Approfondimenti e considerazioni personali.
SFPID – 7
In questa rubrica, sono contenuti i lavori scientifici personali e di approfondimento prodotti dagli allievi (medici e psicologi) della Scuola di Specializzazione di Psicoterapia ad Indirizzo Dinamico -SFPID di Roma.
Buona Lettura
Io possiedo un notevole livello di autostima. Ciò mi sembra l’incipit ideale ai fini d’una volontà di trattarne in termini realistici, pena l’esclusione della valutazione – gnoseologica – del Sé, pena consequenziale la solita incapacità a riflettersi che conduce all’aggravarsi del sintomo auto-stima.
Sintomo?
Credo che possano coesistere, ma in individui diversi o in momenti differenti nello stesso individuo, due capacità di autostimarsi (utilizzo il termine capacità sì da connotare l’azione intrinseca al concetto stesso, che, come potrò sottolineare di seguito, mi sembra possa rappresentare uno dei parametri atti all’esplicazione reale e/o realistica del termine): da un lato quella sana autostima anelata, reduce di tante battaglie e combattente fierissimo, ferito in più parti ma vivo e così bello…..! Dall’altro c’è il lenone che ci trascina verso un’immagine che ci cuciamo come un vestito sfarzoso e lucente, ma troppo leggero per essere indossato nell’inverno che attanaglia le nostre nordiche colline, stracolme di nebbia e di neve bianca! A rigor di logica ci si potrebbe ammalare….. oltre che ammaliare….. Ritengo giusto asserire che la mescolanza dei due tipi mi appare proponibile, in taluni casi ed in certi momenti.
Mi appello alla scienza che prende il nome di etimologia. Stima è un termine noto ai più, possedente una lieve accezione di valore, da cui: concetto favorevole che si ha di una persona per i suoi pregi particolari che suscitano rispetto e ammirazione. Poi viene auto-, da autòs, “stesso”, prima parte di parole composte di origine greca o di formazione moderna in cui significa “di se stesso”. Concordo con il significato di auto-, e d’altronde come non concordare con il significato di stima, soprattutto adesso che il denaro rappresenta la postilla che chiarisce la distinzione tra chi è stimato e chi non, ma io fuggo questa via e imbocco quella della contestazione: concordo sul significato del termine che la società richiede spasmodicamente, ma non accetto la sua identificazione con il reale significante del concetto stima, ciò che ci porta indietro nel tempo e ci fa pensare a quei commercianti che, dediti allo scambio delle merci, ne stimavano antecedentemente il valore oggettivo-soggettivo guardandole, toccandole, gustandole, osservandole, conoscendole. Da cui un’altra definizione di stima: valutazione di una cosa per fissarne il prezzo di mercato o l’ammontare quantitativo; di certo meno antropomorfa, questa concezione ha il merito di prendere spunto dall’atavicità dell’uomo commerciante, dove la valutazione pecuniaria era sostituita da quella individuale, ove i sensi avevano la meglio; non solo: alla luce ancora fioca di questo bel pensare, si elimina la sgradevolezza di un giudizio di valore intrinseco alla prima definizione che m’appare un retaggio dei costumi del nostro anno, a meno che non lo si intenda alla guisa dell’analisi che l’autorevole Adler faceva dell’inferiorità che permea l’essere umano da cui riscattarsi, o quale peculiarità dei bisogni dell’Io esteriore – espressione del modo in cui si vorrebbe essere percepiti e considerati dal mondo esteriore, quarto gradino della piramide dei bisogni di Maslow – ma non mi sembrano in onestà queste le accezioni che comunemente vi si intende. Nessun valore dunque, bensì osservar-si, toccar-si, osservar-si, conoscer-si: da cui stimar-si, o, meglio, auto-stima.
Questo mi appare un parametro imprescindibile nel concetto di autostima, termine di cui tutti parlano e ne fanno corsi di stampo virtual-comportamentista, sotto l’egida di un acerrimo eldorado, mentre si palesa da sempre quale “uno dei pilastri dell’edificio psichico, senza il quale l’edificio stesso cederebbe, crollando al suolo e frantumandosi” (Russo Sara). Ma nessun corso può sostituire il passaggio all’azione, dove si intenda la capacità-volontà di distogliersi dalla pigrizia ottundente per cominciare a riflettere, ad osservare se stessi all’interno di un iter gnoseologico non semplice, ma vitale comunque vada e dovunque porti; ma prima di intraprendere l’analisi di questo aspetto, mi pare necessario introdurre quello che mi appare un altro parametro imprescindibile nella costituzione di una sana autostima, che altrimenti si riversa nell’aspetto relazionale come una maschera arguta, tanto efficiente sino a quando crolla a colpi di bastoncini.
