Prefazione
Le pagine che seguono questa breve prefazione non sono nulla di più di una semplice esternazione di emozioni, stati d’animo. Un mero bisogno, direi vitale, per la scrivente, di mettere nero su bianco lo tsunami di emozioni che l’ha travolta in un momento della vita. Lo scritto si divide in due parti, c’è un “durante” e un “dopo”. Le emozioni riportate sono le stesse, lo stato d’animo no.
“5, 8, 10, 15, 17…no, non è così che funziona”
Salve a tutti mi chiamo Paola, mia madre ha la demenza mista: la demenza vascolare più l’Alzheimer. Fa paura vero?!
Venti anni fa ho perso mio padre con un male che non gli ha lasciato scampo. Colpito da un male che ha lasciato a noi familiari l’illusione di poter scegliere e aiutarlo. Scegliere come farlo morire: aggredito da ben tre tumori, la nostra scelta si divideva tra il ”tentare a tutti i costi”, costringendolo ad atroce sofferenza, di fermare un focolaio mentre imperterriti gli altri due proseguivano il loro cammino e lo divoravano, o lasciarlo andare via “in pace”. Non avemmo dubbi. Stava già soffrendo abbastanza.
Ma contro una malattia mentale cosa si può fare? Cosa vuoi decidere? Cosa puoi decidere? Solo di non impazzire anche tu.
Purtroppo, o per fortuna, per il percorso di studi fatti e in parte per esperienza lavorativa, riconosco i segni della demenza. Di questa malattia mentale. Perché questo è. Così molti anni fa, da una semplice frase detta da mia madre, mi accorsi che qualcosa non andava. Non era da lei. Ne parlai con mia sorella che ovviamente mi rispose: “ma no, sbagli, mamma sta bene. E’ stato solo un caso”. Sapevo quello che dicevo, così ho continuato a tenerla sotto controllo, a monitorarla. Anche se a distanza dato che ci separavano 100 km. I fatti accaduti negli anni purtroppo mi hanno dato ragione.
Ho fatto di tutto per tenerla sotto controllo: chiesto di venire a vivere vicino a me (vedova da tanti anni noi figlie lontane), consigliato di andare a passare qualche giorno presso un istituto retto da una sua cara amica suora, ho prenotato una serie di visite molte delle quali o disdette o anticipate da lei e per ultimo telefonare più volte al giorno! Almeno sei volte. Prima telefonata alla 5:30 “mamma sono le 5.30 devi prendere la medicina!”, ultima alle 23:30, per assicurarmi che andasse al letto invece che girovagare per le strade ed andare a suonare ai vicini per chiedere “è buoi perché è mattino presto o è notte?”.
Ed in tutto questo sono stata fortunata visto che una sera è stata ritrovata ed accompagnata a casa da un conoscente: erano passate le 23 e lei girava per le strade intorno a casa, strade che conosceva bene si, ma in stato confusionale.
Un paio di settimane dopo l’accaduto, era Pasqua e finalmente dopo tanti,
ma tanti anni ero riuscita a convincerla a passare la festività da me. Quell’anno la ricorrenza religiosa capitava a fine aprile, dopo qualche giorno si festeggiava il primo maggio. Compleanno di mio figlio. Insomma una ricorrenza dopo l’altra che avrei sfruttato per farla rimanere più giorni con me, farla riposare e portarla dagli specialisti. Tutto calcolato, nella speranza che, alla fine, come sempre non avesse detto ”non vengo più”.
Diceva mio marito “tua madre verrà solo quando e se si romperà il femore”.
Arriva la settimana Santa mia madre si rompe il femore. Erano le 19 di giovedì 17 aprile, arriva la telefonata di mio cugino “Paola devi venire subito, tua madre è caduta era in strada si è rotta il femore”.
La mia vita di lì ad un’ora sarebbe totalmente cambiata.
