcuno da sognare… (Luigi Tenco).
Molte specie viventi soprattutto fra i mammiferi e, ovviamente, fra coloro che si definiscono “persone”, creano dissidi violenti, quando vedono disturbati i rapporti affettivi con l’elemento (o la persona) di riferimento. Il complesso di Edipo o di Elettra e la competizione senza esclusione di colpi per l’oggetto del desiderio, sono solo alcune delle possibili variabili.
Quando sarò capace d’amare, probabilmente non avrò bisogno, di assassinare in segreto mio padre né di far l’amore con mia madre in sogno”(G. Gaber).
Per esempio, nella lingua Italiana, per femminicidio, intendiamo: “Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente, sulle donne, in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”.
Come spiegato anche su Wikipedia, il termine in questione connota un neologismo che identifica i casi di omicidio (doloso o preterintenzionale) in cui, una donna, viene uccisa da un uomo per motivi basati sul genere.
Gli studiosi più attenti affermano che il femminicidio è un vero e proprio atto di razzismo.
Massimo Recalcati offre, al riguardo, considerazioni di grande chiarezza ed acutezza:
La donna è, per l’uomo, il “luogo” della differenza, come l’ebreo, il diverso.
Per questo, l’uomo vorrebbe omologare la donna, imponendo modi di fare e di agire tesi soprattutto ad uccidere la possibilità dell’autonomia e della libertà.
A questo punto ci tornano in mente le scene familiari in cui, i bambini, arrivano a ridurre in schiavitù la propria madre, in nome dell’Amore. E, ogni volta che il proprio genitore cerca di recuperare un minimo di autonomia “di respiro”, la reazione del “pargolo” è particolarmente astiosa.
Questo, gli esperti, lo chiamano “Egocentrismo”. Quella condizione di immaturità, cioè, in cui si schiavizzano gli altri, con la piena convinzione di aver ragione.
Quando sarò capace d’amare, con la mia donna non avrò nemmeno, la prepotenza e la fragilità, di un uomo bambino (G. Gaber)
Femminicidio: “Qualsiasi forma di violenza esercitata sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale…”
Ma come può, il “meno”, comprendere il “più”?
Ciascuno di noi, infatti (fecondazione assistita a parte), viene concepito e cresce in un mondo femminile che, fisicamente (quindi, senza voler mancare di rispetto ad alcuna) può essere definito come un “contenitore attivo equivalente ad un terreno di coltura capace di induzione epigenetica, anche se condizionato dall’esterno”. Cioè, un organismo in grado di fornire tutto quello che serve (dalle primordiali frequenze di oscillazione elettromagnetica, all’aria, al cibo…) per far si che, cellule a forma di mora, diventino un bambino!
Carl Gustav Jung aveva intuito, ai suoi tempi. che l’evoluzione (nell’arco di tempo compreso dal Big Bang per oltre 15 miliardi di anni, fino ai giorni nostri) degli elementi fondamentali dell’Universo (l’Energia vitale sotto forma di gas, polvere di stelle, etc. governata e “istruita” da elettromagnetismo, gravitazione, interazione forte e debole) era stata condensata nel nostro DNA.
Questo filamento a doppia elica che dà vita ai cromosomi deve essere inteso, quindi, come un enorme deposito di informazioni che si sono modificate in milioni di anni per consentirci di apparire sotto forma umana, in grado di funzionare, per ciò che è indispensabile (duplicazione cellulare, metabolismo, impulsi nervosi, “istinti pulsionali”) a prescindere da modelli educativi impartiti.
In pratica è come se, Madre Natura, avesse plasmato (dai primi batteri fino alle forme di vita più evolute) le trasformazioni necessarie a dar luogo ai “complessi” e “articolati” Esseri Umani i quali, alla stregua di un Computer appena comprato, sono in grado di funzionare (per le elementari ma fondamentali operazioni inconsapevoli) grazie ad un sistema operativo installato dal costruttore che verrà, in seguito, arricchito di programmi dall’ambiente (Famiglia, Scuola, Società in generale) capaci di attivare la nostra capacità di contestualizzarci in maniera consapevole.
L’ARCHETIPO, dunque, è il sistema operativo capace di “guidare” il nostro sviluppo embrionale intrauterino (in pratica quando da una cellula indifferenziata, lo zigote, un po’ alla volta diventiamo piccoli esseri umani pronti a venire al mondo).
