“Lo spreco della vita si trova nell’amore che non si è saputo dare… nel potere che non si è saputo utilizzare, nell’egoistica prudenza che ci ha impedito di rischiare e che, evitandoci un dispiacere, ci ha fatto mancare la felicità.” (OSCAR WILDE)
Il 7 maggio è la Giornata della risata (o, meglio, del sorriso), come ricerca di una nuova Alba dopo ogni tramonto.
il termine sorriso deriva dal latino “subridere” e identifica quel lieve movimento della bocca e degli occhi che esprime un gradevole senso di piacere ed indica, di conseguenza, uno stato d’animo propizio a manifestare positivo.
Ciascuno di noi porta in sè tutto ciò che serve per procedere verso l’ignoto e inserendosi, integrandosi e ottenendo l’Inclusione sociale. Gli scienziati ci spiegano che, ogni nostra informazione, è contenuta nel DNA, sotto forma di messaggio potenziale. In pratica, un “serbatoio evolutivo” che, Jung, individuava nell’inconscio collettivo pieno di idee nuove e creative, psicologicamente orientate verso il Futuro. Per consentire l’estrinsecarsi di una simile “meraviglia”, c’è bisogno di quel meccanismo che ci consente di “aprirci”, fidenti e che si chiama APPRENDIMENTO.
Il primo “veicolo” o “fonte” di stimolo ad apprendere, è la Madre che, attraverso l’abbraccio contenitivo e lo sguardo accogliente, ci trasmette il proprio modo di amare la Vita e l’Universo che ci attende fornendoci, nel contempo, le basi dell’Autostima e la voglia di sorridere, attraverso una sorta di magico “effetto specchio”.
Cari Lettori, se riusciamo a metterci d’accordo su alcuni concetti base, potremmo arrogarci il diritto di affermare che la Felicità esiste Il problema è trovarla.
Un po’ come la ricerca del Paradiso in Terra…
E il Paradiso? Esiste un paradiso?
Credo di sì, signora, ma i vini dolci, non li vuole più nessuno. (Eugenio Montale)
I nostri sono tempi di particolare drammaticità.
Quando la sabbia che conta lo scorrere degli eventi occupava lo spazio più in alto della clessidra, all’epoca della cosiddetta “Società ristretta”, la vita aveva una dimensione diversa. Nella odierna “Società liquida” dove, con l’avvento della “Rete”, tutto cambia per il semplice motivo che ogni cosa la si vive “in modalità provvisoria”, ci ritroviamo tutti in un villaggio globale.
Proveremo mai, da internauti del ventunesimo secolo, lo stato d’animo del “sabato del villaggio” di Leopardiana memoria?
Ci confrontiamo (grazie all’empatia dei nostri neuroni specchio) con la sensazione di percepirci come docili fibre dell’universo (avvertendo sensazioni di benessere intrauterino) alternata alla visione del “brutto” che ci avvolge…
E, il nostro viso sereno e sorridente, di colpo diventa serio, triste e corrucciato.
Che fare? Come reagisce l’Essere Umano “Sapiens Sapiens”?
Cari Lettori, non di rado, vista la nostra attività nel Sociale, capita di frequentare gli algidi ambienti in cui dolore e antisepsi si mischiano continuamente, dal momento che vengono definiti “Pronto Soccorso”. Ogni volta (ed in questo periodo, in particolar modo) non possiamo fare a meno di notare che, più dell’80% delle persone che richiedono assistenza, presentano sintomatologie a carico dell’apparato cardiorespiratorio.
E, se ci soffermiamo a riflettere un attimo, la preoccupazione più grande, quella che ha reso così tristemente famoso il Sars Cov 2 (responsabile di COVID – 19) è stata (e continua ad essere) la paura di morire per non riuscire più a respirare.
Ad ognuno di noi, per quanto strano possa sembrare, è stata concessa la possibilità di usufruire di una personale macchina del Tempo…
Infatti, grazie alla nostra Memoria, possiamo tornare indietro fino ai momenti più ancestrali (quanto meno sotto forma di emozioni e stati d’animo) della vita intrauterina. E, siccome una delle prime concrete percezioni di morte è consistita nella sensazione di non poter più respirare (nel momento in cui, durante la gravidanza, la placenta ha mal funzionato e, soprattutto, nel frangente del taglio del cordone ombelicale, alla nascita) ecco che, ogni volta che ci troviamo di fronte ad emozioni forti (positive o negative), proviamo la sensazione di restare senza fiato e col cuore che pare fermarsi.
