Per consentire una sconfinata giovinezza. Fino alla fine.
A spasso verso un futuro migliore
Di solito, chi collabora, si ringrazia alla fine. Questa volta, però, sento il bisogno di farlo, prima che inizi la lettura dell’articolo. Senza l’aiuto di Emanuela Governi, Erminia Acri, Lina Gentile e Marilena Dattis, chissà quando avrei potuto pubblicarlo!
“Cambia ciò che è superficiale e anche ciò che è profondo. Cambia il modo di pensare, cambia tutto in questo mondo. Cambia il clima con gli anni; cambia il pastore il suo pascolo e, così, come tutto cambia…che io cambi non è strano. Cambia il più prezioso brillante, di mano in mano il suo splendore. Cambia nido l’uccellino; cambia il sentimento degli amanti. Cambia direzione il viandante, sebbene questo lo danneggi e, così, come tutto cambia che io cambi non è strano. Cambia il sole nella sua corsa quando la notte persiste; cambia la pianta e si vestedi verde in primavera. Cambia il manto della fiera; cambiano i capelli dell’anziano e, così, come tutto cambiache io cambi non è strano. Ma non cambia il mio amore, per quanto lontano mi trovi; né il ricordo né il dolore della mia terra e della mia gente. E ciò che è cambiato ieri, di nuovo cambierà domani, così come cambio io in questa terra lontana. (Todo Cambia – Mercedes Sosa)
Situazione numero 1 – La morte di Ivan IL’Ic (Lev Nikolaeviè Tolstoj)
La morte di Ivan Il’iè, pubblicato per la prima volta nel 1886, è un racconto di Lev Nikolaeviè Tolstoj. È una delle opere più celebrate del grande artista. Tema centrale della storia è quello dell’uomo di fronte all’inevitabilità della morte. La storia della vita del giudice Ivan IL’Ic Golovin, consigliere della Corte d’Appello di San Pietroburgo, era “la più semplice, la più comune e la più terribile”. Figlio di un alto funzionario del governo, “membro inutile di numerose inutili istituzioni”, aveva studiato giurisprudenza ed era diventato giudice istruttore di una remota provincia. Dopo diversi anni, era riuscito ad ottenere il trasferimento nella capitale, con conseguente promozione ed aumento di stipendio. Proprio mentre sta arredando la nuova casa a San Pietroburgo, però, cade dalla scala su cui era salito per mostrare al tappezziere come fissare le tende e sbatte col fianco sulla maniglia della finestra. Sul momento sembra una cosa da nulla, ma con l’andar del tempo inizia a manifestarsi un malessere proprio in corrispondenza del punto in cui la maniglia l’aveva colpito. Il dolore cresce costantemente ed evolve in una misteriosa malattia, a cui i medici non sanno dare un nome e per cui, nessuno riesce a trovare un rimedio. Ivan IL’Ic si trova, ben presto, di fronte ad un male incurabile, ormai chiaramente in stadio terminale. Una sorda disperazione prende il protagonista, che non riesce a capire il significato della sua mortalità. Aveva sempre saputo, certo, di essere un mortale, però la concreta prospettiva di dover morire, lo inquieta. Cerca di pensare ad altro, si butta nel lavoro, ma senza risultati, “Lei” si riaffaccia di continuo alla sua mente. Durante la malattia, si forma l’idea che, se non avesse vissuto una vita giusta, la sofferenza e la morte avrebbero avuto un senso. Ma lui era sempre vissuto onestamente, e tutto questo non si spiegava. Inizia ad odiare i familiari, la loro pretesa che lui sia solo ammalato e non moribondo, il loro superficiale tentativo di evitare il tema della sua morte. L’unico conforto gli viene dal servo Gerasim, un ragazzo di origini contadine, l’unico a non avere paura della morte e l’unico, in definitiva, a mostrargli compassione. Ivan inizia a domandarsi se avesse, in realtà, vissuto giustamente. Negli ultimi giorni, il protagonista inizia a tracciare un confine tra la vita artificiale, sempre condotta da lui e dalla sua famiglia, dominata dall’interesse, dal timore per la morte e dall’occultamento del vero significato dell’esistenza e la vita vera, quella di Gerasim, dominata dalla compassione. Verso la fine, una “strana forza” lo colpisce al petto, al fianco, gli mozza il respiro. Ivan IL’Ic si sente risucchiato nel buco nero della morte, in fondo a cui, però, scorge una luce. Scopre che la sua vita non era stata come avrebbe dovuto essere, ma a questo si poteva ancora porre rimedio. Sente che il figlio gli bacia la mano, vede la moglie in lacrime. Non li odia più, ma prova pietà per loro. Un sollievo lo pervade, mentre si accorge di non aver più paura della morte, perchè la morte non c’è più, sostituita dalla luce. Esclama ad alta voce “Che gioia!”. In mezzo ad un respiro, Ivan muore. (Angelo Maria Ripellino – Fonte Wikipedia)
Tutti godevano di buona salute. Non si poteva certo chiamare malattia quello strano sapore che Ivan Il’ic sentiva di tanto in tanto in bocca, o quel fastidio alla parte sinistra del ventre.