Loro non sanno cosa vuol dire ricevere una telefonata alle sette di sera “Paola DEVI venire tua madre è caduta” organizzarti in fretta e furia e partire: tua madre abita a cento chilometri di distanza. Non sanno cosa vuol dire passare la notte al pronto soccorso e vedere tua madre che si agita, si angoscia perché la malattia che fino ad allora era rimasta latente comincia a farsi spazio. Strada. Non sanno cosa vuol dire passare una notte insonne al pronto soccorso, per poi affrontare un viaggio con lei che è sempre più spaesata. Vedere gli occhi della dottoressa che lì per lì non capisce perché rifiuti il ricovero, spiegarle il motivo e vederli subito dopo pieni di angoscia, di tenerezza, di “signora ha tutta la mia comprensione!” Vedere il personale di turno quella notte schierato per augurarti buon viaggio (dall’ospedale di Avezzano a quello di Pescara) e la “buona fortuna per tutto” con un sorriso che ti fa bene al cuore ma ti fa anche capire tante cose. Arrivare all’ospedale di Pescara in macchina con tuo figlio, vedere tuo marito che è andato incontro all’ambulanza e che quando tua madre lo vede gli chiede “ciao, ma come mai abbiamo fatto questa gitarella?”. Hai la borsa con i suoi vestiti che non sai dove poggiare ma non puoi distrarti a pensare dove lasciarla, né dare peso alla stanchezza che comincia a farsi sentire. Hai due mani e con l’altra devi tenere la sua, sempre, perché lei strilla terrorizzata il tuo nome. Le stai accanto per quattro giorni di seguito senza dormire per paura che lei vada in crisi. E nonostante tutto non puoi evitare le sue crisi. E ti senti impotente e così l’unica notte che la lasci sola l’operatore OSS il giorno dopo ti dà il buon giorno, con il sorriso è vero,
ma ti dice “questa notte in camera ha nevicato!”, tu entri e trovi ancora in terra tracce del pannolone che lei ha fatto a pezzi durante la notte. Tu sai, tutti sanno che è malata, che non è in lei, ma senti comunque un senso di vergogna.
Il 30 aprile tua madre viene dimessa. Finalmente siete a casa. Il giorno dopo è il compleanno di tuo figlio e voi siete finalmente a casa tutti insieme. Niente più corse all’ospedale tre volte al giorno: colazione, pranzo e cena. Finalmente a casa. Si è quello che pensi…ma non è così.
Passano i giorni e cominci a chiederti “perché a me?!” Provi tanti sentimenti, positivi e negativi. E’ tua madre ha bisogno di te, lo sai, ma sei lucida abbastanza da ricordarti i momenti e le frasi brutte che tante volte ti ha detto. Da sempre. Sin da quando eri una bambina. Molte delle quali rimosse per sopravvivere. Perché era pur sempre tua madre e nel tuo immaginario di bambina una mamma non può mai essere cattiva. Si è tua madre ma è sempre stata più che imperfetta, nei tuoi confronti soprattutto. Ma questo tu ancora non lo sai, sai solo che sei arrabbiata con lei. Poi ti fermi a riflettere e pensi di essere tu stessa una persona cattiva per tutti questi pensieri che ti affollano la mente. Ma, come spesso accade, le pagine di un libro, apparentemente casualmente, ti regalano delle verità. Ti vengono in aiuto come “Mia madre è un fiume” di Donatella Di Pietrantonio (premio Campiello 2017 con ”L’Arminuta”): “Certi giorni la malattia si mangia anche i sentimenti. E’ un corpo apatico, emana l’assenza che lo svuota. Ha perso la capacità di provare. Allora non soffre, non vive.
Le visite di controllo servono a me. Mi rassicurano, non l’ho ammalata io e l’evoluzione è lenta. Alcune abilità sono in parte conservate. L’accompagno, mi occupo di lei, sono una figlia sufficientemente buona. (…) Certe volte la odio. Ora che guido verso di lei. Odio il tempo che mi costa. Quando vado via sono vuota, sfinita, non ricordo nulla. Abbasso i finestrini anche con il freddo perché l’aria si porti via il contagio che mi prende.
(…)Non mi avvicino, se ci provo sento la forza che si oppone quando accosti i poli dello stesso segno di due calamite.
Non l’ho superata. Non le ho perdonato niente.
(…) Ha bisogno di vedere dove vanno le mie gambe, le sue non ricordano il posto della macchina e non può distanziarmi come vorrebbe. Eppure la
neurologa le ha detto che l’ha trovata in buona forma. A mia madre non importa, sa che facendo il test un’ora prima o dopo, il risultato cambierebbe del tutto.
Queste visite la umiliano.
(…) Mia madre era un fiume di parole, ora di frasi stereotipate. Quanto cresce Giovanni, chi non si muove non mangia, che freddo stamattina. Al telefono chiede di continuo dove mi trovo. Sapermi al lavoro la rassicura. E’ stata la cifra della sua vita.
(…) Come il grano: la provvista è al sicuro, mentre un temporale maligno può disperdere nel campo i chicchi delle spighe croccanti pronte per la mietitura. Ci è successo tante volte e invece di raccogliere dieci, ci toccava sette o cinque. Così sono i ricordi, se qualcuno li disturba prima che vadano in magazzino si possono smarrire.”
A quel punto sai solo che ti devi fare forza perché lei, tua madre ha bisogno di te.
