…fra corporeità, mente ed emozioni.
Saggio monografico di approfondimento
Il concetto di scrittura come piena espressione del sé più intimo e profondo e realizzazione, o almeno approssimazione, circa le urgenze esistenziali della persona (sia nella piena espressione psico-fisica sia nelle situazioni di deficit) viene esplorato e analizzato in tre capitoli del libro “L’avventura formativa fra corporeità, mente ed emozioni”.
Attestato che l’atto della scrittura è un atto libero alla portata di tutti, non incorniciato in limiti di tempo/spazio ed attestato che proprio la scrittura rivela, più della espressione corporea o vocale o grafica, l’essenza di una persona, si asserisce, in questi contributi pedagogici, come lo scrivere sia un atto memoriale, un simbolo che rimane spesso a testimonianza, appunto, dei movimenti dello spirito interiore, tracciando, implacabilmente, le direttrici più intime della propria soggettività.
In questa ottica, l’atto della scrittura, al di là del puro esercizio estetico, viene inteso come secrezione pulsante e riequilibriatrice a volte di disarmonie o conflitti giacenti nella psiche, a volte di distorsioni concettuali e sguardi pregiudiziali che si abbattono sulle persone con deficit fisici.
La scrittura è dunque una forza dinamica e risanatrice poiché invera l’essenza stessa dell’esistere, arrivando in alcuni casi persino all’assunto finale che vede coincidere la vita stessa nella scrittura.
La scrittura è vita. Spesso non ricorrendo ad allusioni, elisioni, echi metaforici per denunciare un disagio esistenziale preclusivo di una vita ben vissuta, o quanto meno vissuta, ma denunciando chiaramente – se non ferocemente – i preconcetti, le barriere mentali di chi disaccoglie o respinge colui che ha impresso addosso lo stigma del reietto, del deforme, dell’ eslege.
Ciò avviene con qualsiasi strumento tecnico. Negli interventi non si fa riferimento al mezzo con cui si scrive , se con penna, con tastiera o oculo-scrittura, evidentemente non riconoscendo una sostanziale differenza tra essi ( l’importante è il risultato, cioè la scrittura) anche se, a mio modo di vedere, il “riconoscimento” antropologico, anatomico, strutturale, funzionale della scrittura “tramite” la penna non avviene con l’uso di tastiere o altro. E’ la funzione prensile, con le sue venature ancestrali che rende familiare la penna rispetto ad altro anche se, nei nuovi scenari ormai non più futuristici ma attuali – e che segnano una cesura antropologica e concettuale – , l’oculo-scrittura , in cui non esiste contatto con lo strumento e in cui i simboli iconici più che le lettere, veicolano il pensiero espressivo, si ritorna all’origine della scrittura, in cui i segni (graffiti, ideogrammi, ecc.) simbolizzano il pensiero della mente.
Come dire: il passato è nel futuro!
Ritornando ai contenuti del libro nel primo intervento a cura del professore Duccio Demetrio, si cerca preliminarmente di stabilire e focalizzare, per quanto più possibile, il tema della coscienza, la sua natura, i suoi limiti e significati, il suo dipanarsi durante l’atto dello scrittura, seconda tappa del saggio di Demetrio.
Il secondo contributo è realizzato dalla dottoressa Caterina Benelli e analizza le tecniche di scrittura autobiografica in contesti in cui l’autore è marginalizzato, protagonista escluso dal consorzio sociale sia palesemente sia tacitamente.
Il terzo ed ultimo articolo riguarda la narrazione autobiografica dei soggetti portatori di handicap fisici o sensoriali ed è a cura della ricercatrice Tamara Zappaterra.
La scrittura come via alla coscienza introspettiva di sé, del corpo, del mondo.