La moglie concluse che doveva assolutamente farsi curare e insistette perché consultasse un noto medico. Egli ci andò. Tutto fu come si aspettava; tutto come sempre avviene. L’attesa in anticamera, il tono d’importanza dottrinale ch’egli conosceva bene, perché era lo stesso che usava in tribunale, i colpetti delle dita, l’auscultazione, le domande che richiedevano risposte predeterminate e inutili e quell’aria solenne che diceva: voi non dovete far nulla, affidatevi a noi, facciamo tutto noi, noi sappiamo bene, infallibilmente, quello che si deve fare, chiunque voi siate, tutti gli uomini vanno presi alla stessa maniera. Esattamente come in tribunale. Il noto dottore teneva verso di lui lo stesso contegno che Ivan Il’ic teneva in tribunale verso gli imputati.
Non era in gioco la vita di Ivan Il’ic, ma la disputa fra rene mobile e intestino cieco.
Ivan Il’ic si creò la convinzione di essere molto ammalato. E capì che la cosa non importava un gran che al dottore, in fondo, nemmeno agli altri, ma lui stava male. La scoperta lo ferì dolorosamente, suscitandogli un sentimento di pena verso se stesso e di rabbia verso il dottore, indifferente a una questione tanto importante.
Il dolore al fianco lo estenuava, era aumentato, divenuto castante; in bocca quel sapore sempre più strano.
Qualcosa di tremendo, di nuovo, di sostanziale era entrato nella sua vita, qualcosa che non si era mai verificato prima. Soltanto lui lo sapeva, tutti gli altri non capivano o non volevano capire e credevano che le cose stessero come prima.
Così passò un mese e poi anche un altro. Per Capodanno venne in città il cognato e si fermò da loro. Arrivò mentre Ivan Il’ic era in tribunale e Praskov’ja Fedorovna fuori per acquisti. Rientrando nel suo studio, Ivan Il’ic lo trovò lì, un tipo florido e sanguigno che stava disfando le valige. Sentendo i passi di Ivan Il’ic alzò la testa e lo guardò un attimo in silenzio. Quello sguardo rivelò a Ivan Il’ic ogni cosa. Il cognato aprì la bocca per esprimere il suo stupore, ma si trattenne. Quel movimento confermò tutto. “Beh, sono cambiato?” – “Si… effettivamente si nota un certo cambiamento”.
La porta che dava sulla sala da pranzo era chiusa. Si avvicinò in punta di piedi e stette in ascolto. “Ma no, esageri” – diceva Praskov’ja Fedorovna. “Come, esagero? Non lo vedi che è un uomo morto? Guardagli gli occhi. Sono spenti. Ma cos’ha?” – “Nessuno lo sa. Nikolaev (uno dei medici) ha detto una cosa. Lescetickij (la celebrità) ha detto il Contrario…”
Ivan Il’ic vedeva che stava morendo ed era in stato di disperazione continua. In fondo all’anima, lo sapeva bene, ma non solo non era abituato a quest’idea, ma non la capiva proprio.
Non si poteva dire come fosse avvenuto al terzo mese della malattia di Ivan Il’ic, giacché la cosa si produsse a poco a poco, impercettibilmente, ma si verficò ciò che la moglie, la figlia, il figlio, la servitù, i conoscenti, i medici e soprattutto lui sapevano. Scoprì che l’unico interesse che la sua persona rappresentava per gli altri si riduceva alla scadenza, vicina o lontana, nella quale avrebbe sgomberato il posto, liberato i vivi dall’impaccio della sua presenza e liberato se stesso dalla propria sofferenza. Dormiva sempre meno;gli davano dell’oppio, cominciarono a somministrargli la morfina. Ma tutto ciò non gli dava sollievo.
Gerasim sorrise di nuovo e si preparò a uscire. Ma Ivan Il’ic si sentiva così bene con lui che non voleva lasciarlo andare. “Senti, accostami per favore quella sedia. No, quell’altra, mettimela sotto i piedi. Sto meglio quando ho i piedi in alto!” Gerasim portò la sedia, la posò senza far rumore, con delicatezza, sul pavimento, e vi appoggiò i piedi del padrone. A Ivan Il’ic parve subito di star meglio, mentre Gerasim gli sollevava le gambe. “Sto meglio, quando ho i piedi in alto” – ripeté Ivan Il’ic – “Mettici anche quel cuscino”.
A tarda notte tornò la moglie. Entrò in punta di piedi, ma egli la sentì: aprì gli occhi e subito li richiuse. Lei voleva mandare via Gerasim e rimanere al suo posto. Allora Ivan Il’ic aprì gli occhi e disse: “No, vai via”. “Soffri molto?” – “Sempre uguale”. – “Prendi dell’oppio”. Egli acconsentì e bevve. La moglie uscì. Fino alle tre restò immerso in un tormentoso dormiveglia. Gli sembrava che volessero ficcarlo a forza in un sacco nero, stretto e profondo e che cercassero di spingerlo sempre più giù senza riuscirvi.
“Di che cosa hai bisogno?” – si ripeteva – “Di che cosa? Di non soffrire. Di vivere” rispondeva a se stesso. E di nuovo si abbandonò all’ascolto con tale tensione che neppure il dolore lo distolse. “Vivere? Come vivere?” – Chiedeva la voce all’anima -“Sì, vivere come vivevo prima: bene, piacevolmente” – “Perché, prima vivevi bene e piacevolmente?” – chiedeva la voce. Egli cominciò a passare in rassegna i minuti migliori della sua piacevole vita. Ma stranamente quei minuti ora non gli apparivano più tali. Nessuno, tranne i primi ricordi dell’infanzia. Proprio lì, nell’infanzia, c’era qualcosa di davvero piacevole con cui avrebbe potuto vivere, se solo fosse tornato indietro.
