Avete mai provato ad alzare gli occhi al cielo? Fra le stelle luccicanti e i pianeti un po’ più grandi c’è un posto dove vivono solo … elefanti.
Questa è la storia di Tino, un elefantino di appena 6 anni che aveva un sorriso per tutti, grandi occhi dolci, brillanti di emozione. Tino viveva al terzo piano di un palazzo azzurro nella periferia di una grande città. Un quartiere dove i cuccioli giocavano per strada, le mamme preparavano il pranzo, i papà lavoravano tutto il giorno e alla sera rientravano stanchi ma contenti di riabbracciare i loro piccoli, dove i fratelli un po’ più grandi erano irrequieti e dispettosi.
C’era un volta un elefantino di nome Tino, di appena 6 anni che si preparava a vivere una grande avventura.
Siamo pronti per ascoltarla?
Tino era un elefantino che aveva una particolarità: era di colore arancio tendente al marrone e questo lo rendeva diverso dai suoi coetanei. I suoi occhioni blu spiccavano dall’arancio della pelle esprimendo tutta la profondità di ogni emozione provata. Si perché Tino aveva un’altra caratteristica: era sensibile, si emozionava talmente tanto che spesso due lacrimoni facevano capolino dagli occhioni.
Il papà di Tino si chiamava Bebè, un nomignolo che gli era stato dato dagli zii che lo avevano allevato fin da quando era cucciolo e che ormai gli era rimasto al punto che nessuno conosceva il suo vero nome, anzi Tino aveva il sospetto che anche il suo papà lo avesse dimenticato. La cosa buffa era che Bebè era un elefante cresciuto a dismisura, forse a causa delle coccole degli zii, che a fatica si muoveva per le strade e lavorava come ragioniere in un negozio di legname.
Mamma elefante era un po’ dura di carattere: affettuosa quanto bastava con i suoi pargoli, un po’ meno tenera con Bebè, più preoccupata del fatto che lui fosse sempre in ordine e non apparisse mai trasandato sul posto di lavoro, anche perché in una azienda di legname i ciottoli fioccavano spesso e si appiccicavano dappertutto e questo lei proprio non lo tollerava. Il suo nome era Virna.
Pap, il fratello maggiore, si affacciava all’età dell’inquietudine. Dispettoso con Tino, diventava timido e impacciato coi suoi coetanei, per non parlare poi delle femmine elefante: ne subiva il fascino ma davanti a loro non riusciva a spiccicare una parola. Adorava indossare un giubbotto di pelle e stivaloni rumorosi, sperando sempre di poter arrotolare un ciuffo sulla testa, ma… l’unica cosa che riusciva ad arrotolare era la sua immatura proboscide.
Tino trascorreva gran parte del suo tempo libero ad osservare. La finestra della sua cameretta lo invitava ad affacciarsi e là davanti si apriva un cortile di rumori festosi: elefantini ed elefantine in cerchio a giocare canticchiando, una squadra di “pallone alla proboscide” organizzata all’ultimo momento dai più discoli, elefanti col berretto che si occupavano di tenere pulito il quartiere.
Tino era sempre più attratto dal desiderio di partecipare.
Dalla finestra del tinello si vedeva la scuola, di soli due piani perché tutte le strutture del pianeta degli elefanti non possedevano ascensori, solo i montacarichi all’esterno per i più anziani. Davanti un grande prato verde di giochi colorati, altalene rinforzate, scivoli enormi, bilance costruite per sostenere pesi elevatissimi. E poi, quello che più piaceva a Tino: le margherite selvatiche con i loro delicati petali bianchi, lo stelo verde, poche foglie; i fiori più semplici e proprio per questo per lui i più belli. Uno dei desideri più grandi del nostro piccolo elefantino era di potersi fermare un giorno e raccoglierne almeno una, magari da donare alla sua mamma. Invece ogni volta era come se un qualcosa lo facesse fuggire via, per rifugiarsi al più presto nella sua dimora.