Nessuno può capire cosa passa, i sentimenti, le emozioni che prova chi si prende cura di un malato di demenza o Alzheimer. Nessuno, né tuo marito, un angelo che il signore ha messo al tuo fianco né i tuoi figli che comunque, anche se ormai grandi, hanno ancora bisogno di una mamma presente con il corpo e con la mente. Né i tuoi parenti. Nessuno!
Incontri gli occhi di chi ti ha messo al mondo e che con grande rammarico ti dice “tu dici che sei mia figlia ma io non mi ricordo che ti ho partorito”.
Guardare i suoi occhi che chiedono AIUTO perché come spesso ripete “no, non è così” “mamma tranquilla è tutto a posto” ma sai bene che ha ragione lei “non è così”, non è normale la situazione in cui si ritrova. Dopo quasi un anno che vive con te ti dice ”oggi posso dormire qui”, “oggi posso mangiare qui? Lo portano anche per me?”
Occhi pieni di AIUTAMI TI PREGO e dopo un attimo, colei che pochi istanti prima si rammaricava di non ricordare, si rivolge a te dicendoti che sei falsa, che la vuoi imbrogliare che dici tante bugie. Hai ancora in mano il piatto del pranzo che lei ha divorato e ti dice che la stai facendo morire di fame che non mangia da giorni. Ti sputa in faccia.
E allora tu tieni duro, resisti. “Tieni duro finché puoi” è quello che ti dicono, ripetono continuamente amici e parenti. Già. Ma davanti ad un genitore che soffre quant’è questo “puoi”?
La vedi, giorno dopo giorno, andar via in un mondo tutto suo. A te non è dato entrare, puoi solo accompagnarla in questo viaggio che può durare
anni e tu DEVI essere in grado di affrontarlo, sia che ci sia il sereno che la tempesta. Pronta ad affrontare tempeste di neve in piena estate ed essere consapevole che quando per te sarà un bellissimo giorno di agosto per lei potrebbe essere una notte di dicembre.
Lei è tua madre ma tu per lei sei Paola…Giovanna…Angela…
Sai a volte vorrei essere una farfalla per volare leggere fra i tuoi pensieri, senza disturbare. Si, volare tra i tuoi pensieri, vedere “capire” cosa pensi, cosa provi, capire cosa pensi quando mi guardi con quegli occhi che chiedono aiuto, capire cosa provi quando mi chiami con un altro nome, quando mi chiedi “cos’è?” ed io “un cucchiaino”, quando bevi il latte e mi chiedi “questo come si chiama? Ma è pranzo o colazione? Ma questo…ma quello…?” Capire cosa veramente provi quando ti rendi conto che non sai più i termini, non riesci a comunicare. Capire se vedi il mio dolore, anche se cerco di nasconderlo. So che ti addolori per me. Nei rari momenti di lucidità ti addolori e dici “mi dispiace per tutto quello che vi sto facendo passare!” A me fa male sapere che la malattia ti concede minuti di tregua. In quei momenti la tua anima soffre. Lo so. Lo vedo.
A volte vorrei essere una lucciola per portare un pò di luce in quel buio che tanto ti spaventa.
A volte quando ti dico ”mamma stai serena va tutto bene” vorrei essere una coccinella perché le coccinelle portano bene…ma io e te lo sappiamo che non va tutto bene.
Vorrei accompagnarti in questo percorso cercando di alleviare il più possibile le tue sofferenze, le tue paure, ma so che non sarà possibile perché non sono una farfalla, né una lucciola né coccinella. Sono solo una persona…ma sono tua figlia
Loro non sanno cosa vuol dire guardarla, provare un misto tra tenerezza e dolore, pensare che quella non è lei, non è vita. Neanche per te che da due anni non esci per non lasciarla sola, per farle avere un punto di riferimento. Forse l’unico che le è rimasto. Per non gravare troppo sulla tua famiglia che già fa quello che può per aiutarti. Loro non sanno cosa vuol dire augurarle la morte perché soffre nel fisico e nella mente e sentirti una persona cattiva per questo, Sentirti impotente perché non puoi aiutarla. Nessuno più può aiutarla.
Nel frattempo nel mondo scoppia il Covid 19, senti di tutti i decessi nelle
strutture per anziani e loro ti dicono “hai visto che hai fatto bene a non ricoverarla. Tu pensa se stava là?”. Giusto abbiamo fatto bene lei è con noi, con me ed è viva. Sta bene…ma io come sto? Loro se lo sono mai chiesto?
Si sono mai chiesti quanto possa essere destabilizzante guardare tua madre, parlare con lei e non sapere se in quel momento hai di fronte tua madre o semplicemente Maria?