“Forse non ho vissuto come dovevo” gli venne in mente all’improvviso.
Praskov’ja Fedorovna cominciò a parlare di medicine. Egli spostò lo sguardo su di lei che non poté terminare il discorso, tanto era l’odio che quello sguardo esprimeva, proprio nei suoi confronti. “Per carità di Dio, lasciami morire in pace” disse. Lei stava per uscire, ma in quel momento entrò la figlia. Si avvicinò per salutarlo. Egli la guardò come aveva guardato la moglie e alle sue domande circa la salute, rispose bruscamente che presto avrebbe liberato tutti dalla sua presenza. Le due donne tacquero, rimasero sedute ancora un po’, poi uscirono.
Il medico arrivò alla solita ora. Ivan Il’ic gli rispondeva a monosillabi, senza togliergli di dosso il suo sguardo incattivito e, sul finire della visita, disse: “Lo sapete anche voi che non c’è niente da fare, lasciate perdere” – “Possiamo alleviare le sofferenze” – disse il dottore – “Nemmeno quest potete, lasciate perdere”.
Il dottore parlava di sofferenze fisiche, e aveva ragione; ma peggiori di quelle fisiche erano le sofferenze morali, anzi erano queste il suo maggiore tormento. E le sue sofferenze morali derivavano dal fatto che quella notte, osservando il viso bonario e assonnato di Gerasim gli era balenato all’improvviso il pensiero che effettivamente la sua vita, tutta la sua vita cisciente, non era stata vissuta nel modo giusto.
In quei tre giorni per lui senza tempo, si dimenò in quel sacco nero, dove l’aveva ficcato una forza invisibile e invincibile. Si dibatteva, come si dibatte nelle mani del carnefice il condannato a morte, quando sa di non potersi salvare; e di minuto in minuto sentiva che, malgrado tutti gli sforzi per resistere, si avvicinava irrimediabilmente a ciò che più lo riempiva di orrore. Sentiva che il tormento era nell’essere risucchiato dentro quel buco nero e, ancor più, nel non riuscire a entrarvi.di colpo gli fu chiaro che, ciò che lo tormentava senza lasciarlo libero, si era improvvisamente staccato. Provava pietà per i suoi familiari, voleva fare in modo che non soffrissero. Doveva liberarli da quelle sofferenze. “Com’è bello, com’è semplice” – pensò. “E il dolore?” – si domandò – “Dov’è andato a finire?”
Si mise in acolto. Cercò la sua solita paura della morte ma non la trovò. Al suo posto, la luce.
“Ah!” – esclamò d’un tratto a voce alta – “Che gioia!”
Avvenne tutto in un attimo e il significato di quell’attimo non cambiò più. Per i familiari la sua agonia durò ancora due ore. Qualcosa gorgogliava nel suo petto; il corpo sfinito sussultava. Poi il gogoglio e il rantolo si fecero più rari. “E’ finita!” – pronunciò qualcuno sopra di lui. Egli udì quelle parole e le ripeté nel proprio animo. “Finita la morte” – disse a se stesso. “Non c’è più”. Trasse un respiro, si fermò a metà, si distese e morì.
Situazione numero 2 – La leggenda del pianista sull’oceano (parte finale)
La leggenda del pianista sull’oceano è un film del 1998 diretto da Giuseppe Tornatore, tratto dal monologo Novecento di Alessandro Baricco..
Danny Boodman, un macchinista nero del transatlantico Virginian , trova un neonato abbandonato in una cassetta di limoni nella prima classe della nave. Gli dà come nome il proprio, Danny Boodman, aggiungendovi la dicitura presente sulla cassetta in cui lo ha trovato (“T.D. Lemon”) ed il secolo dell’anno in cui ha trovato il bambino (nel gennaio del 1900) “Novecento”: Danny Boodman T.D. Lemon Novecento. Il bambino vive così i primissimi anni della sua infanzia nella sala macchine del piroscafo, salvo poi uscirne conoscendo e conquistandosi la simpatia dei restanti membri dell’equipaggio. In seguito alla morte accidentale del padre adottivo, dovuta ad un incidente causato dai grossi lavori nella sala macchine (una carrucola impazzita lo colpisce alle spalle), il fanciullo riesce a sottrarsi ai poliziotti che, dietro ordine del capitano Smith, dovevano prelevarlo e consegnarlo presso un orfanotrofio; scompare per giorni interi, ma infine, con somma sorpresa di tutti, si fa ritrovare una notte in prima classe mentre suona il pianoforte con eccezionale bravura.
Col passare degli anni diventa il pianista della nave, suonando per i passeggeri durante le serate e per conto proprio, in terza classe, con un altro pianoforte. Molti anni dopo, senza essere nel frattempo mai sceso dal transatlantico, conosce Max Tooney, un trombettista con il quale suonerà per molti anni e stringerà una solida amicizia. La notizia della sua bravura come improvvisatore ed esecutore si diffonde, al punto da condurre da lui un altro pianista, il famoso Ferdinand Morton, che lo sfiderà in un duello all’ultima nota. Nonostante l’apparente superiorità di questo nell’esecuzione di brani al pianoforte come “The Crave”, risulta infine evidente l’abilità di Novecento, che si aggiudica la vittoria del duello eseguendo un exploit della famosa melodia eseguita a più mani “Enduring Movement”. Jelly Roll Morton rimarrà chiuso nella sua stanza per tutta la durata del viaggio e scenderà al primo scalo.