La moderna psicologia perinatale spiega che, di norma, il momento del parto viene determinato da un inconsapevole accordo fra mamma e bambino, a seguito del quale, entrano in circolo tutti i mediatori chimici che daranno il via al meccanismo dell’espulsione.
Almeno all’inizio della nostra vita extrauterina, ci leghiamo fortemente alla mamma (riconosciuta per via degli odori e degli umori… ma non solo) come fonte primigenia di vita e di appartenenza.
Nel prosieguo, in base alla corretta estrinsecazione o meno dei vari fattori di attaccamento, molto del carattere materno, condizionerà le nostre scelte sul piano, soprattutto, del rapporto con il potenziale compagno (di vita o del momento).
Ma perchè la mamma è così importante?
Perchè, per ognuno di noi è “casa”; infatti, siamo cresciuti in lei e conosciamo, di lei, anche quello che, a lei, è nascosto (la sua frequenza respiratoria, la peristalsi intestinale, gli equilibri idroelettrolitici del liquido amniotico, i rilasci ormonali…. la sua vita più intima, insomma, proprio dal di “dentro”). Ecco perchè, alla nascita, noi cerchiamo quella “cosa” che ci ricorda la “casa”.
Moderni studi di psicobiogenetica delle cure maternali, hanno dimostrato l’assunto della “memoria implicita delle esperienze” (di D. Winnicot ) per cui si è arrivati a comprendere che, quando la “casa” (in questo caso, le attenzioni materne fin dai primi istanti della nostra venuta al mondo) è troppo accogliente o troppo poco accogliente, ci sentiamo oppressi o abbandonati.
Per essere aiutati a “crescere”, una mamma “sufficientemente buona” dovrebbe, prima far credere al bambino di avere un potere immenso su tutto e, dai due/tre anni di vita in poi, “disilluderlo” aiutandolo ad accettare il fatto che, senza impegno, non otterremo alcun risultato.
In funzione di quanto abbiamo percepito e accettato l’idea che la mamma non è proprietà esclusiva e che, anzi, un elemento esterno a noi (costanza dell’oggetto), l’angoscia che ne consegue, la scarichiamo addosso a lei e alle figure femminili di riferimento (psicologicamente o fisicamente) oppure ce la teniamo dentro, nell’attesa di una Donna adeguatamente “responsiva”, in grado di ricordarci la rêverie materna
Ogni volta che ci si trova in difficoltà, l’espressione più usata è “Oh, Madre mia!”
Vero è altresì (almeno sotto forma di ipotesi scientifica) come sostiene Massimo Recalcati, che personaggi del calibro di Lacan, o Melanie Klein, hanno descritto in maniera inquietante il desiderio materno proponendo di accostarlo alla bocca spalancata di uno spaventoso coccodrillo.
In questa versione la madre, anziché fungere da riparo dall’angoscia, la provoca, la scatena, diventa un’incarnazione terrificante della minaccia che rende instabili sia il mondo esterno che quello interno.
L’ipotesi è che nell’inconscio di ogni madre (anche di quella più amorevole e dedita sinceramente al bene dei propri figli) risieda una spinta indomita a fagocitarli.
Se stasera sono qui, è perché so perdonare e non voglio gettar via così il mio amore per te. Per me, venire qui, è stato come scalare la montagna più alta del mondo…”(Luigi Tenco)
Probabilmente (come affermato anche in altri scritti) possiamo, da figli, considerarci come degli alianti in attesa del distacco dall’aereo madre che ci ha portato lì, dove ci giocheremo vita e destino con le correnti ascensionali…
Ma, se questo distacco non arriva, da una parte vincerà la frustrazione del sentirsi un fallito, dall’altra, il dolore verrà lenito dal vantaggio secondario che deriva dalla convinzione ( e presunzione) che avremo qualcuna sempre al nostro servizio.
Mi sono innamorato di te, perché non potevo più stare solo. Il giorno, volevo parlare dei miei sogni; la notte, parlare d’amore. Mi sono innamorato di te e, adesso, non so neppure io cosa fare: il giorno, mi pento d’averti incontrato; la notte, ti vengo a cercare. (Luigi Tenco)
Il problema è che, a queste condizioni, anche con il nostro compagno di vita, continueremo ad avere queste pretese, frutto, di una mancata, adeguata, maturazione.
