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Ogni anno, sin dal primo giorno di dicembre, ho ancora l’abitudine di dare il benvenuto a questo mese. Vi chiederete: “Perché proprio accogliere dicembre e non altri mesi?” In realtà, la mia risposta non è immediata, né scontata. Suppongo che il motivo sia subordinato al fatto che in questo mese si festeggia il Natale, una festa sacra per la Chiesa, ma anche per me, almeno tale era in passato.

Da un po’ di anni, esattamente da quando non ci sono più i miei nonni materni, gli unici che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare, non sento più il clima natalizio, né quell’atmosfera che si creava in casa quando allestivamo l’albero di Natale, rigorosamente sintetico e sempre uguale di anno in anno, così come lo erano gli addobbi che lo arricchivano.

Soltanto qualche anno abbiamo avuto il piacere di allestire un albero naturale, il cui profumo rendeva ancora più magica l’atmosfera; anche gli addobbi, finalmente, erano stati rinnovati, sia nelle forme che nei colori.

Il presepe, invece, era sempre uguale, in quanto realizzato artigianalmente da un parente di mio padre che, con il suo garbo, lo aveva curato nei minimi particolari: la lavandaia ai bordi di un piccolo ruscello, la carta argentata strategicamente stropicciata perché doveva rappresentare il letto del fiume, l’oste davanti l’osteria che richiamava l’attenzione dei passanti, invitandoli ad entrare per gustare un buon bicchiere di vino, i panni stesi dai balconi delle case, i comignoli sui tetti, le pecorelle al pascolo, lo zampognaro che col suono del suo strumento, rigorosamente artigianale, allietava l’intero villaggio; in alto, nel cielo, primeggiava la stella cometa che illuminava il percorso dei Re Magi, i quali si recavano alla grotta per onorare l’arrivo del bambinello riscaldato dai fiati del bue e dell’asinello.

Per tradizione, ci si dedicava a fare l’albero e a posizionare il presepe il ventidue dicembre, data in cui, puntualmente ogni anno, nel primo pomeriggio sentivo il suono del campanello, che indicava l’arrivo dei miei nonni.

Pur se certa che fossero loro, spiavo dall’occhiolino magico, quasi per vedere l’espressone di gioia che illuminava il loro volto ancor prima che qualcuno aprisse la porta. Fremevano, impazienti, di varcare la soglia di casa mia e dare inizio a quello che sarebbe stato il periodo più bello dell’anno, indimenticabile per loro, ma soprattutto per me e per i miei fratelli. “Adesso sì che possiamo dire che è Natale!”, replicavo puntualmente per dare loro il mio benvenuto.

Il tempo di togliersi le scarpe, calzando le sue calde pantofole, e cambiarsi i vestiti per indossare quelli da massaia, mia nonna era già all’opera per aiutare mia madre a preparare i dolci fritti natalizi, scalille e turdilli, che, per tradizione, venivano ripassati nel miele soltanto la mattina del giorno dopo, per evitare che l’effetto immediato della frittura potesse alterarne il risultato finale.

Il ventitrè pomeriggio iniziavano i preparativi per i cullurielli: in un grande pentolone colmo di acqua venivano immerse le patate, rigorosamente intere e con la buccia; nel frattempo, le due donne dalle mani fatate mettevano a portata di mano tutti gli altri ingredienti: farina, lievito di birra fresco, sale, l’olio e la pentola per la frittura. Poi tagliuzzavano minuziosamente il caciocavallo e le acciughe, utili per la farcitura delle “vecchiarelle”, che avevano la forma di un panzerotto, ricavata dall’impasto dei cullurielli. Intorno alle 20:00, mia madre e mia nonna, non prima di aver protetto i capelli con un foulard per evitare che assorbissero l’odore della frittura, mettevano l’olio nella pentola, ma il compito di accendere il fornello spettava, per tradizione, a mio padre, nel rispetto del suo ruolo. Poi, dopo l’arrivo di altri familiari con cui ogni anno si condivideva quell’antica e importante tradizione, iniziava la frittura vera e propria che sanciva il momento dell’augurio e del benessere familiare. Mentre loro friggevano, prima i cullurielli e poi le vecchiarelle, noi assaporavamo il gusto della tradizione, accompagnato da un buon bicchier di vino e da tante allegre risate! Capitava anche che, proprio in quei momenti, suonavano alla porta gli zampognari, che accoglievamo volentieri, offrendo loro anche un culluriello e un bicchier di vino.

Il giorno dopo, i preparativi per la vigilia di Natale iniziavano sin dalle prime ore del mattino, in vista del ricco menu che ogni anno arricchiva la nostra tavola e per il quale occorreva l’aiuto di più persone: mio padre e mio nonno davano il loro contributo, per preparare le basi dei vari condimenti che sarebbero stati utilizzati per il cenone; ricordo ancora l’enorme quantità di mollica di pane che sbriciolavano con le mani e che sarebbe servita per preparare la “Natalise”, frittata della nostra tradizione che non poteva mancare (e non manca ancora oggi) sulla tavola della vigilia di Natale. Era un lavoro di squadra, una squadra vincente, eravamo in tanti, eravamo felici con poco…bastava la presenza dei nonni a rendere ricco il nostro Natale!

Trascorrevano, così, tutti gli altri giorni di festa, fino al 31 dicembre, quando si aspettava il nuovo anno, qualche volta anche con i botti, avendo cura che nessuno si facesse male. Il due gennaio si festeggiava il compleanno di mia madre. Anche quello era un giorno di grande festa per noi, ma già il giorno dopo, seppur le vacanze non fossero ancora terminate, calava sui nostri volti un velo di tristezza, perché si avvicinava il giorno dell’Epifania, festa molto significativa per la tradizione cristiana, ma che per noi segnava la fine non soltanto delle vacanze, ma soprattutto della permanenza dei nonni in casa nostra. Tristezza infinita…l’atmosfera non era più la stessa! Niente era come prima quando andavano via i nonni. Niente è e sarà più come prima quando i nonni vanno via per sempre!!!

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