Come tutte le mattine, all’alba, Carmine aveva già sistemato la sua attrezzatura per la consueta pesca, appena un tantino al di qua della battigia.
Tutto l’armamentario si riduceva a tre canne, di cui, due telescopiche, uno sdrucito ombrellone, una fiasca militare, nera per le macchie d’unto, e che si presume dovesse contenere dell’acqua, la cassetta degli attrezzi per la pesca, uno sgabello e tre catini di plastica, il cui colore era ormai indecifrabile, perché bruciati e rinsecchiti dal sole, come lo era il viso di Carmine…e sì! Non solo il tempo vi si era annidato tra quelle rughe profonde; la salsedine, poi, vi aveva calcificato persino una indecifrabile espressione, che oscillava tra la rassegnazione e l’indifferenza.
La sua media statura si reggeva su di un fisico asciutto, il tutto consolidato da due gambe nerborute, la cui longilinea muscolatura richiamava, ancora, vaghe rassomiglianze con i tondini di ferro.
Carmine era stato, nell’età della baldanza, un provetto marinaio; non di quelli che vanno per mare su mastodontici navigli; egli era stato orgoglioso di quella robusta scialuppa, poderosa nel fasciame e ben armonizzata nelle fiancate, alla quale aveva applicato un motore diesel da 20 cavalli, e con la quale aveva scorazzato per tutto il Tirreno centrale e settentrionale di cui ne conosceva, meglio che un sonar, i fondali, le correnti, i riferimenti costieri; sempre a pescare pregiate qualità di pesce, come: scorfani, merluzzi, spigole, ricciole e crostacei vari; ogni tanto si avventurava nei pressi delle bocche di Bonifacio e la sua nassa rabberciata riusciva a catturare due o tre aragoste; ma di soppiatto, per non incorrere nelle ire dei pescatori sardi che vi esercitavano quel tipo di pesca in esclusiva, quasi vantassero un diritto di usucapione su quel tratto di mare.
I ristoranti delle cinque terre, e giù giù, fin oltre punta Ala, acquistavano tutto il pescato di questo solitario del mare; ed i guadagni dell’estate, spesso cospicui, sopperivano alle necessità di casa, (già, una casa; si fa per dire! Appena due stanzette, un cucinino, il tutto raccolto in un cubo a piano del terreno) durante i forzati riposi invernali; perché Carmine doveva provvedere, oltre che a sé, anche alla propria moglie, una donna minuta il cui viso aveva dimenticato, da tempo, l’espressività del sorriso.
A proposito! Nessuno, nei dintorni, conosceva il cognome di Carmine; nemmeno il postino: E chi mai avrebbe dovuto scrivergli? Il padre lo aveva lasciato orfano all’età di 4 anni, per andare a morire tra le gelide steppe dell’Ucraina nel lontano 1943; e, poco dopo, anche la madre si stancò di vivere.
Poi, un giorno di gennaio, di sette anni prima, la morte benevola aveva interrotto quella vita di solitudine di Nina, la moglie, spesso rattristata dalle lunghe attese diurne e notturne, passate, lì, sulla spiaggia, in attesa del ritorno di Carmine. E Carmine, dacchè rimase solo, smise di andar per mare, riducendosi ad ingannare il tempo che gli restava con quelle tre canne, sfidando l’implacabile calura dell’estate o lo sferzante maestrale invernale, in una continua gara di abilità con la fauna ittica.
Anche la fidata barca giaceva, rinsecchita e decrepita, là, tra la scogliera e il lido.
D’estate, la spiaggia si affollava di bagnanti, di vocii a varie tonalità, di tuffi e giochi acquatici, di motocicli d’acqua e barchini a motore che disturbavano il mondo sottomarino al punto che Carmine poteva pescare, quel poco che riusciva a prendere, o dall’alba fino al primo mattino, o nell’ora dorata del tramonto.
I vacanzieri abituali della zona conoscevano l’abilità di Carmine e, quasi per un tacito accordo collettivo, le file di ombrelloni si fermavano ad una certa distanza dal punto solito dove Carmine ripeteva, con maestosa gestualità, il lancio del filo di nylon alla cui estremità era fissato un piccolo cilindro di piombo e una “pera” fatta con un impasto indecifrabile, ma dall’odore intenso, che nascondeva minuscoli, acuminati e luccicanti ami: la cosiddetta “mazzetta”.
Era, quella, una mistura segreta che Carmine preparava settimanalmente, e che emanava un odore acre ed intenso, nel quale si mischiavano, (o si sopportavano ?) sapori di aglio, di dentifricio, di formaggi vari e lievitati, amalgamati in una spugnosa quantità di pane, già raffermo e, poi, ammollato.
Forse era pure questo strano olezzo a tenere lontani gli ombrelloni e quella varia umanità seminuda.
Non così per i pesci; che accorrevano attratti, anzi, intontiti da quella “pastura”: e fu solo per un caso che “Goletta Verde” non dichiarasse il divieto di balneazione per quel lido.
