Siamo davanti al nostro maxischermo… ma, qual è la dimensione del tempo e dello spazio che viviamo attraverso la Tv? E che valore assume il telecomando?
Se la televisione ha ormai creato un mondo speculare e mimetico avvolgente quello vero, è pure vero che i media in genere hanno dimostrato la capacità di dissolvere la realtà, generandone una forma depauperata: gli “pseudoeventi” (Boorstin 1960), nati dai media per soddisfare il loro bisogno di oggetti trasmissibili. A questo punto si porrebbe un problema di tipo epistemologico: la tendenza operata dai media conduce verso una progressiva simulacralizzazione del mondo (che sostituisce la realtà fenomenica). Ma pur aggirando un tale ordine di problema, non si può tacere il potere derealizzante della televisione: bisogna riconoscere, infatti, lo statuto di cose alle immagini televisive. La natura della neo-realtà elettronica è infatti quella di un’esperienza tale che entra nel vissuto e nell’ambiente del soggetto, tanto che si può affermare che l’esperienza iconica è un aspetto dell’esperienza tout-court.
Essa diventa lente di mediazione nella costruzione del senso sociale da parte dei fruitori, tanto che si sono elaborate delle teorie del simulacro che distinguono tre diversi livelli di neo-realtà.
- Il primo, dato dalla semplice ripresa televisiva di eventi reali: produzione di media – realtà, in cui la semplice attenzione televisiva ad un fenomeno, modifica, alterandola, la realtà osservata.
- Il secondo livello riguarda la costruzione di eventi nati solo come testi mediali, la cui esistenza fuori dalla televisione è nulla: la pseudo – realtà.
- Il terzo riguarda la possibilità per i segni elettronici di farsi oggetti del mondo extra – mediale: video – realtà.
La dimensione temporale della televisione
Il carattere di esperienza a tutti gli effetti, della fruizione televisiva, è immediatamente evidente già nell’analisi della dimensione temporale della televisione che, nella sua forma più tipica, è quella della diretta. Difatti la televisione è nata con la diretta: per necessità di ordine tecnico prima (sceneggiati e teatro in tv realizzati in “presa diretta”) e poi per scelta stilistica. La questione che sorge dal fattore “diretta”, consiste nel rapporto che corre fra l’evento rappresentato e l’atto della sua messa in scena. Secondo Colombo, esistono quattro modelli di diretta:
- il primo è l’istantanea. Con esso si intende la diretta improvvisata, quella necessitata dall’importanza dell’avvenimento, come l’informazione giornalistica. In tali casi, la potenza dell’accadimento è tale da non farlo modificare dalla ripresa.
- Il secondo modello è il contemporaneo: quello dei Media-Events (Katz e Dayan) delle grandi competizioni sportive, delle conquiste dell’umanità, dei riti di passaggio dei grandi della Terra (matrimoni reali o funerali di stato), la cui trasmissione è stata programmata con largo anticipo e minuzia di particolari. In questo caso, la prevedibilità dell’evento ne permette sostanziali modifiche, durante la ripresa.
- Il terzo modello è quello della predisposta: l’intrattenimento in diretta, con la produzione di eventi puramente mediali. La televisione crea oggetti a propria immagine, a scopo comunicativo, duplicando una quotidianità, garantita dalla trasmissione istantanea, ma esorcizzata dalla organizzazione della macchina di comunicazione.
- Il quarto modello di diretta, l’inevitabile, ci si riferisce a quegli eventi spettacolari non prodotti dalla televisione, ma mandati in onda da essa. In essa la temporalità è così preconfezionata che gli spazi per l’improvvisazione, se esistono, sono previsti dal copione. In tali casi si usano, per ottimizzare la visione, i maxi – schermi. Con tali tipi di dirette, per lo spettatore cambia il concetto di spazio e di partecipazione all’evento: egli gode del sense of occasion (la sensazione di star partecipando ad un evento storico). Grazie alla ripresa televisiva egli finisce per avere tanti occhi quante sono le telecamere, godendosi i momenti salienti dell’evento. Si trova, cioè, come alla visita guidata ad un museo; quell’esperienza di non essere lì, può essere più produttiva di quella di essere lì. Il punto di vista televisivo costituisce la protesi visuale dello spettatore.