Novecento non cede alle ripetute esortazioni dell’amico a scendere dalla nave ed andare incontro alla fama ed al successo: un impresario aveva anche approntato una sala di registrazione sulla nave per incidere la sua musica, arrivando a generare una lacca che, lo stesso Novecento, poi distrugge opponendosi con tenacia all’idea di immortalare la musica su un disco, gesto dettato anche da una delusione amorosa nei confronti di una passeggera, alla quale aveva tentato invano di regalare la copia unica. Arriva anche un giorno in cui è sul punto di sbarcare, ma fermatosi sul pontile con valigia e soprabito, con l’intero equipaggio pronto a seguire l’evento, dopo avere guardato il paesaggio cambia idea e torna sui suoi passi. Resta così a bordo anche quando Max lo lascia, all’alba della Seconda Guerra Mondiale, per andare a cercare fortuna altrove. Diversi anni dopo, quando il transatlantico è in disarmo e ormai prossimo a essere affondato con una esplosione, Max vi ritrova l’amico, nel rudere di quel mostro che era, ormai, divenuta, l’imbarcazione. Dopo un ultimo tentativo per convincerlo a scendere, Max capisce che Novecento è intenzionato a morire insieme alla sua nave. (Fonte Wikipedia)
– Pensa ora, quante cose avresti da raccontare! Il mondo penderebbe dalle tue labbra, impazzirebbe per la tua musica. Credimi!
– Tutta quella città, non si riusciva a vederne la fine, la fine! Per cortesia, si potrebbe vedere la fine? Era tutto molto bello su quella scaletta e io ero grande con quel bel cappotto. Facevo il mio figurone e non avevo dubbi che sarei sceso, non c’era problema. Non è quello che vidi che mi fermò, Max, è quello che non vidi. Puoi capirlo? Quello che non vidi! In tutta quella sterminata città c’era tutto, tranne la fine. C’era tutto. Ma non c’era una fine! Quello che non vidi è dove finiva tutto quello. La fine del mondo. Tu pensa a un pianoforte: i tasti iniziano, i tasti finiscono. Tu lo sai che sono ottantotto e su questo nessuno può fregarti! Non sono infiniti loro… tu, sei infinito e, dentro quegli ottantotto tasti, la musica che puoi fare è infinita! Questo a me piace! In questo posso vivere! Tu mi inviti ad uscire da questa nave su cui sono nato e da cui non sono mai sceso, se io salgo su quella scaletta e davanti a me si srotola una tastiera di milioni di tasti, milioni e miliardi di tasti che non finiscono mai (e questa è la verità) io, poi, che faccio? Ma se quella tastiera è infinita, allora, su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare e sei seduto sul seggiolino sbagliato. Quello è il pianoforte su cui suona Dio. Cristo! Ma le vedi le strade? Anche soltanto le strade! Ce ne sono a migliaia! Ma dimmelo, come fata voi altri laggiù a sceglierne una? A scegliere una donna? Una casa? Una terra che sia la vostra? Un paesaggio da guardare? Un modo di morire? Tutto quel mondo addosso… che nemmeno sai dove finisce e quanto ce n’é… ma non avete paura, voi, di finire in mille pezzi solo a pensarla, quell’enormità? A viverla? Io ci sono nato su questa nave e, vedi, anche qui il mondo passava. Ma non più di duemila persone per volta. E di desideri c’erano. Ma non più di quelli che ci potevano stare su una nave, tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato a vivere in questo modo. La terra è una nave troppo grande per me, è una donna troppo bella, è un viaggio troppo lungo, è un profumo troppo forte, è una musica che non so suonare. Non scenderò dalla nave, al massimo posso scendere dalla mia vita, in fin dei conti è come se non fossi mai nato. Sei tu l’eccezione Max, solo tu sai che sono qui. E sei una minoranza e non ti resta che adeguarti. Perdonami, amico mio, ma io non scenderò!
Situazione numero 3 – Film “Il miglio verde” – dialogo tra John Coffey e Paul Edgecombe.
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Il miglio verde (The Green Mile) è un film del 1999 diretto da Frnk Darabond, tratto dal romanzo omonimo di Stephen King.
È il 1999 e il vecchio Paul Edgecombe, che vive da alcuni anni presso una casa di riposo, è tormentato da incubi ricorrenti. Un giorno, durante la visione del film in bianco e nero “Cappello a cilindro” (con Ginger Rogers e Fred Astaire), scoppia a piangere e, accompagnata l’amica Elaine in una stanza, inizia a raccontarle la storia dell’anno in cui conobbe John Coffey.
È il 1935 e Paul lavora nel braccio E del carcere di Cold Mountain, il “Miglio Verde”, così chiamato dalle guardie perché, i detenuti condannati a morte, vi percorrono il loro ultimo miglio. Paul infatti spiega che di solito il braccio della morte nelle prigioni è chiamato “Miglio Verde”: si tratta del pavimento, color cedro appassito, simile al verde, che conduce fino alla sedia elettrica, ribattezzata “la vecchia scintillante”.
Tutto cambia incredibilmente quando John Coffey, un enorme uomo di colore apparentemente ritardato mentale, giunge nel braccio della morte, condannato per aver stuprato e ucciso due gemelline, Cora e Kate Detterick. John si mostra fin dall’inizio molto fragile: piange di notte, è silenzioso e chiede a Paul di lasciare una luce sempre accesa perché ha paura del buio. Sono molti i segreti di quell’uomo e Paul decide di leggere i verbali dell’udienza per capire cosa abbia fatto e soprattutto perché.