In contemporanea, alle prime ore del mattino, su quella spiaggia, piantava il proprio ombrellone anche una famigliola di turisti, perché doveva garantire la talassoterapia ad un frugolino di circa nove mesi :mentre un altro loro figlio, un bambino più grandicello – doveva avere appena 7/8 anni – giocava svogliatamente col variopinto pietrisco della spiaggia; al piccolo non sfuggì quella complessa ritualità che Carmine compiva ogni mattina, sul limitare della battigia; Luigino ( era questo il nome del bambino) cominciò ad avvicinarsi a debita distanza dal vecchio pescatore, affascinato da quella frustata secca della canna da pesca che saettava nel cielo il suo ingannevole pasto, e che terminava il suo tuffo ad oltre 100 metri di distanza; la cosa dovette seccare, dapprima, Carmine; specialmente quando raccoglieva, col gracchiare metallico del mulinello, la lenza, spolpata del cibo, e gli acuminati ami spogli di prede.
Uno sguardo, appena torvo, pioveva, come una bestemmia, su quel bambino, che restava lì, incantato dalla maestria di Carmine. Poi, una mattina, ecco vibrare e torcersi, quasi fino a spezzarsi, la prima canna: Carmine balzò, ratto come un felino ed afferrò canna e filo, mentre, col mulinello, armeggiava come se guidasse una Ferrari; fu una lotta di destrezza e strategia; a volte sganciava la frizione del mulinello, ed allora avresti visto quell’argenteo filo zigzagare verso il largo; poi, quando cessava la trazione disperata della preda, cominciava la pazienza e la tecnica di Carmine che ripigliava il dominio sulla situazione; Luigino guardava con gli occhi sgranati dalla eccitazione, ed il suo respiro ritmato riecheggiava, forse, la tensione del pescatore, impegnato a vincere quella lotta, fatta di scarti improvvisi, di finzioni, di abbandoni languidi e di improvvisi guizzi del pesce catturato.
Quel tira e molla durò quasi mezzora; alla fine, esausta, cominciò ad affiorare la magnifica preda: era una cernia le cui dimensioni avrebbero eccitato qualsiasi sub.
Luigino gridò la sua gioia con una serie di “Bravo! Bravo!” all’indirizzo di Carmine: Fu quella, l’unica volta, negli ultimi sette anni, che Carmine atteggiò la sua bocca ad un lieve sorriso; ma erano i suoi occhi che brillavano più che le argentee squame del pesce. Fu così che, per quel mese d’agosto, Luigino trovò un compagno di giochi, ma fu Carmine a riconciliarsi con la vita.
Quello scorcio di Agosto sembrò volare, mentre già le giornate cominciavano ad accorciarsi; in compenso, crebbe intensamente quel rapporto d’affetto e di stima reciproca tra Luigino e Carmine.
E fu proprio negli ultimi giorni che il vecchio Carmine avviò Luigino alla pratica della pesca; dapprima, affidando al ragazzo la canna senza mulinello, ma, nel contempo, insegnandogli a “sentire” quelle impercettibili vibrazioni della lenza, da non confondere con l’ondeggiare prodotto dalla risacca, e a sostenere l’attrezzo avvolgendolo con il palmo della mano, e a farlo bilanciare tra le falangi del dito indice e mignolo ed il pollice; e le dita tenue, delicate, rosate di vita e di freschezza di Luigino ridavano gioia e forza alle nerborute, callose mani di Carmine, mentre questi insegnava la posizione della mano, al bambino, sul manico della lenza, allo stesso modo come fa un maestro quando sistema le dita dell’allievo sull’archetto del violino.
I genitori di Luigino apprezzarono molto quel rapporto di tenera amicizia tra il vecchio ed il bambino, e l’ultimo giorno di vacanza vollero trascorrerlo sulla spiaggia, insieme a Carmine, sotto il loro ombrellone non solo per manifestare la loro simpatia, ma, forse, per rendere meno malinconico, ad ambedue gli amici, l’inevitabile distacco.
Il giorno dopo, Carmine ritornò sul lido, ma non aveva, con sé, né canne, né l’armamentario solito; il suo sguardo vagò sulle onde, poi spaziò per tutta la spiaggia, ormai solitaria, ma gli sembrò di udire, nel cadenzare della risacca, l’eco lontana di un “ciao!”, che gli scaldò il cuore per tutto quell’anno, per tutta la vita.
Giuseppe Chiaia (preside)- 6 settembre 2003
Fine Letterato, Docente e Dirigente scolastico, ha incantato generazioni di discenti col suo vasto Sapere. Ci ha lasciato (solo fisicamente) il 25 settembre 2019 all’età di 86 anni. Resta, nella mente di chi lo ha conosciuto e di chi lo “leggerà”, il sapore della Cultura come via maestra nei marosi della Vita