Ritengo utile e lineare cominciare con la visualizzazione del concetto di sviluppo narcisistico sviluppato da Freud, il quale definisce il narcisismo quale investimento libidico sul proprio Io e adatto completamento della pulsione di autoconservazione presente in ogni essere umano; nel particolare esistono due varianti di narcisismo: il narcisismo primario, investimento energetico sull’Io ancora indifferenziato, ed il narcisismo secondario, implicante il ritiro della libido dagli oggetti per riversarla sull’Io; secondo la teorizzazione freudiana lo sviluppo libidico procede dunque da uno stato autistico primario al narcisismo primario, quale esperienza di un Sé unificato ed investito di libido narcisistica, sino all’investimento oggettuale (sotto questo punto di vista investimento narcisistico ed oggettuale differiscono in relazione all’oggetto dell’investimento).
In seguito Kohut propose un contributo quantomeno originale in relazione al tema difficoltoso del narcisismo, inteso quale matrice di capacità peculiari quali il senso dell’umorismo, l’empatia e la volontà di autoaffermazione; dal punto di vista dello sviluppo narcisistico della personalità si postula il procedere emblematico da uno stato originario di grandiosità ed onnipotenza al narcisismo sano e costruttivo su cui si fondano le aspirazioni e l’autostima, alla luce della teorizzazione della psicologia del Sé che visualizza ed enfatizza come le relazioni esterne aiutino la persona a costituire e mantenere la coesione del Sé e l’autostima, come a dire che l’individuo possiede un bisogno innato e prorompente di peculiari specifiche risposte da parte delle altre persone; il piccolo essere umano propone uno sfoggio esibizionistico, appropriato a ciascuna fase di età e denominato Sé grandioso-esibizionistico, in potenzialità di ottenere una risposta di conferma, una reazione di convalida visibile secondo Kohut nel brillio negli occhi della madre, e si tratterebbe appunto di risposte -di inestimabile valore- di approvazione essenziali ai fini di uno sviluppo normale, adeguato, in quanto in capacità di offrire al bambino un senso di valore di sé; stiamo visionando una risposta cosiddetta speculare, rispetto alla quale una madre può non riuscire a realizzare un contatto empatico con il bisogno vitale del figlio, condizione non anelata per cui il senso di integrità e di considerazione di se stesso diviene per il bambino di difficoltoso mantenimento (può di seguito accadere che in risposta a tale carenza empatica, il senso di Sé dell’individuo si frammenti conducendo ad una condizione di ricerca di perfezione e necessità di esibirsi per ottenere l’anelata approvazione, ciò che nella realtà può portare rinnovata frustrazione e spasmodica ricerca autoalimentantesi, lasciando intravedere dell’amaro: le primarie relazioni, Oggetti preferenziali e necessari, agendo su un substrato biologico peculiare di ogni individuo, donano l’imprinting su cui tutto il resto si integra, talvolta rafforzando adeguate misure, talvolta incrementando bislacchi giochi identificativi, ora mutando una situazione disfunzionale, ora peggiorando quella adeguata; in ogni caso v’è sempre un temperamento del bambino, quanto un temperamento della figura genitoriale, sì da potere serenamente asserire che un modello basato sulla bontà della corrispondenza permette di distogliere l’attenzione da inutilizzabili sensi di colpa e recarne in maniera più adeguata verso lo sviluppo concreto e fantasmatico dell’individuo nel suo rapportarsi con l’Oggetto che gli tocca inizialmente in sorte; più avanti nel tempo la scelta sarà ponderata ed efficiente, a dispetto della pigrizia e della paura del vivere); come il bambino può essere veementemente traumatizzato dalla non adeguata empatia di una madre che non risponde al suo Sé grandioso-esibizionistico, così può essere traumatizzato da una madre che non si identifica empaticamente con il suo bisogno vitale di idealizzarla, o che non gli offre un modello adeguato da idealizzare (non è mia intenzione gravare di ulteriore responsabilità idealizzante il