“È incredibile come il dolore dell’anima non venga capito. Se ti becchi una pallottola o una scheggia si mettono subito a strillare “Presto barellieri, il plasma!”; se ti rompi una gamba te la ingessano; se hai la gola infiammata ti danno le medicine. Se hai il cuore a pezzi e sei così disperato che non ti riesce di aprir bocca, invece, non se ne accorgono neanche. Eppure il dolore dell’anima è una malattia molto più grave della gamba rotta e della gola infiammata, le sue ferite sono assai più profonde e pericolose di quelle procurate da una pallottola o da una scheggia. Sono ferite che non guariscono, quelle, ferite che ad ogni pretesto ricominciano a sanguinare”. (Oriana Fallaci)
Come abbiamo avuto modo di scrivere in altre occasioni, anche se sono trascorsi anni da quel momento, non possiamo dimenticare una donna di età indefinita che, mestamente, giaceva seduta su una carrozzina in attesa del proprio turno, all’interno di un Ospedale.
Ci avviciniamo a lei…
“Qual è il suo problema?”
“Un’oppressione al petto che mi toglie il respiro… un senso di angoscia, la paura della morte!”
“Siamo tutti un po’ troppo soli. È questo, il nostro problema di cuore…”
Due occhi neri ci aprono le porte di un tempio disadorno, impolverato e mal frequentato. Una lacrima conferma la fredda verità.
La morte è la solitudine delle persone amate, questa nebbia intorno a loro che nessuna tenera parola può attraversare. La morte è il dolore e la disperazione nelle stesse parole che furono l’ebrezza della felicità. La morte sono i pianti che sgorgano ascoltando una parola che voleva dire… Amore. (Joë Bousquet)
Ritornano, dal passato, i versi di una canzone di Lucio Dalla:” Cosa sarà che fa crescere gli alberi e la felicità e cosa fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento?”.
A distanza di tempo, in quella successione di istanti in cui si sono svolti gli eventi della nostra vita, scopriamo di aver fatto, di quella domanda, lo scopo del nostro lavoro e, in fondo, della nostra stessa esistenza.
Il Mito di Sisifo
Gli antichi Greci raccontavano qualcosa che ci fa tornare in mente il contenuto de “L’epopea del Salmone”
In pratica Sisifo, figlio di Eolo (Re dei venti), avendo mostrato presunzione e arroganza verso il Mondo degli Dei, venne condannato da Zeus a sospingere un grosso macigno fino alla sommità di un monte. Per l’eternità.
Infatti, ogni volta che raggiungeva la cima, il masso rotolava nuovamente alla sua base e, di conseguenza, la pena da scontare per la condanna inflittagli, consisteva nel ricominciare da capo la propria scalata senza mai portarla a compimento.
Una interessante “lettura” di questo Mito l’ha fornita lo scrittore e filosofo francese Albert Camus, nel 1942, (Il mito di Sisifo. Saggio sull’assurdo).
Durante il sentiero che ripete all’infinito, nel trasportare la pietra massiccia fino alla vetta per vederla poi scivolare nuovamente giù, egli non decide di arrendersi, ma impara a ripetere sempre meglio la sua fatica fino a capirne il senso e ad avere chiaro il messaggio di Zeus: prendere coscienza dei propri limiti per affrontare sempre meglio il compimento del proprio Destino e vivere, al meglio, l’intensità e la sacralità della vita
Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice … (Albert Camus)
La sceneggiatura di questo film chiamato Vita (dal Big Bang in avanti) pare stia scritta nel nostro DNA che, infatti, contiene le informazioni (frutto di adattamenti ad un ambiente che cambia in continuazione) per essere così come siamo.
Come all’interno di un set cinematografico che si rispetti, esistono ruoli diversi (il più delle volte ricoperti da individui che non compariranno nei titoli finali) che contribuiscono alla realizzazione dell’opera.
Ed è così che, come scritto altre volte, il lavorio che porta ad archiviare e a mantenere “attivi” (potenzialmente) i dati nel DNA, potrebbe rappresentare il famoso Inconscio Collettivo di Junghiana memoria (cui si è fatto cenno all’inizio di questo editoriale) mentre, la capacità epigenetica di “prendere” ciò che serve al momento opportuno da questo grande contenitore. potrebbe costituire l’Inconscio Personale che agirebbe secondo schemi prefissati da Archetipi imposti da Madre Natura (Vuolsi così, colà dove si puote…)
Registi del nostro Destino
La nostra Mente (più o meno inconsapevolmente), come un ottimo regista, avrebbe il compito di trasfigurare nella Realtà osservabile la “sceneggiatura” a disposizione che, comunque, cambia in corso d’opera e senza particolare preavviso.
Il dolore interiore nasce, sovente, da un vuoto di relazioni. Perché?
A prescindere dal fatto che il nostro modo di rapportarci con gli altri risente molto da come, le persone di riferimento, si sono relazionate con noi, fin da quando eravamo bambini (Teoria delle Relazioni Oggettuali), ogni verità, ad andare a cercarla ha, spesso, più facce: esattamente, quelle di chi sostiene (spesso in buona fede) le proprie ragioni.