Nel saggio di Demetrio si parte dal tentativo di definire in maniera precisa il significato di coscienza, senza dare spazio ad interpretazioni approssimative e fuorvianti, ritenendo che, senza questo passaggio, non si possa correttamente parlare di scrittura autobiografica non capendo da dove effettivamente essa trae linfa. Ebbene, l’autore esplica il suo pensiero a riguardo sostenendo che fin dagli albori della ricerca filosofica sul senso dell’esistenza essa, la coscienza, ha agito in maniera dialogica, essendo oggetto e soggetto contemporaneamente del pensare. In seguito essa è diventata volano direzionale dei comportamenti individuali e collettivi, mutando le emozioni in comportamenti codificati, e stabilendo che ogni coscienza individuale è chiamata a riconoscersi nell’una o nell’altra coscienza collettiva, pur attribuendo ad essa il diritto all’inquietudine, alla divergenza, al dubbio. L’esercitazione di questo lavorìo introspettivo non sempre è dominato dalla coscienza stessa ma gli studi filosofici, psicanalitici e scientifici dei neurobiologi hanno dimostrato come persino gli atti della coscienza siano dominati in parte da forze inconsce, ingestibili, renitenti, che lavorano sottotraccia e determinano spesso anche il contesto sociale. Coscienza ed incoscienza si nutrono a vicenda e dunque bisogna imparare ad affrontare le pratiche educative, connesse appunto con la coscienza, scoprendo il lato oscuro, costitutivo di quest’ultima, imparando a convivere con l’incertezza, il possibile mutamento, i diversi volti di essa. Per innalzare questa consapevolezza e questi stati di coscienza l’autore attribuisce alla scrittura la funzione di collegamento tra l’ intimo vissuto personale e la realtà del mondo circostante, dunque una funzione filosofica, pedagogica, formativa, riguardo il nostro modo di stare al mondo, superando la limitata e improduttiva individualità. Individualità che si interroga su se stessa, esplorando le proprie contraddizioni, le zone oscure di un labirinto soggettivo che sembrerebbe rischiararsi soltanto nel momento della costruzione autobiografica nella quale la presentazione, la rappresentazione, la negazione, il ripensamento, della propria realtà individuale si imbattono con il giudizio degli altri, del consorzio sociale in cui si vive, dando vita ad un circolo ermeneutico pulsante ed in evoluzione, costellato di momenti intimi,riservati ma anche pubblici e condivisi. Ci si narra per capirsi e per capire gli altri, costruendo una struttura narrativa faticosa, autoformativa, in cui sono elencati momenti inebrianti e fratture sconsolanti. Per Demetrio la scrittura è demiurga del proprio stare al mondo, della relazione con gli altri, disciplina sempre perfettibile di come si vive e ci si relaziona al prossimo. E un’arte maieutica che insegna ad abitare il mondo, a comprendere e rispettare gli altri per rispettare noi stessi, condannandoci spesso alla sua tirannica compagnia per esplorare e interpretare l’universo. Aderisce alla nostra pelle, filtra il cosmo, si incolla ai nostri sensi e sollecita il desiderio di interpellarla compulsivamente per essere memoriale del nostro attraversare l’esistente. Essa è cifra individuale e individualistica che connota simbolicamente la nostra regalità narrativa, in quanto sempre presente, solo se noi lo vogliamo, solo se noi profittiamo della sua infinità capacità decifratoria e consolatoria, non rendendoci però depositari immobili della conoscenza del mondo ma individui umili, perfettibili, discutibili, in quanto essa stessa si nutre di queste qualità nel processo progressivo e mai finito di comprensione del reale. Se la scrittura riesce a liberarsi dal suo peccato originale, – quello cioè di produzione giovanile intimistica e narcisistica chiusa ai flutti della vita comunitaria e sociale, ritenendo questa fase soltanto un momento preparatorio all’affaccio partecipato sul mondo esterno – , essa, pur trasformandosi, invera la sua vocazione primaria, quella cioè di accomunare la sorte individuale a quella collettiva, in quanto chi la coltiva per analizzarsi scopre l’omogeneità della propria vita e di quella altrui, aprendo così uno scenario sociale in cui possa essere esercitata in maniera partecipata, plurima, collettiva, approdo finale di una superiore consapevolezza di appartenenza al genere umano.