Durante lo scorrere della storia, si scoprirà che John Coffey non era colpevole dell’omicidio. Questo, però, non basta ad evitargli la condanna capitale. Il giorno prima dell’esecuzione, Paul entra nella cella di John e inizia un lungo, “toccante” discorso.
“John: Ciao, capo.
Paul: Ciao John. Sai già che ci stiamo avvicinando ormai, mancano un paio di giorni. Vorresti qualcosa di speciali per cena, quella sera? Possiamo rimediarti più o meno di tutto.
John: Mi piacerebbe un arrosto e le patate al forno con la salsa, dell’okra, magari anche un pò di quella buona focaccia che fa tua moglie, se non le dispiace.
Paul: Non vorresti parlare con un prete, qualcuno con cui dire una piccola preghiera.
John: Non voglio nessun prete. Tu puoi dire una preghiera, se vuoi.
Paul: Io? Immagino di sì, se fosse necessario. John…., devo chiederti una cosa molto importante ora.
John: So cosa mi vuoi chiedere, non c’è bisogno di dirlo.
Paul: No, devo farlo, devo, devo chiedertelo. John… Dimmi cosa posso fare per te! Vuoi che ti lasci uscire di qui? Eh? Che ti lasci scappare? Vedi fin dove puoi arrivare?
John: Perchè faresti una cosa tanto stupida?
Paul: Quando sarò al cospetto di Dio Padre, il giorno in cui mi giudicherà e mi chiederà perché mai io ho ucciso uno dei suoi figli, miracoli viventi, che cosa gli dovrò rispondere? Che era il mio mestiere?…Il mio mestiere…
John: Tu devi dire a Dio Padre che hai fatto una gentilezza. Lo so che soffri e ti preoccupi, te lo sento addosso, ma adesso però la devi smettere. Io voglio farla finita una volta per tutte, davvero! Sono stanco, capo. Stanco di andare sempre in giro solo come un passero nella pioggia. Stanco di non poter aver mai un amico con me, che mi dica dove andiamo, da dove veniamo e perché. Sono stanco soprattutto del male che gli uomini fanno ad altri uomini. Sono stanco di tutto il dolore che io sento e ascolto nel mondo ogni giorno. Ce n’è troppo per me, è come avere pezzi di vetro conficcati in testa sempre, continuamente. Lo capisci questo?
Paul: Sì, John, credo di sì. Beh.. ci deve essere qualcosa che possaimo fare per te, John, avrai qualche desiderio?
John: Non ho mai visto una di quelle pellicole….” (Il cappello a Cilindro)
In queste tre situazioni, abbiamo potuto assistere a tre modi (e momenti diversi) di avvicinarsi alla fine del proprio ciclo, attraversando, ciascuno a modo proprio, l’ultimo miglio. Nel primo esempio, possiamo osservare il declino e l’angoscia di un uomo che non viene capito, che si sente di peso e che vorrebbe togliersi di mezzo, per alleviare le sofferenze dei propri congiunti. Nella seconda situazione, apprezziamo la posizione di chi ha paura del cambiamento e del nuovo, tentando di restare aggrappato al conosciuto, fino alle estreme conseguenze. In ultimo, ci troviamo di fronte ad un uomo che non può più sopportare il male e il peso della solitudine (quella che tocca alle persone “diverse”). E preferisce andar via.
Cos’è l’onore delle armi?
E’ un particolare tributo militare che si concede all’avversario, che ha perso, quando la contesa è stata onorevole, anche se cruenta, ed entrambi gli schieramenti, soprattutto quello che perde, hanno mostrato coraggio, onore e dignità. E allora la procedura è la seguente: l’esercito vittorioso schiera due ali di soldati che rendono onore al passaggio dei militari sconfitti, il cui comandante (o il più alto in grado, se il comandante è morto in battaglia) mantiene la sciabola dritta come se avesse vinto, e l’esercito sconfitto passa in rassegna le truppe vittoriose. Questo è qualcosa che si verifica non spesso, ma in quelle particolari circostanze.
Nella vita di tutti i giorni, quando qualcuno si trova in condizioni di fficoltà, dopo aver combattutto sulle barricate esistenziali e si è distinto con onore, anche se ha avuto un oscuro ruolo da mediano, è compito del caregiver (tutti coloro che lo circondano e che partecipano all’assistenza), curarlo e onorarlo, senza fargli perder la dignità dell’appartenenza al genere umano.
Quando una persona si trova a doversi confrontare con una situazione di salute precaria, come la si può aiutare ad agire, per reagire, anche quando, in apparenza, c’è ben poco da fare? Quanto contano i farmaci e quanto, il calore umano?
In questa immagine, una persona a letto in un ospedale. Presumibilmente uno di quegli ospedali che vediamo in televisione, efficientissimi, eccellenti, puliti, che garantiscono il massimo in termini di terapia con un sanitario che si occupa di chi sta soffrendo. Un ambiente abbastanza asettico con, alle spalle, il dolore.
Questa istantanea, invece, è diversa. Potremmo più raffrontarla ad una situazione che viviamo ogni qualvolta, dalle nostre parti, è il medico che, di fronte alla persona che ha un problema, cerca di essere rassicurante. Certo, stetoscopio e camice, mettono il medico in una posizione di superiorità rispetto alla persona in difficoltà: ma è il gioco dei ruoli.
