"L’isterica quasi domata"…
Counseling 14
“E’ un mondo difficile, è vita intensa…
felicità a momenti e futuro incerto.
Il fuoco e l’acqua, concerto e calma
Sonata di vento…
E’ nostra piccola vita,
è nostro grande cuore.“
Durante l’Età Elisabettiana, periodo di intenso sviluppo culturale, narrava Shakespeare (in una sua commedia) di una intrattabile bisbetica di nome Caterina.
Ella (figlia di un mercante gentiluomo che, però, desiderava, organizzandole la vita, la completa obbedienza della figlia) era nota per scontrosità e brutto carattere: irascibile, impaziente, scontrosa e disobbediente; donna capricciosa e vivace che sputava sentenze e si infuriava come un serpente velenoso. Infondo, pagava il prezzo di un’educazione ingiusta di cui sentiva l’oppressione. La sua reputazione era di bisbetica ma in realtà lo era solo all’apparenza, perché pensava che l’unico modo per difendersi era di opporsi a ciò che dicevano gli altri.
“Come in tutto il teatro elisabettiano, le commedie di Shakespeare, volte al divertimento del pubblico, non mancano di offrire momenti di profonda riflessione” e, proprio per tal motivo, mi diletterò a narrare (in questo scritto) di una “dolce” isterica da me conosciuta (contemporanea del nostro tempo) e alla quale, per riservatezza, darò lo stesso nome della bisbetica di Shakespeare.
La “mia” Caterina aveva molti tratti comuni alla Caterina di Shakespeare: irritabile e rabbiosa, amante dell’ira e perennemente insofferente, agitata e irrequieta, a volte intrattabile e addirittura “selvaggia”.
Così “dolcemente” ribelle!..
Il lettore avrà notato che la definisco spesso “dolce”: lo faccio perché, infondo, ella soffriva tanto ogniqualvolta incontrava sofferenza.
Invece, gli altri aggettivi da me utilizzati alludono al suo lato permaloso: ella si agguerriva in modo imperioso contro le ingiustizie non accettando mai il dialogo, infatti riteneva di aver sempre ragione e pensava che gli altri non avrebbero in alcun modo potuto farle cambiare idea visto che ciò da lei pensato era “giusto e basta“.. riteneva di constatarlo quotidianamente in un mondo che, tra l’altro, non amava (a detta di lei: un mondo pieno di dolore, che perseguita i sofferenti e anche tutti coloro i quali compiono atti orrendi perché resi bradi dalla vita; un mondo che ospita Esseri Umani cresciuti in ambienti dove non si insegnano le belle maniere, ambienti in cui nono ci sono mamma e papà che educano a modo e istruiscono dicendo “questo non si fa, questo si fa”).
Proprio con i disadattati stava bene e ne andava in cerca: lo faceva agli angoli di un bancone da bar con gli extracomunitari di colore e no; lo faceva nelle squallide sale giochi immesse in vicoli che ospitavano delinquenti e drogati, giovani che studiavano o chiacchieravano buttati a terra, tra bottiglie vuote di ogni tipo di alcolico; lo faceva con giovani che si ubriacavano non per il “piacere” di assaporare una bevanda dalla marca pregiata sorseggiata godendo del momento, ma giovani che “avrebbero ingurgitato anche benzina”, accettando qualsiasi cosa riuscissero ad acquistare attraverso ciò che avevano racimolatolo chiedendo la colletta ai proprietari degli sguardi più disponibili, dopo aver tenuto la fronte all'”amico” che vomitava l’alcool troppo ingurgitato.. mentre in quel conato vedevano tutto lo schifo della loro anima, anima che avrebbero voluto vomitare fuori anche loro insieme all’alcool e ai pochi tarallini mangiati “a gratìs” in qualche bar, visto che altro da mangiare non potevano permettersi, dato che tutti i soldi li avevano spesi per bere.