Ovviamente, non si pretende in alcun modo di colpevolizzare la figura femminile; si cercano solo, delle spiegazioni.
In ognuno di noi, c’è un altro che non conosciamo. (Carl Gustav Jung)
IL RUOLO DELLA “FUNZIONE” PATERNA
A suo tempo, Sigmund Freud, descriveva il “Padre” come simbolo di una Legge non scritta, che è a fondamento di tutti gli aspetti della vita comunitaria, dal momento che cerca di frenare e regolamentare la spinta pulsionale degli individui verso la ricerca di un piacere “senza limiti”: L’Es, alimentato dalla sua Libido.
Prendendo spunto da quanto spiegato da Paul Claude Racamier nel suo “il genio delle origini”, appena uscito dai cambiamenti della nascita, il neonato entra, con la madre, in una intensa relazione di mutua seduzione che serve (almeno all’inizio) a mantenere un accordo perfetto nel quale, insieme (madre e bambino), è come se si calassero nelle acque “amniotiche” di una lago senza increspature.
Tutto ciò mira ad escludere (o a ridurre fortemente) le tensioni che provengono dal mondo interno e le stimolazioni che arrivano dall’esterno, capaci di intorbidire questo rapporto idilliaco (serenità narcisistica ideale) che non cerca e non vuole differenziazioni (foriere di separazioni), che crea una simbiosi fra i due (mamma e bambino) e che produce una ammirazione reciproca con origini indecidibili.
Per evitare l’instaurarsi di uno sfrenato narcisismo che, dall’adolescenza in avanti, potrà avere derive psicotiche, diventa necessario, grazie alla presenza della funzione paterna, l’attraversamento e il superamento di questo complesso di Edìpo.
Solo in questo modo, infatti, il figlio si vede assicurata la possibilità di sganciarsi dalla palude indifferenziata del godimento e di avventurarsi verso la ricerca di una maggiore autonomia “grazie” all’intervento dei due “pungiglioni della psiche”: l’angoscia della “crescita” e il lutto delle origini (che costituisce la traccia ardua, viva e durevole di ciò che si accetta di perdere come prezzo di ogni scoperta)
In aggiunta a quanto espresso finora, potremmo porre sul piatto delle riflessione, il fatto che, di norma, più ti leghi, più crei delle aspettative, derogando dalle quali, la cosa non la prendi bene. Vale, per qualsiasi rapporto affettivo ed è inversamente proporzionale al grado di sviluppo della propria identità.
Ancora oggi, infatti, è lo spirito di creatività che il maschio non accetta. La donna, per l’uomo rudemente maschilista, non può avere vita autonoma, pensieri liberi. Ella più che persona finisce per essere “cosa”, oggetto che l’uomo vorrebbe far muovere a suo piacimento.
Ma la donna non è oggetto.
Anzi con l’emancipazione e l’autonomia finanziaria, si sente giustamente in grado di “pensare con la propria testa” e “Signora” della propria vita prendendo le distanze da qualsiasi prepotenza. Costi quel che costi
L’aumento dei casi di violenza è legato proprio al fatto che mai come in questa epoca la donna ha trovato oggettivamente la forza per difendere e tutelare il suo spazio vitale.
Tale è la durezza dei nostri decenni che, anche in attentati con gran numero di vittime, la donna finisce con l’essere affranta da un dolore in più, che turba e offende la nostra dignità di esseri umani.
C’è una tremenda poesia di Andrea Zanzotto, intitolata “Il nome di Maria Fresu” che ci annichilisce al riguardo.
Maria Fresu è rimasta letteralmente polverizzata dalla bomba alla stazione di Bologna, tanto che si dubitò a lungo se fosse realmente stata tra le vittime. Ridotta unicamente al suo nome:
E il nome di Maria Fresu continua a scoppiare, all’ora dei pranzi, in ogni casseruola, in ogni pentola, in ogni boccone: in ogni rutto, scoppiato e disseminato, in milioni di dimenticanze, di comi, bburp!
Il maschio che esercita violenza sulla donna, infatti, non solo la uccide ma la sevizia. Ne fa a pezzi il corpo e poi lo brucia nel folle tentativo di cancellare una esistenza in tutta la sua totalità.