Come potrebbe progredire ed evolvere una situazione del genere, che quel medico sicuramente sarebbe in grado di gestire?
In questa immagine, al centro, vediamo qualcuno che sta sullo stesso piano dell’altro, medico, infermiere o chi vogliamo immaginare, che compartecipa, sul piano dello stato d’animo, alla situazione dell’altro. La mano destra che accarezza, stringendo (ma non eccessivamente) la mano destra della persona che sta a letto… e la mano sinistra che accarezza l’avambraccio. È come se volesse trasmettere amore, condivisione e accettazione completa di tutto ciò che ha portato quella persona a stare in quel modo.
E quella persona (che, a giudicare dalle unghie dovrebbe essere una donna) in quel momento (possiamo vederlo nel riquadro che sta a destra) probabilmente sta tornando indietro, con la propria memoria, a quando era bambina.
Possiamo apprezzare degli aironi sullo sfondo, una sensazione di libertà, un lago, un “andare” senza “lasciarsi andare”: è fondamentale come differenza.
Forse perché si sta preparando alla morte?
Non necessariamente. Può darsi che stia ricominciando da dove ha lasciato i momenti più felici, quando era bambina, per riprendere il cammino e rigiocarsi una partita che non è ancora finita.
Quindi, il sollievo dal dolore non è un mostrarsi vili di fronte alla sofferenza: questo lo ha capito anche lo Stato italiano. Infatti c’è una legge che garantisce il massimo dell’assistenza per le persone che soffrono, sia psicologicamente che fisicamente, concedendo la possibilità di assumere dei farmaci analgesici che fino a non molto tempo fa era difficile reperire e poter offrire a questi individui.
Noi possiamo stare accanto alla persona, ma il nostro compito non si esaurisce lì. Il nostro compito deve andare oltre, deve consistere nell’aiutare la persona, non a convincerla, ma aiutare la persona a cercare in ogni anfratto della propria memoria i motivi per continuare. Noi dobbiamo andare, come si fa con i campanacci o con i fischietti quando ci si reca sul posto di una slavina, di un naufragio, di un atterraggio di emergenza di un aereo che si è disintegrato (per cui bisogna cercare i superstiti) e si cerca di richiamare l’attenzione affinché qualcuno possa dire “Sono qui, sono qui! Venitemi a salvare!” Ecco, il calore umano svolge quella funzione. Svolge la funzione di richiamare l’attenzione delle parti migliori di quella persona, affinché quella persona possa dire “Sono tornata. Quindi, grazie alla tua presenza sono disponibile a far sì che insieme possiamo combattere”.
“Lo senti questo silenzio come pesa? L’aria si fa fredda all’improvviso e mi avvolge, creando una barriera sulla mia pelle, ad impedire al calore di penetrare. Apro leggermente gli occhi ma non riesco a vedere molto, se non che una debole luce che, fioca, entra nella mia stanza, ad illuminare solo un poco, un frammento di pensiero che sfugge alla mia mente. Non riesco a sollevarmi, una forza mi trattiene trascinandomi, ma nello stesso tempo sento di volare sempre più in alto. In lontananza una macchina che passa, non voglio guardare l’orologio, ho paura che sia ancora troppo presto, troppo lontano il momento di svegliarsi. Il silenzio più assoluto in questo momento è tangibile e reale ed io che pensavo fosse solo un’invenzione! Provo a spostare, mi giro velocemente più e più volte, a stancarmi e a creare del rumore, ma il fruscio delle lenzuola è troppo debole per svegliarmi completamente. E allora provo ad usare il senso delle mani. Sfioro il mio cuscino, i miei cuscini, in verità dormo nel mezzo, e la mia testa posa fra di loro e non su di loro, e la mia mano incontra l’altra. Percepisco il freddo sulle dita e mi accarezzo. Sono immobile, non mi alzo. Cerco di scacciare questo peso, l’oppressione che paralizza ogni pezzetto di me. Sai cos’è? Il senso della solitudine”.(F. Annesi)
In una persona anziana, si può stimolare la ricerca di una motivazione, se da sola non riesce a trovarla? Insomma, chi lo circonda, può dargli ancora motivazioni per continuare con dignità?
Quella signora che cade sotto il peso delle fascìne rappresenta la nostra vita arrivata ad un certo punto: quando il peso è eccessivo rispetto alla nostra capacità di sopportazione. Lei cade, tenta di rialzarsi però, probabilmente, non ce la farà, perchè quello che ha sulle spalle, è il peso di tutto ciò che ha fatto, cui si somma il peso dello sguardo degli altri, di quello sguardo che, attraverso principi di pregiudizio o altro, alla fine quasi quasi ti invita a toglierti di mezzo, perché altri sono più veloci, hanno altri interessi, altre performance da realizzare e tu sei soltanto un ostacolo.
E quindi?
Diverso, invece, è quello che possiamo ricavare da questa immagine. Guardando sulla sinistra, vediamo due mani di un “vecchio” (uno di quelli che ha fatto la storia… la sua e quella di molti altri) che stringono saldamente un bastone. Questo ci significa che costui ha, ancora, molto da dare, molto da esprimere.
Potrebbe cadere?