ruolo materno, questo compito l’hanno svolto numerosi autori in passato; nel presente mi appare molto più attualizzabile e congeniale la nozione importante di “madre sufficientemente buona” di Winnicott, termini in volontà di negare l’idealità per sottolineare invece l’umanità del genitore, la sua possibilità di avere dubbi, di sentirsi insicuro e persino di sbagliare; esistere come punto di riferimento costante per il proprio bambino, adeguarsi allo sviluppo del proprio figlio, rispettando le sue caratteristiche e i suoi tempi, introdurlo serenamente nel mondo permettendo di conoscerlo e comprenderlo gradatamente, viverlo come stimolante, soddisfacendo in tal maniera la naturale spinta alla conoscenza del bambino; tutto ciò prende il significato di riuscita identificazione con le istanze genitoriali, laddove naturali domande incontrino adeguate e dolci risposte, e non risposte esclusivamente corrette che solo una divinità può permettersi e promettere); Balint definiva “difetto fondamentale” il sentimento di qualcosa che manca, carenza causata dal fallimento della madre nel rispondere ai bisogni fondamentali del bambino; Fairbairn vide l’eziologia delle difficoltà dei suoi pazienti schizoidi, individui di certo non peculiarizzati da notevole autostima, nel fallimento delle loro madri, incapaci di offrire esperienze che li rassicurassero di essere veramente amati per se stessi.
Trattasi, risulta chiaro, di autorevoli studiosi che furono concordi sulla necessità di una teoria del deficit, oltre che di una teoria del conflitto, per poter giungere più adeguatamente ad una comprensione psicodinamica completa dell’essere umano, e mai constatazione fu più corretta nello specifico della riflessione sull’autostima; proseguendo, gli Oggetti-Sé sono ricercati non esclusivamente nell’infanzia o nella pubertà, ma per tutta la vita quali elementi svolgenti una funzione speculare ed idealizzante che struttura il Sé: allora quando si verificano situazioni peculiari in capacità di causare una offesa narcisistica, il Sé ne risulta quantomeno frammentato, e se tali attacchi al narcisismo avvengono in fasi precoci dello sviluppo possiedono un effetto deleterio e traumatico che inficia la strutturazione del Sé coeso adulto e l’autostima (si tratterebbe di una offesa narcisistica primaria, indissolubilmente collegata e correlata con l’esperienza della vergogna,in grado di scatenare una sorta di rabbia narcisistica, una risposta sproporzionata a tutto ciò che viene recepito come attacco verso il Sé; la tabula non è rasa, ma le prime righe risuonano copiose nel tempo, a meno che non s’abbia la fortuna di incontrare Oggetti quantomeno adeguati o Archetipi importanti nel corso della propria vita, o la Volontà di rompere la pigrizia che ci attanaglia ai fini di una articolata ed adeguata comprensione di quegli aspetti che fanno la personalità in toto o in parte, permettendoci una stima più realistica di se stessi, sino ad una buona autostima, fine ideale per la costituzione ideale di una Psiche agevole, che pur in dotazione dalla nascita, può essere abbellita e depilata, persino rafforzata con un buon training ed un corretto personal trainer; dinnanzi ad un Sé congelato evolutivamente ad uno stadio nel quale è fortemente incline alla frammentazione, peculiarizzato dunque da carenze o difetti, la lotta viene condotta da esseri umani comunque valorosi, constatatane l’imponente difficoltà che da sempre contraddistingue i moti più temuti, pur sempre più anelati); secondo Kohut la separazione è un mito, giudicando impossibile la separazione del Sé dall’oggetto-Sé, poiché per tutta la vita abbiamo il bisogno di risposte convalidanti ed empatiche da parte degli altri per mantenere la nostra stima di noi stessi (sono la maturazione e la crescita che ci conducono nel tempo verso la capacità di utilizzare oggetti-Sé più maturi e adeguati, allontanandoci dal bisogno di oggetti-Sé arcaici); inoltre lo stesso Kohut contribuì in maniera significativa al riconoscimento dell’importanza della stima di Sé nella patogenesi dei disturbi psichiatrici.