Caterina cresce tra lo schifo di una gioventù ammassata ai muri di vicoli bui “che una brava ragazza non deve frequentare” mentre accarezza cani di nessuno o di qualcuno ma comunque con le zecche; poi, nell’ora della ritirata “perché è tardi“, con i “compagni di schifo” corre veloce attraverso la sua città per rincasare con gli altri bravi ragazzi “figli di questo” e “di quello” che vanno vestiti di stracci perchè “rifiutano il sistema”, ma a cui non mancano mai le sigarette perché per loro non è un problema chiedere i soldi a casa; esibizionisti e vanitosi, narcisisti imbecilli ed immaturi che vogliono somigliare all’amico “morto di fame” che picchia la ragazza incinta in treno mentre la squadra di calcio della propria città va in trasferta e lei gli grida “Non ti fare! Fermatelo!”.
Somigliare a questo Essere Umano che quando avrà una figlia non potrà vederla a causa dei due anni di carcere da scontare per spaccio e rapina…
Caterina frequenta anche i “figli di papà che si fanno la cocaina perché fa tendenza” ma ai quali non intende uniformarsi, soprattutto quando le chiedono “vuoi un po’?, un po’ non fa niente!“. E lei non se li fila proprio perché piange dentro mentre li vede tirare su col naso quella porcheria bianca che nella sua vita ha sempre schifato e che, stranamente per Caterina, non ha mai suscitato alcun interesse in lei.
Inquieta e rischiosa adolescenza!..
Caterina sfogava la sua violenza gridando istericamente a chiunque volesse imporle un pensiero diverso dal suo ma poi piangeva convulsamente e ininterrottamente davanti la visione di “Schindler’s List”. Attaccava tenacemente per non essere attaccata e, in modo sguaiato, infantile, scostumato, offendeva chi la pensava diversamente da lei, ma poi non dormiva la notte al pensiero del telegiornale delle 20:00 che aveva mostrato un’immagine di guerra in cui si vedeva un uomo col braccio mozzato. Caterina desiderava baci e coccole dal suo fidanzato ma poi lo prendeva letteralmente a morsi e pugni quando lui la asfissiava d’affetto. Amava ascoltare i Clash mentre, al ritmo della loro musica, ballava accanitamente ma poi aveva le lacrime agli occhi ogniqualvolta Caterina Caselli cantava “insieme a te non ci sto più, guardo le nuvole lassù..“.
A volte pareva che fosse lei la protagonista del libro che avidamente leggeva impaurita ma che non riusciva a chiudere fin quando non avesse scoperto il termine della storia e che raccontava di un “Dottor Jekyll” e di un “Signor Hyde” (R. L. Stevenson), narrante “l’eterna lotta tra il bene e il male dentro la coscienza dell’uomo“.. e a momenti ella era il Signor Hyde quando di nascosto distruggeva materialmente la macchina del fidanzato che l’aveva ferita, per ridiventare Dottor Jekyll quando faceva il giro dei semafori più affollati di extra comunitari per dar loro dei soldi.
Amava leggere di quel “Gabbiano” (R. Bach) che aveva abbandonato la massa degli altri “comuni gabbiani” per “ubbidire alla propria legge interiore quando sa di essere nel giusto, nonostante i pregiudizi degli altri (…); che prova un piacere particolare nel far bene le cose a cui si dedica“, ma poi non riusciva ella stessa a distinguersi da quegli ambigui Esseri Umani di cui si contornava.
Amava leggere delle “straripanti emozioni” di quell’amore “tempestoso” tra Heathcliff e Catherine (E. Bronte), “opera tra le più tumultuosamente romantiche della letteratura inglese dell’epoca vittoriana“, ma poi non si mostrava fedele al suo amato fidanzato.
Si appassionava alle avventure di Emiliano Zapata,”artefice della rivoluzione messicana e ideale archetipo di tutti i grandi ribelli del continente latinoamericano“, che difendeva i braccianti dalla schiavitù del latifondo, sostenendo i diritti degli indios e alle avventure di Ernesto Guevara, suggestionata dall’immagine di un “antagonista sociale e politico” associato ad un’idea di “liberazione, politica come impegno morale, solidarietà militante“, lo ammirava scoprendo come egli “faticando sotto il sole come tutti, tagliava canna da zucchero e costruiva case quando già aveva assunto responsabilità istituzionali e politiche; (…) un teorico in grado di immaginare un futuro concreto per gli oppressi” ma ignorava le informazioni negative che avrebbe scoperto anni dopo sulla personalità complessa e ambigua dell’eroe cubano tanto noto per alcune cose e poco noto per tante altre..