Forse. Ma si è “piantata” lì come esempio da osservare, da onorare, perché rispecchia principi di valore intenso. Quel bastone può dare origine a tutto, ma sicuramente è un punto d’arrivo cui noi possiamo agganciarci, per sentirci sicuri. Senza alcun interesse a superarlo. E’ come quando ci rivolgiamo ad un genitore, ad un nonno: perché? Per sentire quello che ha da dirci circa un nostro problema, certo. Ma in realtà per sentire la sua capacità di generare tranquillità, da cui potrà venir fuori la sicurezza interiore. Addirittura la nostra. Ecco, questo si potrebbe ad un “nonno” così: “Tu ci sei indispensabile perché ci indichi una strada e ci ricordi il valore per cui vale la pena di percorrerla”.
Una sconfinata giovinezza
Film del 2010, scritto e diretto da Pupi Avati, descrive la storia di Lino Settembre e sua moglie Chicca, che conducono una vita coniugale serena e senza serie difficoltà. Sono entrambi soddisfatti delle loro professioni, lui prima firma alla redazione sportiva del Messaggero e lei docente di Filologia Medievale all’Università Gregoriana. L’unico vero dispiacere che ha accompagnato i venticinque anni di matrimonio è la mancanza di figli. Una mancanza che non ha compromesso la loro unione ma l’ha al contrario rinsaldata. L’oggi però, in modo totalmente inatteso, presenta loro una grossa preoccupazione: Lino da qualche tempo accusa problemi di memoria che mano a mano si accentuano andando a compromettere in modo sempre più evidente il quotidiano svolgersi delle sue attività sia nell’ambito professionale che familiare. Dapprima sia lui che Chicca decidono di riderci sopra ma il disturbo si manifesta sempre più fino a quando, dopo attenti e approfonditi esami, un neurologo diagnostica una patologia degenerativa delle cellule cerebrali (M. di Alzheimer). La malattia scombussola molto la relazione tra i due con Francesca che, mossa da amorevoli sentimenti, si ritrova tra mille dubbi ed angosce a dover trattare come un figlio piccolo il proprio marito pur di stargli vicino ed evitargli la sofferenza del ricovero.
Lino: “Era una caccia al tesoro. E c’erano tanti ragazzi e tante ragazze. Ma uno solo di loro vinse quella caccia al tesoro. Il premio era quello di poter guardare una ragazza e farla diventare la più bella di tutte”.
Lo stesso amore di quando erano ragazzi li aveva accompagnati fino ad oggi, nel territorio di mezzo della loro vita.
Chicca: “Lino non lo affido a nessuno. Se c’è un modo perchè la sua mente e la mia continuino a comunicare, io lo devo trovare.”
Per l’intero percorso era rimasto con loro, nei giorni luminosi e in quelli bui, lo stesso amore a tenerli uniti. E adesso che si sentivano indispensabili l’uno all’altra, un’improvvisa tempesta minacciava di separarli per sempre.
Tutti noi dobbiamo imparare a vederci come parte di questa Terra, non come un nemico, che viene dall’esterno e che cerca d’imporre la sua volontà. Dobbiamo riconoscere che, in quanto parte vivente di Essa, non possiamo farle violenza senza ferire anche noi stessi” (Antico detto degli Indiani d’America)
“Signore, lei ha l’Alzheimer”! E da quel momento, cosa ne sarà di lui? Come aiutarlo ad aiutarsi?
Ogni volta che io leggo La morte di Ivan Il’ic, di Tolstoj, libro che mi emoziona sempre fino allo strazio, mi colpisce il colloquio tra medico e paziente, nel quale viene scritta l’angoscia del malato che non riesce ad avere una risposta alla sola domanda che gli interessa: “il mio stato è grave?”.
Natale Del Frate, Napoli
“Si, è un libro che raccomando a tutti gli studenti di Medicina e a tutti i medici, perché mostra quello che noi medici non possiamo vedere, cioè i pensieri del malato, la sua solitudine, la sua angoscia. La malattia come crisi esistenziale. Ho sempre pensato che sia giusto spiegare la situazione al paziente, passando in rassegna i sospetti diagnostici (secondo il moderno concetto di alleanza terapeutica), ma il medico non può fingere d’ignorare le domande cruciali, relative alle probabilità di vivere e di guarire. Con semplicità e serenità, bisogna dire le cose come stanno. Esiste il male, ma ci sono anche le terapie. L’errore che evitiamo con determinazione è di parlare di un tumore in termini statistici, perché può indurre nel paziente, a seconda dei casi, un ottimismo esagerato o pessimismo distruttivo. Il malato non ha bisogno di cifre, ma di ragionevoli speranze. E, soprattutto, non va lasciato solo”. (Umberto Veronesi)
“È necessario, progettando il futuro dell’assistenza, passare da un approccio centrato sulla malattia a uno centrato sulla persona”. (Gabriella Salvini Porro – Presidente Federazione Alzheimer Italia). Tre gli elementi fondanti:
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- Le persone con cui il malato interagisce;
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- Lo spazio in cui vive;
- Le attività che conduce.
Questi tre aspetti devono essere adattati a ciascun paziente, e non viceversa, perché “Oltre un certo livello non è lui che deve adattarsi alle regole, ma sono le regole che devono adattarsi a lui” (Antonio Guaita – Istituto Golgi di Abbiategrasso)
Il purgatorio,
fra l’inferno in terra e il paradiso in cielo;
per mediare le ire presenti e la quiete anelata;
per restare nella propria terra, ma sperare di avere la forza di fuggire;
per vivere, morendo poco a poco;
per cogliere il buono che c’è, e tamponare il resto;
per essere persone pensanti e non strumenti incoscienti;
per fare cambiare le cose, continuando a lottare,
per essere eroi sconosciuti di un destino amaro;
per non essere solo un numero fra tanti, ma tanto fra dei numeri;
per la paura fottuta di trascinare l’amore nell’odio,
per il sonno e la serenità perduta;
per il sonno e la serenità cercata;
per la vita che continua imperterrita a scorrere a dispetto delle nostre paure;
per il giorno in cui fuggi e per la notte da cui fuggi;
per scontare colpe di padri e pensare ai figli.