Parallelamente mi appare indiscutibile l’importanza di un ulteriore concetto psicoanalitico, l’Ideale dell’Io, istanza psichica della personalità per buona parte inconscia; si tratta di un termine utilizzato da Freud nel quadro della sua seconda teoria dell’apparato psichico, indicante una istanza della personalità risultante dalla convergenza del narcisismo (idealizzazione dell’Io) e delle identificazioni con i genitori, coi loro sostituti e con gli ideali collettivi; in quanto istanza differenziata, l’Ideale dell’Io costituisce un modello a cui il soggetto cerca di conformarsi; si tratta di un concetto strettamente connesso con la graduale elaborazione della nozione di Super-io e più in generale della seconda teoria dell’apparato psichico; in L’Io e l’Es (Das Ich und das Es, 1923), Ideale dell’Io e Super-io vengono utilizzati quali sinonimi, mentre in altri autorevoli testi la funzione dell’Ideale viene attribuita ad una istanza differenziata o ad una sottostruttura peculiare in seno al Super-io, in ogni caso la letteratura psicoanalitica mostra che il termine Super-io non ha fatto cadere in disuso quello di Ideale dell’Io e che i due termini non sono in generale considerati sinonimi; classicamente il Super-io è definito come l’erede del complesso edipico, costituendosi per interiorizzare esigenze e divieti dei genitori, e proscrive, dettando ciò che l’individuo non deve fare in base all’interiorizzazione dei valori genitoriali e sociali, mentre l’Ideale prescrive, retaggio delle aspettative genitoriali, dettando ciò che l’individuo deve fare o come deve essere; in età di latenza l’Ideale dell’Io si consolida, preparando il bambino al compito di distribuire l’afflusso di energie su tutti i livelli di funzionamento della personalità che si elaborano in questo periodo, così che divenga gradualmente in grado di convogliare l’energia istintuale su strutture psichiche differenziate e su molteplici attività a dimensione psicosociale; un mutamento di simile portata e significatività è reso possibile dal fatto che l’individuo parzialmente rinuncia ai desideri edipici della prima infanzia sostituendoli con peculiari identificazioni (identificazione: processo psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo di un’altra persona e si trasforma, totalmente o parzialmente, sul modello di quest’ultima; la personalità si costituisce e si differenzia attraverso una serie di identificazioni); l’introiezione di taluni aspetti, precetti morali, ideali, modalità comportamentali delle figure genitoriali, filtrati dal vissuto personale del bambino seguente alla sua precedente storia relazionale ed affettiva, comporta che i regolatori della tensione pulsionale divengano maggiormente interni; anche la dipendenza dalla rassicurazione parentale per quel che concerne i sentimenti di valore e di importanza, viene gradatamente sostituita da un salvifico senso di autostima derivato da capacità e conquiste che nel tempo ottengono un’approvazione sociale; le rinnovate risorse interne del bambino si affiancano alle risposte genitoriali quali regolatori dell’autostima; tramite il costituirsi del Super-io e dell’Ideale dell’Io il bambino diviene maggiormente capace di mantenere in modo più o meno indipendente e stabile il personale equilibrio narcisistico ed un adeguato livello di autostima; ciò avviene in concomitanza di una relazione costituente tra risposte oggettuali più o meno degne di essere introiettate durante tutta la vita, substrato biologico, istanze derivanti dall’odissea relazionale familiare (adeguate o disfunzionali o carenti): ciò che mi appare possa fungere da ponte tra la teoria dell’Io e quella sovracitata del Sé: come dire che gli Oggetti in grado di costruirci capacità importanti e consapevolezza dell’averne (autostima) vengono ricercati da un inconsapevole segugio che il coacervo dei geni in concerto con l’eredità familiare ci lasciò, mentre il libero arbitrio è la rottura della coazione a ripetere per mettersi a tavolino nella gloriosa ricerca della conoscenza di sé, momento in cui la stima di se stessi si incrementa spingendoci a ricercare nuovi Oggetti speculari ora degni di essere introiettati, non più soggiogati da un Ideale imponente e tiranno o da una morale inesausta; più serenamente, ora si compiono atti, pure lavorativi, che abbiamo imparato tramite un’impostazione relazionale proficua, e che chiedono ed ottengono risposte di assenso, o adeguato esame di realtà in caso di immotivato dissenso (dunque le capacità che aneliamo possiedono comunque una accezione relazionale, nel momento in cui, fanciulli, esplorammo l’ambiente alla luce di una base sicura cui tornare, il brillio negli occhi materni presente e lucente; da questo prototipo tutte le variazioni possibili, ai fini di una costituzione adeguata della personalità e della autostima, e mi sembra l’incipit che cercavo ed il fine delle ipotesi postulate).
