Anche quella mattina di dicembre, il piccolo Davide guardava dal finestrino dell’autobus il paesaggio splendido di sole, mentre percorreva la litoranea che da Giaffa portava a Tel Aviv,e l’azzurro del mare risaltava, ancor di più, col contrasto abbacinante del lido sabbioso .
Davide teneva ben saldo sulle gambe l’astuccio con dentro il violino che il padre, Moses, gli aveva comprato due anni prima, quando aveva manifestato, chiaramente, la sua predisposizione artistica verso quello strumento così difficile da studiare, al punto che non si è violinisti se non al massimo del virtuosismo tecnico: il violino non ammette la sufficienza.
E Davide aveva accettato quella scommessa, alternando gli impegni scolastici con le ore quotidiane di esercizio strumentale, tanto da rinunciare, il più delle volte, a giocare con i suoi piccoli amici nel campetto sportivo rionale; e sì, che ad otto anni se ne ha voglia di gioco!
Due volte la settimana percorreva quel tratto di strada per seguire le lezioni di un valente maestro che dirigeva la sezione violini del conservatorio di Tel Aviv.
In questo andirivieni gli era sempre accanto il padre, conscio del pericolo che incombe su quella terra martoriata da un odio millenario, contrassegnata dai numerosi attentati terroristici che spesso si scatenavano o sugli autobus o nei luoghi di ritrovo.
Ad ogni fermata dell’autobus, una pattuglia di due o tre militari dava una certa garanzia nel controllo dei passeggeri che salivano o scendevano, ma restava, sempre, un margine di pericolosità, circa la possibilità di un attentato dinamitardo ad opera di qualche fanatico “martire di Allah ” Così li chiama la Tv.
Moses era conscio del pericolo, e, pur di consentire che il figlio realizzasse la sua aspirazione artistica, affrontavano, insieme, il rischio di un viaggiare la cui durata non superava l’ora.
Ma era un’ora che a Moses sembrava un’eternità; e ad ogni fermata i suoi occhi scrutavano attentamente i passeggeri che salivano, specialmente se erano giovani; non a caso egli sedeva col piccolo Davide agli ultimi posti del torpedone, lontano dalla porta anteriore.
Anche quella mattina il torpedone fece la consueta fermata in quel tratto della litoranea deserta di case e di persone; una copertura di foglie su di un gazebo di legno offriva un tenue riparo dai raggi del sole ai due soldati distratti dal caldo e dalla monotonia che non fecero caso ad un giovane vestito come un rabbino, con cappello nero ampio, zimarra altrettanto nera e pelle olivastra nel viso, sul quale due occhi mobilissimi denunciavano uno stato di tensione, a stento trattenuto. Moses incrociò quello sguardo, ma non fece a tempo ad attirare l’attenzione dei militare perché capì, in una frazione di secondo, il gesto del giovane che penetrava sotto la palandrana nera, come se cercasse un oggetto; abbracciò il figlio Davide e si buttò sul pavimento, coprendo, col suo corpo, quello del bambino; nello stesso momento una deflagrazione violentissima squassò l’autobus mentre una vampata di fuoco ed un sibilare di corpi metallici s’infrangeva sulle pareti o sugli sventurati passeggeri; Moses avvertì, nei polpacci che fuoriuscivano dal sedile, come se dei chiodi vi si conficcassero, mentre, per alcuni secondi, un silenzio irreale aleggiò nell’aria, reso ancor più angosciante dal ronzio che assordava i timpani squassati dalla tremenda esplosione.
Era il silenzio dell’odio che si sposa col funereo manto della morte.
Poi, cominciò un lamento quasi sussurrato e solo allora Moses si scosse mentre il suo primo pensiero si concentrò sul corpo di suo figlio, per constatarne l’integrità ed il pulsare della vita; Davide era rimasto incolume, grazie alla prontezza ed al sacrificio del padre che, però, non riusciva a reggersi in piedi per le ferite riportate.
Tutt’intorno era uno spettacolo orrendo; ed ancora una volta, Moses capì che bisognava restare rannicchiati in quell’atteggiamento di difesa naturale che la vita fetale ci ha trasmesso.
Erano trascorsi appena 6 o 7 minuti, quando, in lontananza si annunciavano già le sirene dei mezzi di soccorso. Un vociare convulso, misto ad ordini secchi e decisi, riportò la speranza tra i sopravvissuti, e, fra questi, Moses e Davide che, ancora frastornati, non riuscivano nemmeno a sentire il suono delle proprie parole di aiuto.
Furono caricati su di una delle ambulanze e trasportati d’urgenza all’Ospedale Ben Gurion di Tel Aviv. Davide fu solo ripulito dal sangue del padre che aveva addosso in seguito alla tremenda esplosione, mentre Moses fu subito operato per la rimozione delle schegge conficcatesi nei suoi polpacci.
Dopo qualche tempo, i superstiti di quell’attentato, ripresisi dalle ferite, furono invitati a ritirare quanto si era salvato dei loro oggetti personali recuperati dopo l’esplosione; anche Moses e Davide furono invitati a visionare, in un ufficio della polizia israeliana, se, tra i vari bagagli, ancora macchiati di sangue, ci fossero oggetti di loro pertinenza, e Davide riconobbe subito l’astuccio del suo violino, ma, appena apertolo, vide il suo delicato strumento trapassato da un bullone che lo aveva tranciato all’altezza del manico, quasi come se ne avesse strappato l’anima ; due grosse lacrime solcarono il viso del bambino; in quel momento a Davide sembrò che la distruzione del violino coincidesse anche con la fine di un sogno; fu la mano forte e rassicurante del padre a stringerli affettuosamente la spalla, mentre gli sussurrava l’incitamento a perseguire la sua aspirazione artistica. Si portarono via quel violino violentato dalla furia cieca dell’odio, mentre Moses aveva già provveduto a comprare un nuovo strumento che faceva bella mostra di sé nella stanza di Davide.
E di nuovo, a fare la spola tra Giaffa e Tel Aviv, col cuore in tumulto ed i nervi tesi, e l’aspirazione di Davide vinse la paura; il bambino di otto anni fa era diventato, ormai, un giovane alto, spiritato nel volto, dinoccolato nell’andatura; ma quando appoggiava il violino sotto tra il mento e la spalla sinistra e con l’archetto disegnava quasi un gesto ieratico prima di posarlo sulle corde, allora accadeva l’incanto…
eh sì!
perché Davide alla dolce età di 16 anni riesce, ancora oggi, a far rallentare il respiro di una platea affollata, mentre dal suo Guarneri del Gesù libera, nell’aria, l’incanto di melodie eterne, ed in quei momenti diresti che Beethoven, o Bach, o Mozart o Tchaikovsky, e gli altri geni della musica siano lì, dietro le quinte di uno qualsiasi dei templi della musica, a sorridere del virtuosismo di quel giovanissimo genio, di quel nipote di Dio che li rievoca in nome di un amore per il bello, sperando, anche, che l’arte divina dei suoni riesca a far breccia nell’animo sordo del fanatismo.
Giuseppe Chiaia ( preside ) – 14 dicembre 2003
Fine Letterato, Docente e Dirigente scolastico, ha incantato generazioni di discenti col suo vasto Sapere. Ci ha lasciato (solo fisicamente) il 25 settembre 2019 all’età di 86 anni. Resta, nella mente di chi lo ha conosciuto e di chi lo “leggerà”, il sapore della Cultura come via maestra nei marosi della Vita