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Viaggiamo attraverso la foresta del vocabolario italiano alla ricerca di parole omofone (stessa grafia e stessa pronuncia) ma dal significato diverso, facendo tappa alla “borsa”.
La prima accezione del termine non è abbisognevole di spiegazioni.
È interessante vedere, invece, la nascita della borsa nel significato di “Istituto previsto dalla legge per il commercio e la contrattazione dei valori pubblici, cioè titoli di credito, azioni industriali e commerciali, valori privati e merci”.
Tra le varie ipotesi sull’origine di questa Istituzione, quella più convincente – a nostro modesto parere – la dà L. Guicciardini nel XVI secolo: Borsa (Van de Beursen) era il nome di una aristocratica famiglia di Bruges (Belgio), il cui stemma aveva tre borse. Dal palazzo abitato dalla nobile famiglia prese il nome la piazza della città ove si riunivano i commercianti che in seguito chiamarono “Borsa” anche le piazze di altre città belghe o straniere dove convenivano periodicamente per le varie fiere.
Con il trascorrere del tempo si chiamò “Borsa” – per estensione – ogni luogo o edificio dove venivano trattati affari commerciali, quindi anche la moderna Borsa. E a proposito di Borsa – visto che siamo in argomento – due parole sul “crack” che molti, per non dire tutti, si ostinano a scrivere in modo orrendamente errato. Cominciamo con il dire che si scrive “crac” (senza il k). È, infatti, una voce onomatopeica che riproduce il rumore di una cosa che si rompe, che si sfascia, che crolla. Il caso vuole che questo termine si sia diffuso in Italia dal tedesco (non dall’inglese!) “Krach”, in seguito al crollo bancario, così chiamato, avvenuto a Vienna il 9 maggio 1873. Lasciamo stare, quindi, l’inglese “crack” (tra l’altro i giornali inglesi adoperano la voce tedesca) e usiamo – per indicare un fallimento, un crollo finanziario – il nostro italianissimo “crac”, riservando la grafia inglese esclusivamente al campo dell’ippica. Il “crack”, infatti, è un purosangue, un cavalo di razza, un cavallo “famoso”, un campione vanto di una scuderia (l’inglese “to crack” significa anche “vantarsi”). Sarebbe bene, però, al fine di evitare equivoci ma soprattutto per scrivere “in lingua” che la stampa e i mezzi di informazione, in genere, abbandonassero le parole straniere e tornassero alla madre lingua che offre un’ampia scelta di vocaboli che fanno alla bisogna: cavallo campione; campione o anche “campionissimo”. Non vorremmo che un giorno si presentasse in Borsa – per colpa dei giornali – un bellissimo “crack” per essere quotato a un prezzo da capogiro! Se messo alla porta avrebbe tutto il diritto di risentirsi e menare calci a destra e a manca. Non si inganna nessuno, neanche gli animali.
A cura di Fausto Raso
Giornalista pubblicista, laureato in “Scienze della comunicazione” e specializzato in “Editoria e giornalismo” L’argomento della tesi è stato: “Problemi e dubbi grammaticali in testi del giornalismo multimediale contemporaneo”). Titolare della rubrica di lingua del “Giornale d’Italia” dal 1990 al 2002. Collabora con varie testate tra cui il periodico romano “Città mese” di cui è anche garante del lettore. Ha scritto, con Carlo Picozza, giornalista di “Repubblica”, il libro “Errori e Orrori. Per non essere piantati in Nasso dall’italiano”, con la presentazione di Lorenzo Del Boca, già presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, con la prefazione di Curzio Maltese, editorialista di “Repubblica” e con le illustrazioni di Massimo Bucchi, vignettista di “Repubblica”. Editore Gangemi – Roma.