Si parla di prototipi, quali momenti tanto importanti quanto potenziali; poi ci si accorge che per potenzialità si intende il dispiegamento di miriadi di percorsi vitali, l’uno differente dall’altro, a seconda di minuscole variabili che rotolando lungo la discesa della vita acquistano massa poderosa e volume imponente, facendo di un individuo l’individuo con la sua personalità, con la sua autostima che, se presente, assume toni e semitoni di indicibile varietà; i due parametri che ho individuato inizialmente si palesano quali piccole variabili ma di indiscutibile imprescindibilità, quasi un vaticinio di ineluttabilità che solo tanta voglia di agire (vivere) può condurre ad adeguato compimento.
A questo punto ritengo emblematica la visualizzazione di un percorso di vita, una valutazione diagnostica che portai a termine qualche tempo fa, che ci conduce all’interno di un percorso psicodinamico in cui un essere umano, pur possedendo notevoli capacità nell’ambito lavorativo e sociale (primo parametro), un substrato biologico favorevole (secondo parametro), risposte genitoriali relativamente presenti nell’iter evolutivo (terzo parametro), si è trovato dopo la morte del padre (morte avvenuta intorno ai 50 anni, l’età del soggetto in questione al momento dell’esordio sintomatologico) un’eredità psichica gravosa, un Ideale dell’Io ipertrofico e di difficile gestione (quarto parametro); la vita adulta è stata così contraddistinta da relazioni oggettuali non adeguate, alla mercé dell’influenza veemente dell’istanza in questione, peculiarizzata da un’autostima molto limitata derivata esattamente da risposte da Oggetto-sé non consone (e non tanto per una possibile carenza di queste, bensì per una ricerca inesatta e forzata da ambizioni elevatissime), dunque non speculari e poste nell’impossibilità di contribuire alla costituzione salvifica di un edificio psichico robusto peculiarizzato da un adeguato ed efficiente livello di autostima; ora la terapia condurrà il soggetto alla conoscenza della dinamica inconsapevole ed alla conseguente ricerca di Oggetti più maturi e realistici (ciò che, abbiamo sinora ipotizzato, contribuirà a creare le basi per una solida autostima). Alla luce della constatazione che questo è solo un esempio di come i diversi parametri presi in considerazione possono assemblarsi e pragmatizzare un determinato livello di autostima (e gli esempi sono tanti quanti gli esseri umani), qui di seguito riporto il percorso psicodinamico, la cosiddetta formulazione esplicativa che soggiace al fenomeno che dal punto di vista psichiatrico-nosologico si denomina Disturbo d’Ansia Generalizzato del soggetto X (con la lettera X sostituisco il nome del soggetto):
Diagnosi breve:
Asse I (Disturbo d’Ansia Generalizzato); Asse II (Nessuna diagnosi; frequente uso della razionalizzazione, utilizzo della scissione e della proiezione); Asse III (Disturbi lievi di origine psicosomatica); Asse IV (Ambiente lavorativo non soddisfacente; attualmente malattia grave della madre, comunque non correlata all’insorgere del Disturbo); Asse V (VFG=61).
Diagnosi discorsiva:
X si presenta come una persona dotata di una capacità creativa ed un livello intellettivo al di sopra della media, qualità pragmatizzate all’interno di un itinerario lavorativo adeguato; anche dal punto di vista prossemico pone la sua immagine corporea in maniera lucida e ponderata, alla luce di un senso estetico maturo e consapevole. D’altronde attualmente la sua efficienza intellettiva risulta lievemente deteriorata da un disagio decisamente marcato che, dal punto di vista sintomatologico, si concretizza in uno stato di ansia generalizzato e quantomeno invalidante, manifestantesi in un coacervo di sintomi atti all’azione difensiva da parte del soggetto di fronte ad una adeguata presa di coscienza. Nonostante il livello acuto di ansia, dal punto di vista numerico questa appare eguale nel suo valore sintomatico e latente, lasciando presupporre l’esclusione di una possibilità di crisi, bensì una realistica potenziale cronicizzazione in un soggetto possedente una tendenza significativa all’acting out, alla gestione non corretta dell’aggressività e dell’impulsività, peculiarità tipiche di soggetti con disturbi di dipendenza da sostanze (dato fortemente sottolineato nel MMPI-2); d’altronde buone coordinate egoiche ed un’istanza superegoica decisamente sviluppata sventano il pericolo, e non si palesano comunque più in grado di tenere a freno i moti emotivi non coscienti che, retaggio dell’influenza genitoriale, chiedono di essere elaborati ed utilizzati in maniera sana per sventare il pericolo: la morte; o, meglio, il fantasma della morte.
