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Con questo film, Marco Bellocchio non esalta ma invita alla riflessione.


 

 

Ha avuto pochi passaggi l’ultimo film di Marco Bellocchio “Il regista di matrimoni”. E non poteva essere altrimenti: giusto (e quanto basta) per onorare il fatto che di questo film se ne parla, ed ha riscosso cauti consensi in giro, pur non andando male al botteghino. Sarà presentato a Cannes nelle prossime settimane, ma non in concorso.

Il pubblico esce dalla “provocazione” del regista piacentino alquanto interdetto: qualche irridente reazione per il finale, qualche altro stupefatto atteggiamento di incomprensione, e comunque con un discreto rispetto per questo grande autore (talvolta, come in questo caso in bilico fra l’incompreso e l’incomprensibile) che sa tuttavia raccontare con la coerenza e il coraggio delle proprie idee, come accade di rado. Bellocchio prosegue, mediante il caleidoscopio delle immagini, la sua maniacale ricerca nei confronti della religione come delle convenzioni socio-culturali, delle difficoltà ad essere artisti in una società che spesso non sa apprezzare l’arte, e che spreca ore di televisione intorno a figure senza nessun valore.

Dopo il controverso “L’ora di religione” (precedente a “Buongiorno, notte”), il regista ritorna ad inseguire le proprie ossessioni religiose, si interroga su Dio e lo fa anche mediante il copione mai messo in scena de “I promessi sposi”: suggestive e inquietanti rimangono le sequenze in bianco e nero dell’Innominato morente recuperate da film storici. Le alterna secondo canoni imprevedibili attorno alla coscienza del suo regista: Sergio Castellitto (semplicemente sublime, onnipresente, fra il cupo e il sorridente-speranzoso del finale), al punto che non si sa se passaggi importanti della storia siano retaggi onirici o realtà al confine con la follia. Personaggi tenebrosi si aggirano, come Samy Frey nei panni di un principe decaduto di una Sicilia barocca (e forse modernamente emulo del Principe gattopardesco); moderni bravi manzoniani e campanellini di monatti risuonano.

E’ come entrare in un incubo da cui non sai mai come il regista ci farà emergere. E’ ardua e coraggiosa l’impresa.

Castellitto è l’alter ego di Bellocchio che si interroga con angoscia sul cinema e sulla sua funzione: che fa dire al regista Smamma /Gianni Cavina che l’Italia è un paese dove comandano i morti. Perfino le spiagge e la solarità della Sicilia sembrano avulse dal contesto, mentre osservano con indifferenza le vicende interiori di un uomo che fissa lo sguardo sulla crisi della società contemporanea, che induce la telecamera ad irridere sulle scene in chiesa dei matrimoni. Ma che solo la passione per l’arte, per la vita, e per una donna (è una tentazione la mediterranea Donatella Finocchiaro) potranno salvare. C’è speranza dunque nel fondo dei tormenti di questo regista? Non sarà certo la convenzione, la quotidianità da catena di montaggio a risolvere i misteri che egli arduamente ci pone.

Armando Lostaglio