Nel tempo, corrodiamo il piacere di cercare il “come” armonizzare con gli altri: si svilisce, sostanzialmente, il “perché”. E, con esso, anche il valore che ne consegue…
Cosa ’e niente
Pure questa è cosa da niente! È sempre cosa da niente! Tutte le situazioni le abbiamo risolte sempre così. È cosa da niente! Non teniamo da mangiare? È cosa da niente! Il padrone muore e io perdo il posto? È cosa da niente! Ci negano il diritto ad una vita vera? È cosa da niente! Quanto sei bella. Quanto eri bella. E guarda a me, guarda cosa sono diventato. A furia di dire “è cosa da niente” siamo diventati cosa da niente pure io e te! (Eduardo de Filippo – tratto dall’originale televisivo Peppino Girella)
Come possiamo tornare ad essere padroni del piacere di poter stare con noi stessi e con gli altri?
Forse, riuscendo a scoprire come recuperare la facoltà di fare quello che ci piace!.
Quando non si trova il riposo in se stessi è inutile cercarlo altrove (La Rochefoucauld).
Quello che manca, spesso, è la possibilità (e la disponibilità) di studiare, al fine di conoscersi meglio. Cioè, l’imparare per il piacere di migliorare. Senza, per forza, dovere esibire. In questo modo, si scopre che, alla fine, la verità la trovi in un punto solo.
Come arrivarci?
Qualcuno guarda, a lungo, il proprio ombelico, qualcun altro si perde nei panorami mozzafiato. Resta il fatto che solo quando raggiungiamo quella quiete interiore condita da temporanee perturbazioni (di quelle che, comunque annunciano il ritorno del sole), arriviamo a capire le convergenze.
La gente, spesso, è in cerca di questo: di essere presa per mano; di rassicurazione; di qualcuno che le prometta che, tutto, andrà bene. Che peccato! (C. Palahniuk)
L’antropologo Vito Teti, in un bellissimo e aureo volumetto “La restanza” tocca tutti i problemi che ci riguardano da vicino.
Egli scrive: “Partire e restare sono i due poli della storia dell’umanità. Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di sé stessi. ‘Restanza’ significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente”.
Molte sono le pagine che stimolano alla riflessione. Concetti non scontati ma “ibridati” alla luce di un reale che va colto con perspicace occhio.
Nel capitolo ottavo si parte dalla nostalgia e si chiude con constatazioni che preferiamo riportare fedelmente: “Migrare, partire, fuggire, restare, tornare abitano tutti dentro di noi, in radicale conflitto o in paradigmatica specularità. Il sapiens non è un animale biologicamente e culturalmente destinato a migrare, restare perché, forse, è tutte e tre le cose insieme. Per questo, dovunque si trovi, è nostalgico di un quid, del paese, dell’altrove, della città, dell’infanzia, dei luoghi mai visti, di quelli che non vedrà. La nostalgia è il suo habitus. E forse partire, tornare, restare sono diventate – o sono sempre state – modalità diverse del viaggiare. Se non ci si sente prigioniero di nessun luogo o padrone di qualche luogo si possiede la libertà del cammino “.
Una volta, un amico di nome Antonio Rizzuti (professore, filosofo, meridionalista e counselor psicologico) ha espresso un suo interessante punto di vista: “Qual è la differenza fra un’ape e una zecca? Entrambe succhiano. La prima, però, realizza una comunicazione empatica con i fiori da cui prende il nettare. La seconda, al massimo, trasmette malattie”.
La ricerca della Felicità deve tener sempre conto che, il piacere di vivere, deve albergare dentro un essere che è precario e mortale.
Il rapporto con gli altri, spesso, non è dissimile dall’atto di masticare una caramella: dopo l’assaggio inziale, può deludere le tue aspettative. Quindi, se hai la disponibilità di continuare, potrai scoprire che è addirittura meglio di come te lo aspettavi, altrimenti la sputi e ne cerchi un’altra. Ma, siccome non esiste il “chiavi in mano”, alla fine rinuncerai alla caramella.
Cari Lettori, se ci fate caso la vita è come la rappresentazione di un elastico fra la fusione psicotica iniziale (quella di Madre e figlio strettamente abbracciati) e l’isolamento autistico (che proviamo quando non ne possiamo più di sopportare gli altri) che ci riporta allo stato di partenza: quello della solitudine intrauterina.