Il sintomo è il risultato di una vita spesa all’utilizzo costante di meccanismi di difesa tipici di svariati Disturbi di Personalità, la scissione e la proiezione; disturbi che, probabilmente, non hanno invaso la sana personalità del soggetto a causa delle sue elevate capacità emotive ed intellettive; un velo di razionalizzazione ha spinto il soggetto ad attribuire la personale disforia ad un ambiente di lavoro ormai frustrante (questi meccanismi difensivi manifestano la resistenza del soggetto), mentre questo, pur effettivamente deterioratosi nel tempo, rappresenta esclusivamente il locus esterno, ideale al fine di non affrontare la dinamica predisponente: un erede dell’odissea identificativa paterna, l’Ideale dell’Io, si è rafforzato nel tempo per sfuggire al destino che ha colto il padre, ovvero la mancata realizzazione di Sé pur nelle possibilità di una significativa attuazione, e la morte prematura; un rafforzo eccessivo, insieme al fantasma paterno ad esso legato, hanno condotto ad una scissione schizo-paranoide di tale istanza, proiettata sull’Oggetto-Sé cui X chiede conferma (l’Altro assume un’importanza incrementata, nel bene delle sue presunte possibilità e nel male delle realistiche incapacità, verso cui X manifesta il vassallaggio nell’incapacità di sapersi negare e al contempo nella realizzazione di atteggiamenti a volte non ponderati ed aggressivi, comunque la relazione non possiede ancora l’equilibrio anelato); la risposta non è ovviamente e realisticamente all’altezza dell’aspettativa, da cui non avviene la identificazione introiettiva dell’Oggetto modificato; da qui l’esperire di un’ansia di disintegrazione, di una impossibilità angosciante di rinnovata relazione oggettuale, peculiari di una personalità sana ma incompleta, ciò che provoca l’allarme-ansia. Dal punto di vista fenomenologico il soggetto non può che esperire mancanza di autostima (non raggiungerà mai gli ideali proposti dal suo Inconscio, non si rapporterà dunque all’Oggetto in maniera adeguata), senso di colpa (verso se stesso, per non essere riuscito a compensare la carenza paterna), mancanza di motivazione (il ritiro prende il sopravvento, così evita l’incremento dello stato ansioso da mancanza di Oggetti-Sé coadiuvanti e la conseguente elaborazione, che lo porrebbe in una posizione di rabbia contro una figura, quella paterna, che ama: allora la rabbia diviene l’impulsività mal gestita, mal diretta, così da camuffare il reale obiettivo), disforia conseguente alla mancanza di possibilità di accettazione dell’ansia visualizzante, disturbi del sonno quali incubi coadiuvanti nell’esplorazione (per cui ansiogeni), frustrazione, incapacità di ricevere critiche (l’autocritica è già ipertrofica), sofferenza psicosomatica: tutti sintomi di un livello di ansia considerevole. Nella realtà, pure lavorativa, il saper fare è più che adeguato, a dispetto di un Io Ideale dispotico che camuffa le capacità; mentre diviene più chiaro il deficit del saper essere in toto, all’interno di una personalità che adesso è tramite il sintomo ansioso, ma vorrebbe essere tramite l’equilibrio psicodinamico delle istanze in gioco; da qui la voglia pressante di stare bene (equivale ad essere), confortante ai fini di una buona riuscita terapeutica, tra l’altro indicata dal MMPI-2, e da una ottima capacità di mentalizzazione e di insight unita ad una potenzialità cui usufruire di costituzione di una adeguata alleanza terapeutica.