La formazione autobiografica
La riflessione sulla società attuale, liquida, spiazzante, indefinita, nella quale facile è perdersi perché non si riesce a capire bene dove essere collocati e riconosciuti è alla base dell’intervento della dottoressa Benelli, la quale esplora le zone borderline della vita comunitaria, le vite frammentate delle persone che si raccontano vivendo un disagio, a volte manifesto a volte silente, nelle relazioni interpersonali. Lo strumento autobiografico assurge nel Novecento (grazie soprattutto a P. Lejeune) a mezzo di ricerca e formativo, dopo essere stato soltanto una sorta di metodo di raccolta dati e divulgazione. Lejeune, riguardo il racconto autobiografico, parla di “patto narrativo”, un impegno da parte di chi scrive, a raccontare tutta la verità, la sua verità delle cose. E proprio questo processo narrativo è fondamentale per tracciare le direttive del sé più profondo, in un contesto e in un tempo mutevoli, liquidi, immateriali ormai, che non danno certezze se non rimandandole all’interno della propria costruzione dell’io. La certezza di essere e di stare al mondo proviene dalla riflessione introspettiva costante e circolare che viene comunque sottoposta all’influenza del mondo circostante con cui si integra e si arricchisce. L’io e il mondo dialogano e si ossigenano a vicenda. Dunque, se da un lato, quello autobiografico, si mettono in movimento processi subiettivi, intrapsichici e memoriali che connotano la narrazione, dall’altro versante si aprono gli scenari della interazione, della partecipazione, della condivisione, in cui il vissuto personale viene rielaborato e trasformato. Una ricognizione sul collettivo che produce una ulteriore riflessione autobiografica. Lo specchio dell’io è il mondo, il noi, il plurale che definisce e implementa la dimensione del soggettivo, sfaccettandola in indeterminati strati di significazione. In questo continuo svolgimento narrativo il tempo viene curvato e modellato alle proprie esigenze, rafforzando il senso di controllo e dominio degli eventi, slegando lo scorrere del tempo dal suo ordinario flusso cadenzato, assoggettandolo alla propria ispirazione individuale e solitaria. A differenza della trasmissione orale che frammenta le certezze, flette i punti fermi, girovaga tra sponde modificabili, la comunicazione scritta cerca di solidificare i rapporti identitari, punta a condividere un alfabeto aggregativo e riconoscibile, non per contrapporsi alla oralità ma per dare un senso aggiuntivo alla pratica della comunicazione sociale. Se ciò non avvenisse si cadrebbe in puro esercizio di scrittura solipsistica, un tracciato ridondante di parole in cui si smarrisce il senso relazionale e collettivo, inaridendo così il processo di reversibilità tra la il proprio vissuto e gli eventi della vita sociale. Dunque, ciò che si scrive autobiograficamente non è freddo scandaglio degli avvenimenti, così come sono accaduti, ma è una rielaborazione emotiva e mentale dell’individuo che si veste da esegeta e interpreta, costruisce, modifica ciò che la memoria gli rimanda. Il testo scritto, pur avendo molti aspetti positivi riguardo la relazione col mondo esterno, paga il dazio però di non poter essere declinato plasticamente, rimanendo immobile sulla pagina bianca, privo di malleabilità espressiva. Ciò che invece avviene nella comunicazione orale, in cui si agitano una serie di atteggiamenti, sguardi, gesti, silenzi, suoni, che innervano il messaggio narrativo.