I parenti che assistono questi malati a volte hanno bisogno di consigli, ma quello di cui hanno più bisogno è essere rincuorati “tranquilla stai facendo la cosa giusta”. Ai parenti che assistono questi malati capita di sentirsi cattivi, perché capita che i cattivi pensieri affollano la mente, ma poi per fortuna ti capita di ascoltare un’ intervista ad un ex primario di geriatria di un ospedale che afferma “nessuno si chiede cosa provano i parenti dei pazienti malati di demenza o Alzheimer”. Si ti senti meno cattiva.
Ogni giorno lei guarda ammirata il ciondolo che porti, prova a toccarlo ma non ci riesce. Ti avvicini a lei ma non riesce a coordinare i movimenti. Poi un giorno indica il ciondolo e ti dice “so che sei tu perché hai questo” e il tuo cuore si riempie di gioia perché sai che lei ti riconosce.
Poi c’è quel giorno che, con un linguaggio tutto suo (perché questi malati hanno un linguaggio tutto loro) e che dopo i primi mesi di convivenza hai iniziato a capire, mentre la stai cambiando e medicando per la notte ti dice
“mia figlia mi vuole bene” tu sorridi e le dici” ti vuole bene? E tu le vuoi bene?” lei “si” ed ancora tu “se le vuoi bene vuol dire che è brava. E’ brava tua figlia?” e lei “si”.
Tua madre dice “si le voglio bene, lei che in 54 anni non ti ha mai detto “ti voglio bene”.
Arriva un punto che ti rendi conto che devi sopravvivere a tutto ciò, che devi cercare un “perché a me?” altrimenti non ne esci viva. Lì ti rendi conto di quanto sei forte.
Cerchi un perché a tutto questo. Ti fai mille domande. Fai mille domanda a Lui…che poi chi sarà questo lui?! Da dove ti viene la forza per sollevarla, curarla, farla mangiare, stare con lei in ogni momento per non farla sentire sola, per farla partecipe alla vita di tutti i giorni? Dove trovi la forza per sorridere (e non piangere) quando lei ti dice che ha tre figli (in realtà siete solo tu e tua sorella), due femmine e un maschio ma tra le femmine tu non ci sei ed il maschio in effetti è tuo marito? L’unico che riesce a sollevarla è tuo marito, così dopo che hai sudato sette camice per cambiarla come
sempre da capo a piedi con immensa fatica, lo chiami, lui entra e tua madre “o, quando vedo te vedo la luce!” tu ridi e scherzi ma in cuor tuo un pò soffri perché ti rendi conto, pensi che infondo gli sforzi che fai tu non sono mai abbastanza. Ma non ti offendi perché lei è, da due anni, immobile, quello che desidera di più è soltanto alzarsi un pò e lui riesce ad “abbracciarla” ed alzarla. Tu no.
Arrivi ad un punto che cominci a pensare che forse qualcuno sta dando attraverso la malattia la possibilità a lei di dirti finalmente che sei una brava figlia, lo sei sempre stata ma lei non sapeva come dirtelo. Più volte l’aveva confidato agli altri, ma mai a te.
Così come pensi che qualcuno ti sta mettendo alla prova per farti capire quanto sei forte. Lo fa tramite le persone che ti circondano. In primis i tuoi figli, che alla fine di quest’avventura ti dicono “mamma sei una donna forte. Noi non ce l’avremmo fatta. Sei stata davvero forte.”
Così come ti risuonano nelle orecchie le parole della dottoressa che durante l’ultimo ricovero di notte, perché era evidente che quella non era una delle tante crisi ma l’inizio del viaggio verso un’altra vita, ti saluta dicendo “signora le volevo fare i complimenti per come ha tenuto finora sua madre” “perché dottoressa l’ho tenuta come era normale tenerla!” “no signora, tutto il reparto le fa davvero i complimenti”
Dopo qualche giorno sei andata via. Hai smesso di soffrire. Sei andata via sospirando. Serena.
Ti ho accarezzato ed accompagnato fino all’ultimo respiro. Fino all’ultimo sospiro che serenamente ti ha portato dai tuoi cari che sono andati via prima di te.
Anch’io ora sono serena.
Ringraziamenti
Al termine di questo viaggio di emozioni i ringraziamenti sono, se pur brevi, doverosi.
Ringrazio la mia famiglia: mio marito ed i miei figli. Lo sapete, senza di voi non ce l’avrei fatta.
Ringrazio una grande Donna: mia cugina Maria Orlandi, giornalista e grande scrittrice che coinvolgendomi nei suoi progetti mi ha fatto tornare a vivere.
La strada è lunga e tutta in salita. Camminare non mi spaventa!
Di Paola Gallese
Direttore Organizzativo presso Web magazine AbruzzoinArte
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