In mezzo (fra la fusione e l’isolamento), possiamo immaginare la ricerca della Felicità dando un “giusto” senso alla vita
Se dovessi tornare, sappiate che non sono mai partito, il mio viaggiare è stato tutto un restare qua. Dove non fui mai (Giorgio Caproni)
Giacomo Leopardi ci ricorda che le complicazioni della vita moderna ci hanno allontanato dallo stato di natura e freschezza dei tempi antichi. Allora l’uomo si illudeva e le illusioni abbellivano il mondo e rendevano piacevole la vita.
Abbiamo molto da riflettere sulle conclusioni raggiunte dagli antichi filosofi riguardo alla tematica discussa in questo Editoriale. Secondo Epicuro, la Felicità è strettamente legata all’imperturbabilità, che consente un’autentica libertà. Per Aristotele, nasce dalla scelta tra ciò che ti fa stare bene e ciò che ti distrugge.
Non sembri una provocazione ma, nei tempi cosiddetti moderni è proprio il filosofo Arthur Schopenhauer (universalmente noto come pessimista), ad avere donato 50 regole per raggiungere la Felicità.
La felicità è una sensazione di pienezza e di gioia, ma ognuno di noi arriva a questo stato per motivi diversi. Bisogna, quindi, secondo Schopenhauer, evitare l’invidia, permettersi l’allegria, controllare le fantasie, evitare l’infelicità, valorizzare quello che si ha, impegnarsi ed imparare, prendersi cura della propria salute, essere compassionevoli con sé stessi.
E a proposito di questo ultimo punto, (essere compassionevoli) sarebbe il caso anche di spazzare via le nubi sul rapporto fra genitori e figli soprattutto nel caso in cui, questi ultimi, si sentono contrastati nella realizzazione di una propria aspirazione.
Il genitore, in realtà, proietta le sue paure sui figli e gli impedisce di percorrere la propria strada. Nel momento in cui il figlio trasmette una tranquilla capacità di scelta, il genitore si ricrede e si ravvede proiettando, addirittura, aspettative personali (e speranze) mai realizzate.
Cari Lettori, l’immagine di copertina ci riporta alla maestosità della Natura con il gusto della sfida nel tentare di salire verso il “Cielo”, sotto lo sguardo apparentemente spento di gigante di ghiaccio.
Dei novelli Sisifo, insomma, che sfidano il volere degli Dei…
La punizione è consistita nello scoprire (per ogni centimetro conquistato in altezza), la possibilità di uno sviluppo che ci è parso insostenibile e che ci ha procurato non poche angosce, al pari della sensazione di morte provata al momento della nascita…. e di quello che avrà provato, sempre nella Mitologia Greca, il leggendario Icaro.
L’egoismo positivo nel rispetto dell’empatia, può essere la soluzione
Pensare a noi stessi, passando attraverso quella parte degli altri che armonizza, sintonizzandosi, con noi. Cari Lettori, in questo periodo di pausa, proviamo a riflettere sulla seguente, preziosa, massima:
“Nessun vento è favorevole per chi non sa dove andare, ma per noi che sappiamo, anche la brezza sarà preziosa”. (Rainer Maria Rilke).
E, soprattutto, cerchiamo di restare un po’ di più, ciascuno con se stesso. Scoprendo la propria, ottima, compagnia. Immaginando (per riprendere il Pensiero di Camus) “Sisifo felice” come se “la lotta stessa verso le vette fosse sufficiente per riempire il cuore di un uomo”.
A quel punto, il gigante di ghiaccio potrebbe anche sorriderci perché, alla stregua del genitore che ha imparato a fidarsi dei propri figli, smetterà di preoccuparci e, addirittura, ci indicherà la via, frutto di sapiente esperienza
Cari Lettori vorremmo accomiatarci augurandovi buone riflessioni con una bellissima melodia del compositore coreano Yiruma (pseudonimo di Lee Ru-ma) dall’evocativo titolo che, tradotto, suona più o meno… “Amore: può essere”.
MAY BE – LOVE
“Una parola delicata, uno sguardo gentile, un sorriso bonario possono plasmare meraviglie e compiere miracoli” (William Hazlitt)
Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo
Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”
Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per la preziosa collaborazione
Direttore Responsabile “La Strad@” – Medico Psicoterapeuta – Vicedirettore e Docente di Psicologia Fisiologica, PNEI & Epigenetica c/o la Scuola di Formazione in Psicoterapia ad Indirizzo Dinamico SFPID (Roma/ Bologna) – Presidente NEVERLANDSCARL e NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS (a favore di un invecchiamento attivo e a sostegno dei caregiver per la Resilienza nel Dolore Sociale) – Responsabile Progetto SOS Alzheimer realizzato da NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS – Responsabile area psicosociale dell’Ambulatorio Popolare (a sostegno dei meno abbienti) nel Centro Storico di Cosenza – Componente “Rete Centro Storico” Cosenza – Giornalista Pubblicista – CTU Tribunale di Cosenza.
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