In un percorso sotterraneo in cui la realizzazione di aspettative esistenziali e professionali è correlata direttamente con la morte fisica e psichica; in cui per sfuggirne la valenza terrorifica il soggetto proietta sull’Altro (facilmente sull’Altro che lavora, ove il lavoro si configura idealmente quale luogo in cui saper fare e saper essere possono facilmente coincidere) l’alta aspettativa che, venendo sovente disillusa (tranne nei rari casi di persone eccezionalmente dotate), viene rimandata come un Oggetto non modificato, ovvero fallito; in cui questo non-ritorno diviene ansia che fa essere contro l’inevitabile non-essere (cioè la morte).
Gli aspetti sintomatologici sono evidenziati dai test di autovalutazione, e dal MMPI-2, dove si configura un profilo personologico riconducibile alle dinamiche ipotizzate; anche i proiettivi sottolineano il disagio relazionale, ove la relazione consiste nella resa interpersonale della dinamica intrapsichica.
L’hic et nunc esistenziale inter-personale, lungi dall’essere un momento finale, si propone quale incipit ideale per un arrotondamento auspicato della personalità del soggetto, più precisamente per un apprendimento rinnovato ai fini di un saper essere tanto importante quanto vitale; ciò chiede il soggetto, inconsciamente tramite il sintomo ansioso, consciamente tramite la ricerca di un ausilio psicologico al fine di stare bene.
Indicazioni terapeutiche:
Dall’intrapsichico all’interpersonale, tramite la scissione e la proiezione; ora il percorso va svolto nel senso contrario, dall’esterno all’introiezione calibrata e consapevole, ai fini di approdare serenamente alla posizione depressiva kleiniana, ove il paradosso serenità-depressione è così risolto: per quanto possa essere doloroso riconoscere la propria “responsabilità” nella creazione del rapporto, nonché quella paterna nella creazione della relazione oggettuale, solo questo passaggio può ricondurre l’istanza considerata dell’Ideale dell’Io entro giuste proporzioni; l’Oggetto proiettato può quindi essere reintroiettato nella giusta misura e con l’adeguata consapevolezza, e di conseguenza reintegrato nella sua valenza equilibrata accanto alle altre istanze di una psiche comunque sana e decisamente efficiente. Un approccio psicodinamico che sappia idealmente muoversi da un polo supportivo ad uno espressivo potrà permettere al soggetto l’utilizzo di metodiche esplorative (che già possiede) atte al riconoscimento delle dinamiche causali, ad una loro elaborazione ed accettazione, senza che il senso di colpa sino ad ora presagito ma finalmente con un oggetto ben definito (vedi sopra la constatazione delle responsabilità) possa sopraffare il soggetto stesso e condurlo ad un ritiro per ora appena preso in considerazione (non si esclude la possibilità di attuazione di una metodica comportamentale quale un training assertivo, perlomeno all’inizio dell’iter terapeutico, in grado di offrire da subito modalità comportamentali relazionali maggiormente adeguate, che nell’ottica di un rinforzo autogestito potrebbero coadiuvare il soggetto nella visualizzazione ed elaborazione di dinamiche appunto sconosciute). D’altronde i dati a disposizione depongono per una risoluzione terapeutica di indubbia significatività, all’interno di un percorso di certo lungo e difficoltoso ma al contempo efficace e salvifico.