Una domenica di fine novembre, sentì dietro di lui un fruscio delicato, un movimento che non assomigliava per niente al passaggio del suo papà Bebè, o di mamma Virna, men che meno di Pap. Si voltò e di fronte a lui vide una figura diversa dai suoi simili: sembrava la sagoma di un personaggio che aveva già visto in uno di quei libri con immagini di paesaggi fantastici che spesso gli regalava la zia Anda. È qui che conobbe gli umani: esseri che camminavano su due zampe e che al posto della proboscide avevano una cosa chiamata naso.
Per un momento si guardarono negli occhi: Tino più incuriosito che spaventato e l’essere umano, che si reggeva sulle sole due zampe, terrorizzato. Ma in quel momento si sprigionarono tutte le magie che conoscono solo i cuccioli di ogni razza e i due riuscirono, senza scappare via, chi con le gambe chi con le zampe, a parlarsi.
– “Tu non sei un elefante? Dov’è la tua proboscide? E le altre due zampe che fine hanno fatto?” – fece Tino con un fil di voce.
– “Io sono un bambino, non ho mai avuto la proboscide, noi abbiamo il naso e solo due gambe.” – rispose il piccolo.
In quel momento passava Pap che, incuriosito dall’espressione del fratello, si fermò a chiedere come mai stesse parlando da solo e a voce alta. Tino replicò immediatamente indicando il bambino che si trovava proprio lì, ma Pap, non vedendo nessuno, prese la palla al balzo e iniziò a canzonarlo:
– “Si certo, un bambino vero, nemmeno un elefante!” –
Come era possibile che non lo vedesse? Come era arrivato il bambino nella terra degli elefanti?
Un mistero.
Ma i due restando soli non si preoccuparono di svelarlo, la spontaneità dell’infanzia, che lega i cuccioli di ogni mondo, li condusse immediatamente più avanti, là dove le cose impossibili non hanno bisogno delle spiegazioni.
Si avvicinarono l’un l’altro, il bambino allungò una mano e accarezzò il capo di Tino che si emozionò sorridendo e disse tutto d’un fiato:
– “Avrei un desiderio, uno solo, il più grande: vorrei poter avere il tuo coraggio. E’ vero, non c’è spiegazione al tuo viaggio, ma di sicuro la tua forza ti ha condotto qui, lontano dalle tue cose, dalle tue sicurezze, dai tuoi più grandi affetti. Io vorrei solo poter indugiare nel prato qui giù, davanti scuola, invece di andare via subito.” –
Tra piccoli le parole possono anche mancare, non è necessario parlare per comprendersi, la schietta verità corre veloce. E così due sole chiacchiere furono sufficienti ad allontanare le paure.
– “Tino, guarda fuori coi tuoi occhioni: la paura vive dentro, fino a che la tieni nascosta impedendole di uscire mai proverai a fare un salto. Dammi la tua zampa, tieni stretto il cappello con la stella e vieni via con me!” – disse il bimbo.
In men che non si dica, Tino si ritrovò con le sue lacrime di gioia fra le margherite che in quel giorno erano più grandi del normale, tanto grandi da bastarne solo una da raccogliere e sventolare verso l’alto, là dove al terzo piano di un palazzo azzurro di un quartiere popolare di elefanti, sorridendo si affacciavano una mamma elefante, un papà affettuoso, un fratello dispettoso.
Questa è la storia di Tino, un elefantino di appena 6 anni, che grazie alla forza della fantasia della sua tenera età, riuscì a tirare fuori la sua paura più grande, realizzando il più bel desiderio.
Questa è la storia di Tino, un elefantino dagli occhioni teneri e brillanti, che non si vergognava di emozionarsi e che aveva un sorriso per tutti.
Questa è la storia di Tino.
Biologa CNR, Counselor. Responsabile “gestione area informativa” Progetto SOS Alzheimer On Line