Caterina trascorreva lunghe mattine in un cimitero a “parlare” con morti conosciuti e no; perfino di notte lo faceva, non provando minima paura di defunti dai quali si sentiva attorniata, guidata, osservata e protetta.
“Questa duplicità e la incessante ricerca di una impossibile armonia cosmica“ costituivano un bell’impiccio da risolvere, riuscendo difficilmente a dipanare una matassa che avvolgeva quell’ostinato carattere poco accondiscendente e che, tutt’oggi, ancora la spaventa…
Ad un certo punto della sua vita, anche la “mia” Caterina incontra Petruccio, ma non nel ruolo di quello prospettato da Shakespeare per la “sua” Caterina. I due Petruccio hanno in comune solo la corporatura robusta e l’altezza considerevole, per il resto sono completamente diversi.
Uomo saggio e maturo insieme, sebbene egli precisi che spesso è difficile esserlo contemporaneamente (asserendo che maturità e saggezza “a volte si incontrano, a volte no“), dotato di un bagaglio esperenziale da ritenere unico; in grado di ponderare le proprie emozioni nel modo che ritiene opportuno all’occorrenza ed in grado di instaurare con ogni Essere Umano (sappiamo tutti, l’uno diverso dall’altro) un rapporto unico e gratificante per quest’ultimo. Lo si può conoscere per caso (forse egli non gradirebbe questa espressione, non essendo, credo io, molto amante del “caso”) quando la vita porta a vivere circostanze che permettono di incontrarlo, ma poi, se si desidera aver l’onore di rimanergli accanto, è necessario imparare a comunicare bene con se stessi per esser in grado di comunicare bene con lui.
Il tempo trascorre e Caterina diventa desiderosa di cambiare e migliorarsi per dimostrare a Petruccio quanto ammiri il suo modo di percepire la vita, quanto ella stessa vorrebbe imparare a vivere come lui insegna. Purtroppo, “per sua sventura, non appena si sentiva in qualche modo più libera, le veniva subito da dire qualcosa di inopportuno” (F. Kafka), rischiando, così, di perdere quel famoso treno che, notoriamente, una sola vota ti passa davanti durante la vita.
Si nota, così come nella Caterina di Shakespeare, anche nella “mia” un cambiamento psicologico e comportamentale; ma quell’ ostinato carattere, poco accondiscendente, la spaventa ancora e le ricorda che il suo è un impegno quotidiano, per non regredire mai, per continuare a scalare la montagna, mai per discenderne.
“Le commedie di Shakespeare sono caratterizzate da un lieto fine e da un’atmosfera gioiosa, piuttosto razionale e solo apparentemente ottimistica. I problemi e le discordanze della storia si risolvono sempre in un lieto fine dove però non mancano i toni malinconici ed un senso pessimistico sulla natura precaria della felicità umana. La protagonista è frustrata prima, quando era bisbetica e dopo, quand’è domata”.
Io non posso dire quale sarà la fine della storia della “mia” Caterina che, comunque, “combatte” tanto perchè “non riesce a godere il momento senza dover controllare tutto il futuro“, ma so per certo che, lieta o meno, sarà una fine autentica e di sicuro non apparentemente ottimistica perché visibilmente reale e pragmaticamente osservabile. Affronterà problemi che non sempre avranno soluzione un lieto fine e le porranno di fronte amarezze e frustrazioni che, però, la terranno ben lontana da riflessioni pessimistiche sulla natura precaria della felicità umana, senza mai farla impermalosire. E infine, mentre la bisbetica di Shakespeare, frustrata prima, lo rimarrà anche dopo domata, l’isterica del mio racconto (e me ne arrogo ogni responsabilità) si aprirà al mondo con modi sereni, fresca di norme e maniere che la renderanno diversa agli occhi di che la conosce e docile a quelli di che la incontrerà.