In conclusione, l’accento posto sulla efficacia delle pratiche narrative per quanto riguarda la cura e l’educazione in situazioni di disagio tiene conto del fatto che oltre alla scrittura intervengono anche la relazione e la narrazione le quali, intrecciandosi, generano un lavoro di ricerca e produzione del sé di persone che non hanno voce per esprimere il proprio , la propria inadeguatezza in questa società e che, grazie a questa tecnica terapeutica, riescono a vivere e sopravvivere
L’occhio interno della disabilità
Una naturale riflessione e un corretto apporto nei confronti dell’handicap e di chi lo vive si sono sviluppati soltanto nel corso del Novecento che ha cercato di sondare l’handicap con indici scientifici e misurabili, staccandolo dal soggetto che lo vive e riconoscendolo come un disagio imposto dai limiti culturali, cognitivi, architettonici della società. Come dire che il problema non è l’handicap in sé ma lo sguardo (distorto) su di esso. Questa maturazione sociale ha portato ad evidenziare, quanto più possibile, il vissuto personale ed interiore dei soggetti portatori d’handicap, spianando la strada a fenomeni sempre più consistenti di narrazione autobiografica in cui si scandiscono i passaggi della formazione di sé e della accettazione o del rifiuto della propria diversità. I protagonisti, tramite l’uso della parola e il bisogno di narrare o auto narrarsi, oggettivano la sofferenza, rielaborandola per cercare di colmare un vuoto di tribolazione e prendere così respiro. La narrazione serve a dare un ordine esistenziale alla propria vita e spesso la centralità del racconto non è nel fatto oggettivo ma nella percezione di chi lo ha vissuto, nel ricordo e nelle sensazioni che hanno pian piano costruito l’identità di chi, soffrendo, ha cercato di ribadire la sua presenza positiva nel consorzio civile. La memoria è il fulcro di questa terapia vitale, oggettivando il passato e ponendolo su un altro piano rispetto alla condizione passiva di fruitore inerte degli eventi. Scrivere ciò che si è vissuto disinnesca tutto il portato emotivo personale, alleggerendo il carico di sofferenza, rappresentando il processo di costruzione del sé. La scrittura si rivela come funzione riparatrice dei guasti dell’animo, terapia catartica che fa defluire i fiumi corrosivi della paura, della angoscia, fortificando la conoscenza di sé ma anche del mondo circostante, ribaltando spesso i pregiudizi stratificatisi nella collettività e promuovendo un nuovo orizzonte di senso che valorizzi la persona che fa i conti con i suoi limiti psicofisici.
Spesso, come nel racconto di Ileana, chi è affetto da deficit motorio si costruisce un falso sé, una maschera di serenità, per non causare sofferenza ulteriore nei familiari o persone vicine, salvo poi prendere coscienza della propria dimensione, affrancandosi da false pose e vivendo il proprio corpo in maniera più aderente possibile, non vergognandosi ma valorizzando la propria diversità.
Nella storia di Giuliana, invece, il corpo diverso, soprattutto nell’età adolescenziale, viene patito e rifiutato ma, con un lavoro di autocoscienza e introspezione, viene riconosciuto come corpo femminile, identificativo di una personalità unica e irripetibile, meritevole di attenzione e dignità anche, e soprattutto, nel campo affettivo-sessuale.
Anche nel caso di deficit psichico, come la sindrome di Asperger o la condizione autistica in cui è intrinseca la difficoltà di rappresentare alcuni stati emotivi o cognitivi, la narrazione autobiografica ha spianato il campo proprio alla conoscenza clinica e scientifica della malattia, non etichettandola più come patologica ma ritagliando per essa uno spazio differente e peculiare, un altro mondo, non necessariamente inferiore alla realtà comune. Il racconto memoriale delle persone affette da questo deficit permette sorprendentemente di capire come funzioni il processo conoscitivo della propria mente, descrivendo sentimenti, emozioni, pensieri che sono diversi da quelli della maggior parte delle persone. Così Donna Williams, affetta da una forma di autismo in cui è preservata l’intelligenza, scrive nel suo diario autobiografico:
[…]probabilmente non sapreste che, senza queste pagine, le mie parole sarebbero come guardare nel fango e potrei non riuscire nemmeno a dirvi come mi sento, al di là della risposta immagazzinata di “bene”
Prof. Alessandro Citro