Alla luce d’ogni postulato, ogni ipotesi e riflessione che ho tentato di assemblare in un quadro quantomeno coerente, senza pretese di esaustività, ritengo la proposizione di esordio possa essere ripresa e riconsiderata: io possiedo un notevole livello di autostima. Mi appare come il primo pensiero dinnanzi alla semplice domanda: hai una buona autostima? Ma si sa, le domande non sono mai semplici, e le risposte ancora meno, soprattutto se richiedono uno sforzo di riflessione autocentrante; dunque la risposta non è precisa, e maggiormente auspicabile sarebbe la seguente: ho un livello sufficiente di autostima, da sviluppare sino a rendermi conto che ciò che amo denominare autostima è in parte una sorta di sintomo, ove il desiderio di farcela per essere è consentito da una difesa inconsapevole, ovvero la ricerca di peculiari Oggetti-sé che un’istanza inconscia propone (pre-pone); tale è la mia idea per ora, in attesa di verifica, e serenamente in divenire. Tra le rimembranze più certe che riconosca v’è spazio ampio per il brillio negli occhi di mia madre, che con la pazienza certosina che contraddistingue una vera madre (contro quella che amo definire madraccia) si è rapportata delicatamente verso la mia evoluzione rispettandola, in uno scambio di risposte che ne fecero una base sicura, sin troppo; durante l’iter evolutivo conoscevo la relazione sadica che un bambino può esercitare facilmente contro un altro, traendone un sottile godimento, e ciò mi terrorizzava; ma c’era sempre l’autorità, genitoriale, l’insegnante, l’adulto che mi osannava per doti effettivamente presenti; gradatamente le doti nell’ambito scolastico e qualcosa di peculiare fuori (prosa, poesia, e la capacità di contare le lettere, centinaia, delle parole ad una velocità elevata, più un carattere apparentemente mite ed estremamente docile ed una bravura accentuata nello sport agonistico) lasciarono il posto alla sicurezza del successo, sempre ed ovunque, parallela ad aspettative veementi, ciò che poi diverrà un Ideale dell’Io ipertrofico e sulla cui origine sorvolo, per non adagiarmi sulla capacità di analizzare i moti altrui; di fronte alla difficoltà in seguito l’ansia legittima resta inespressa, soffocata da una apparenza di sicurezza che amavo, ed amo, definire autostima; spinto da un Ideale così tiranno e da una modalità di difesa tanto precisa, la ricerca di Oggetti-sé diviene un abito fatto su misura, da un lato; dall’altro l’esistenza di doti realistiche e la consapevolezza parziale di queste danno giustizia ad una sana autostima che non recede dinnanzi alla scelta errata dell’Oggetto confermante, da cui una personalità comunque positiva e sufficientemente stimantesi; ma non è tutto oro ciò che luccica, appunto. Primo parametro: la presenza di genitori in grado di mentalizzare con il figlio, quali basi sicure che tengono per il braccio il fanciullo nell’attività esplorativa lasciandovi un livido emblematico; secondo parametro: risposte da Oggetto-sé adeguate dall’autorità e brutali dal pari, ovattato senza udire forti rumori; pi la svolta, come adoro definirla: il risveglio e la consapevolezza prese per i capelli e strattonate contro il muro, lasciando ferite e lividi sanguinolenti per tutto il corpo-psiche; da lì in poi una sufficiente e sana stima delle mie capacità, i miei limiti, i miei modi, insieme a quell’autostima che cerca di celarmi la sconfitta, retaggio di tanti anni di quiete, dunque non sana ma protettiva, proprio come la difesa difende dal desiderio proponendolo in forma mascherata, una sorta di compromesso che faccia stare bene un po’ tutti, pure me, ma io non voglio stare bene, io voglio vivere; trascinato da questo grido ho cominciato dieci anni fa a rompere gli oggetti, le persone, gli Oggetti, ciò che mi ha condotto a chiedere l’aiuto di una persona importante, una terapeuta che mi coadiuvasse in questa presa di coscienza, di conoscenza, di stima di me a prescindere dal risultato che, se apprezzato socialmente, reca compiacenza sicura, ma per recarne non può essere scelto, ed utilizzato, da un’istanza psichica ipertrofica, o ciò che ne viene fuori è un’autostima in parte fittizia; come dire che il giudizio degli altri, nei momenti di maggiore benessere, non può pesare ad una autostima comunque sana, ma quando si concretizza lo sconforto e lo stress avanza impunito, allora una corazza di autostima relativamente fittizia si incastra perfettamente sul mio pomposo edificio psichico respingendo ogni attacco che l’esterno propone, conducendo di conseguenza ad impoverimento o a crisi quale cavallo di Troia che riesce a superare una barriera da sempre virtuosa e virtuale, allora il giudizio può divenire fuoco e dolore; un giorno va bene, un giorno va male.
Spero di essere stato chiaro e non troppo prolisso, Dio e qualche buon uomo mi hanno dato il dono della scrittura e su questa mi crogiolo come un maiale impudico, ma fiero di poter asserire: ho cominciato a conoscere, a conoscermi….. piano piano….. ma non sono pigro, e questo mi condurrà verso luoghi un tempo insperati….. ad auscultare quello che ho prodotto….. a cercare in maniera ponderata e un po’ più lucida….. a godere dell’Esistenza.
Alessandro Crescentini – Psicologo (Specializzando)