Dobbiamo tutti cambiare in meglio i nostri comportamenti. Molti di noi, per fortuna, sono distanti da questi atteggiamenti criminosi e bestiali. Ma non basta. Possiamo e dobbiamo fare sempre di più per far sì che la nostra sensibilità venga educata dalla sensibilità femminile e ne sia degna.
La sensibilità femminile ha tali profonde delicatezze che frequentandola, anche solo in poesia, ne trarremo effetti salutari e di benefica civiltà. Unico modo per sconfiggere il barbarico e il ferino che, in diversa percentualità, alberga in ognuno di noi.
Una poetessa contemporanea, Annalisa Saccà, in una poesia intitolata “Mio tanto amore amato” ci regala versi di grande finezza e sensibilità
(…) Raccogli pieni i doni dell’invito e, in un cesto, portami virgole e punti in abbondanza ch’io possa rompere, sul foglio, il mio respiro e voci tronche e sdrucciole e un pronome che possa nominarti mentre scrivo. (….)
Le donne, nonostante le violenze subite, di tipo non solo fisico ma anche psicologico, ci hanno sempre lasciato messaggi ed esempi di dolcezza e d’amore.
Pensiamo per fare un solo eccelso riferimento, a Emily Dickinson che scrisse poesie stupende, senza mai pubblicarle ma credendo in esse.
La sorella, dopo la morte, ne trovò 1775, riposte nello scrittoio e in “una cassetta di legno di ciliegio”. Ordinate dalla poetessa in fascicoli cuciti a mano: esse con tranquilla fermezza erano destinate a noi posteri.
Qualche verso per iniziare o affinare la nostra “educazione”:
Se non avessi visto il sole, avrei potuto accettar l’ombra. Ma la luce rendeva più deserto il mio deserto.
E ancora:
Vi fu, tra noi, la distanza che non si conta a miglia o continenti, determinata dalla volontà e non dall’Equatore.
Prima di concludere, diventa opportuno puntare l’attenzione sul fatto che, anche per questo drammatico problema, si conclude delegando alla Scuola il compito di farsi carico di tutto. Già si parla da parte del ministro di competenza dell’aggiunta di un’ora settimanale (pare per tre mesi all’anno) per una educazione sentimentale.
Speriamo bene.
Da sempre la Scuola (per la chiusura mentale di tanti partiti che si sono avvicendati a viale Trastevere) é stata sorda e non ha mai preso in esame né una educazione sentimentale né un approccio scientifico ai problemi riguardanti il rapporto di intimità e di “esplorazione” reciproca. E, questo, in decenni in cui la società era “stuprata” da disinformazioni e inondata da becera pornografia.
Ora si arriva tardi e tiepidi sull’onda di una emergenza che meriterebbe operatività e coraggio anche e soprattutto nelle scuole.
Personalmente, siamo un po’ scettici perché, come ci ricorda Dante, le leggi ci sono ma chi si è mai preoccupato di farle applicare?
Michela Marzano ha scritto, ancora una volta, qualche giorno fa: “Abbiamo bisogno di orecchie pronte ad accogliere i nostri racconti e di luoghi dove far dialogare i nostri figli e le nostre studentesse. Vogliamo e chiediamo che la strategia delle tre ‘p’ – punire, proteggere, prevenire – della Convenzione di Istanbul, che il nostro Paese ha ratificato nel 2013, non sia più lettera morta, e che si insegni con le parole (scritte e orali) e con l’esempio, che l’amore, con la gelosia e il possesso, non c’entra nulla, e che nessuna persona ci appartiene, nessuna ci ripara, nessuno ci colma. Dietro la piaga endemica delle violenze di genere c’è sempre l’idea che una donna appartenga ad un uomo, l’illusione che sia lei la responsabile dei fallimenti di un maschio”.
La figura del maschio è sotto osservazione e accusa. Lo scrittore Francesco Piccolo in una analisi molto amara e realistica ha scritto che non esistono i maschi progressisti, perché dentro ognuno di noi ha una quantità di “passato autoritario” difficile da smaltire in poco tempo.
Certo c’è chi è molto avanti in questo percorso e chi invece è al “palo”, come suol dirsi.
Come osservano alcuni professionisti, l’uomo da sempre è stato abituato ad una posizione di predominio. Ora più all’uomo sottrai il predominio, tanto più si sentirà fragile. E la fragilità “ci rende spaventosi”.