Se la telecamera può essere dovunque nel mondo, anche noi possiamo essere strappati a noi stessi e consegnati al mondo, ma insieme deprivati di esso, giacché quello che ci appare davanti è pur sempre soltanto, un suo simulacro. Muta il concetto di spazio : tutto è qui e io sono ovunque. Ma insieme né io, né il mondo siamo più in nessun luogo (lo spazio è fantasmatico). La televisione diventa, così, per Ghezzi (Blob) mondo internizzato, cioè una casa in cui le pareti diventano schermo e quindi c’è una distruzione della fisicità e un suo superamento nella virtualità. La televisione diventa spazio integrato allo spazio quotidiano, dove da entrambe le parti dello schermo ci sono delle persone che trascorrono delle ore della propria vita. Il corpo dello spettatore finisce per trovarsi in uno stato di indistinzione tra sé e l’esterno: e ciò si realizza col telecomando che annulla la distanza tra il desiderio del soggetto e lo schermo.
Il telecomando diventa il mezzo per uscire dalla realtà tout-court ed entrare nella neo-realtà e viceversa.
la partecipazione dell’utente televisivo all’evento teleripreso è quindi illusoria: egli può alterare la sua percezione modificando colore, luminosità e contrasto dell’apparecchio televisivo, o eliminando il sonoro, ma non modificare i tempi e i ritmi dello sviluppo dell’evento stesso. Pur tuttavia, tale partecipazione illusoria permette al telespettatore di avere più informazioni rispetto a chi assiste all’evento al di qua dello schermo. Se il telespettatore assiste ad un concerto, vede cose che al pubblico lì fisicamente presente sono occulte per limiti naturali di visibilità: il palco nella sua completezza, il volto del cantante accarezzato fin nei dettagli, ascolta le interviste del pubblico sui dietro le quinte, “panoramica” sulla folla ammassata sotto il palco ecc. Ancor di più in una competizione sportiva, la funzione certificatrice della televisione è evidente nell’individuazione dei falli di gioco, meglio di come può fare un arbitro, tramite la moviola che riunifica le funzioni di ralenty e replay, amplificando le possibilità dell’occhio umano (oggi anche tramite le ricostruzioni computerizzate). La televisione insomma prende una presenza reale dal luogo in cui essa è presente e la rappresenta in altre località nelle quali non è presente. Prima della televisione la mente umana non aveva mai fatto esperienza in modo visivo e uditivo di fatti che si svolgevano in altri luoghi.
Anche la percezione del tempo si modifica nel telespettatore che, da un lato legge la quotidianità duplicata nel televisore e dall’altro trasforma la propria idea di quotidianità sulla base del tempo fuggevole del flusso televisivo, sempre più scandito da appuntamenti (quelli del palinsesto). E se la dimensione per eccellenza è la diretta, l’effetto procurato è quello di una contemporaneizzazione, cioè di perdita di senso della storia.
Il tempo è il qui ed ora della diretta, per cui lo spettatore schiacciando il telecomando mette sullo stesso piano Aristotele e Paperino.
La realtà extratelevisiva, al giorno d’oggi, viene plasmata a somiglianza della produzione immaginaria (telerealtà) Sartori parla di tre livelli d’intervento della televisione sulla realtà extra-mediale:
- accelerazione/semplificazione di eventi, durante le loro diffusione;
- certificazione (ribadisce la percezione del reale);
- modificazione (tramite l’amplificazione dell’evento).
L’alone di rumori che circonda ogni evento televisivo rende del tutto incongrua la qualità tecnico-formale del prodotti. Mediate dalla parola metatelevisiva, la massima stupidità ed eccentricità possono avere pari volumi di ascolto. La televisione è ormai così potente da riuscire a “fare tv con la tv” in un delirio di autoreferenzialità: ed ecco allora programmi metatelevisivi alla Blob, dionisiaca ed onnivora rivisitazione dei territori simultanei del video.