Per capire, non capire, farsi capire e non farsi capire;
per sperare di essere amati e continuare ad amare;
Per sperare che il purgatorio riscatti l’inferno in terra
E costruisca il paradiso in cielo
Per sperare….
(Vincenzo Andraous)
Dalla sintonia al desiderio di infinito, ci salveranno le qualità emotive…
Secondo studi tedeschi e americani, una nuova filosofia, in questo mondo sempre più affetto da virosi speculative, sta aprendo la strada ad una concezione della persona, in grado di aprire nuove prospettive in tutti i campi, dal mondo economico alla politica, passando per la famiglia. Ciò, porta a non privilegiare più lo sguardo analitico sul mondo, ma piuttosto il modo in cui le persone lo percepiscono per organizzarlo nelle loro mente. Si guarda un po’ meno ai tratti individuali, e si presta maggiore attenzione alla qualità dei rapporti tra gli esseri umani.
Cambia anche il modo di vedere quello che chiamiamo “capitale imano”. Nel corso degli ultimi decenni si è affermata la tendenza a definirlo nel senso più restrittivo del temine, ponendo l’accento sul quoziente di intelligenza e sulle competenze professionali che, certo, non vanno disprezzati. Ma le nuove ricerche, pongono in luce tutta una serie di aspetti più profondi, che abbracciano sia l’aspetto razionale che quello più intimo, sensibile ed “emotivo”, fondendo insieme queste due categorie:
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- Sintonia empatica: la capacità di immedesimarsi nella mente altrui, prendendo conoscenza di ciò che ha da offrire;
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- Ponderatezza: la capacità di osservare serenamente i moti della propria mente e di correggerne gli errori e i pregiudizi;
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- Metis (da Metide, dea greca della prudenza e dell’intelligenza): la capacità di individuare gli schemi e i modelli di sistemi aggregati, comprendendo l’essenza delle situazioni complesse;
- Simpatia: la capacità di inserirsi nell’ambiente umano che ci circonda e di evolvere, all’interno dei movimenti di un gruppo.
Io sono un uomo, non so se hai presente un uomo. Quello creato il sesto giorno prima delle ferie; quello che in molti vorrebbero fatto in serie; quello che ormai si sa quasi tutto, geneticamente simile al maiale; quello agli altri uomini diverso ma uguale; quello che si riunisce con i parenti a Natale; quello educato, inscatolato da mille telecamere 24 ore al giorno controllato; quello con il suo angolo segreto dove sfogare le sue frustrazioni; quello pieno di limiti e limitazioni che si redime bruciando nel fuoco delle passioni. Io sono un uomo, non so se hai presente un uomo. Ma che bella sensazione mi dà, allentare la mia rigidità… essere un essere umano soltanto nel riso nel pianto e negli sbagli miei. io sono un uomo, non so se hai presente un uomo; quello che istintivamente teme per la sorte dei suoi cari, che si caccia sempre in brutti affari; sdraiato sull’erba guarda passare le nuvole e prova un senso di stupore di fronte al creato di cui, teoricamente, lui è l’essere meglio riuscito… di cui, teoricamente, lui è l’essere più evoluto. Io sono un uomo, quello creato maschio e femmina ma che non sempre si riconosce in queste categorie; quello indagato dalle varie psicologie che pende dalle labbra di filosofi, scienziati, politici e preti, che ama la libertà ma si appassiona ai divieti. Io sono un uomo, non so se hai presente un uomo… ma che bella sensazione mi dà allentare la mia rigidità essere un essere umano vivente sotto un cielo potente che mi tira su; ho due gambe due braccia un cuore una faccia e un sacco di idee… ma non so più quale sono le mie! Io sono un uomo, non so se hai presente un uomo. Che ci faccio qui? essere un essere umano di sangue di spirito e carne e di fragilità. Io sono un uomo, non so se hai presente un uomo… e sono ogni fiore che ho annusato, ogni merda che ho pestato, ogni occhio che ho incrociato, ogni cibo che ho mangiato, ogni libro che ho interrotto, ogni giocattolo che ho rotto… ma anche di più molto di più di questo (Jovanotti)
G. M. – Medico Psicoterapeuta
P.S. Alcuni spunti, sono stati tratti da Il dolore sociale
Direttore Responsabile “La Strad@” – Medico Psicoterapeuta – Vicedirettore e Docente di Psicologia Fisiologica, PNEI & Epigenetica c/o la Scuola di Formazione in Psicoterapia ad Indirizzo Dinamico SFPID (Roma/ Bologna) – Presidente NEVERLANDSCARL e NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS (a favore di un invecchiamento attivo e a sostegno dei caregiver per la Resilienza nel Dolore Sociale) – Responsabile Progetto SOS Alzheimer realizzato da NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS – Responsabile area psicosociale dell’Ambulatorio Popolare (a sostegno dei meno abbienti) nel Centro Storico di Cosenza – Componente “Rete Centro Storico” Cosenza – Giornalista Pubblicista – CTU Tribunale di Cosenza.
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