Per cambiare gli uomini ci vorrà tempo.
Non dimentichiamo quel che scrisse il filosofo Gilles Deleuze:
Ogni antifascista sarà veramente tale quando “eliminerà” il fascista che è presente in ognuno di noi.
A ciò riferendosi, Massimo Recalcati ha ribadito che l’uomo sarà veramente tale nelle relazioni con gli altri esseri (e, in particolare, con le donne) quando sconfiggerà il maschilismo che impregna, più o meno, ogni figura.
Cari Lettori, con queste nostre riflessioni non si è inteso vergare alcuna verità dogmatica. Né, tanto meno, si è cercato di giustificare in alcun modo, qualsiasi manifestazione aggressiva e offensiva.
Però, se è vero che, quanto più l’uomo vuole elevarsi in alto e verso la luce, con tanta più forza le sue radici tendono verso le tenebre, è altrettanto vero che, quello che spaventa non è solo la violenza dei cattivi ma anche e soprattutto l’indifferenza dei buoni.
ἰοίην (CHE IO POSSA ANDARE OLTRE!)
Da un libro di critica letteraria Greca, assumiamo che, “questo, è l’unica parola rimasta di una poesia di Saffo, e costituisce il frammento numero 182. La parola ἰοίην – 5 lettere 4 vocali+1 consonante finale, 3 i (ι+οι+η) – è una delle due possibili forme (l’altra è ἴοιμι) in ottativo del verbo εἶμι, cioè “andare, andare avanti, andare via” ma anche “venire” verso qualcosa o qualcuno.
Nella sua sfumatura desiderativa (ευχετική ευκτική), date le ricorrenze di altri ottativi della poetessa Saffo, è il termine più ricco di speranza che possa esistere al mondo. E’ una parola brevissima che racchiude un significato profondo ed immensamente efficace. La pronuncia greca odierna sarebbe iìin, una I prolungata e speranzosa! In sintesi, possiamo affermare che tale sublime parola esprima un desiderio forte nemmeno tanto velato di evasione come per sfogare un forte disagio interiore rintracciabile e desumibile in altri versi della poetessa.
Se c’è quindi, ancora un Domani, dipenderà da noi e dalla disponibilità ad affrontare l’angoscia dell’abbandono senza fermarsi o fuggire o, peggio, pretendere la presenza di chi vorremmo non perdere mai.
Nessuna conclusione, quindi, potrebbe essere migliore di quella proposta da Paola Cortellesi nel suo magnifico ultimo film (da cui abbiamo estrapolato l’immagine di copertina) sulle note della significativa opera di Daniele Silvestri
A BOCCA CHIUSA
Fatece largo che… Passa domani, che adesso non si può
Oggi non apro perché sciopererò e andremo in strada co’ tutti gli striscioni
A fare come sempre la figura dei fregnoni
Ma a me de questo sai, non me ne importa niente: io oggi canto in mezzo all’altra gente
Perché ce credo o forse per decenza che partecipazione certo è libertà
Ma è pure resistenza
E non ho scudi per proteggermi né armi per difendermi né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi; ho solo questa lingua in bocca e forse un mezzo sogno in tasca
E molti, molti errori brutti: io però li pago tutti
Fatece largo che passa il corteo e se riempiono le strade: Via Merulana così pare un presepe
E semo tanti che quasi fa paura, o solo tre sfigati come dice la questura
E le parole, sì lo so, so’ sempre quelle ma è uscito il sole e a me me sembrano più belle
Scuola e lavoro, che temi originali se non per quella vecchia idea de esse tutti uguali
E senza scudi per proteggermi né armi per difendermi né caschi per nascondermi o santi a cui rivolgermi, con solo questa lingua in bocca
E se mi tagli pure questa, io non mi fermo: scusa, canto pure a bocca chiusa
Guarda quanta gente c’è che sa rispondere dopo di me
A bocca chiusa, guarda quanta gente c’è che sa rispondere dopo di me
A bocca chiusa
Cari Lettori, se è vero che il nostro DNA è la tastiera di quel pianoforte che si ispira a Dio (o a chi per Lui, è il nostro cuore, però, che aiutato dall’intimità dell’inconscio, potrà estrapolarne le più belle armonie.
BUONA VITA A TUTTI
Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo
Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”
Un ringraziamento ad Amedeo Occhiuto per la collaborazione offerta