Bugsy Siegel era un mafioso. Ma non solo.
L’unica caratteristica naturale attribuibile a Las Vegas è una sorgente a nord del centro della città. Un tempo utilizzata dai nativi americani Paiute in occasione delle soste stagionali nella regione, venne riscoperta nel 1829 dall’esploratore messicano Rafael Rivera. La zona divenne nota tra i viaggiatori che attraversavano via terra questa landa desertica con il nome di las vegas (cioè “i prati”) un luogo in cui si era sicuri di poter trovare acqua e di che nutrire i cavalli e con l’andar del tempo si trasformò in regolare luogo di sosta lungo lo Spanish Trail, la strada percorsa dai pionieri diretti verso sud e verso la California. Negli anni ’50 del XIX secolo i mormoni costruirono le prime case, una piccola missione e un fortino trasformato poi in fattoria; tuttavia l’insediamento non prese a svilupparsi che nel 1902, quando gran parte del territorio fu venduto a una società ferroviaria. Nel momento della posa dei binari la zona attualmente occupata dal centro era suddivisa in 1200 lotti, tutti venduti nella sola giornata del 15 maggio 1905, ora festeggiata come data di nascita della città.
In quanto centro ferroviario, a La Vegas sorsero ben presto officine meccaniche, una fabbrica del ghiaccio e numerosi alberghi, saloon e locali in cui ferveva il gioco d’azzardo. Verso la metà degli anni ’20 le ferrovie lasciarono a casa centinaia di operai, ma un’impresa iniziata proprio all’epoca della Depressione portò invece alla rinascita della città. Il progetto dell’immensa diga Hoover (Hoover Dam, allora conosciuta come Boulder Dam), avviato nel 1931, era destinato a fornire in breve tempo alla città lavoro e un insperato sviluppo, oltre ad abbondanza d’acqua e di energia nel lungo periodo.
Nel 1931 lo stato del Nevada legalizzò il gioco d’azzardo e semplificò le leggi che regolamentavano il divorzio, due provvedimenti che aprirono la strada alla costruzione del primo grande casinò, realizzato da un’impresa edile di Los Angeles e inaugurato nel 1941. E qui che entra in scena Bugsy Siegel. Convince la mafia che conta a investire in qualcosa che non danneggia (come la droga) e non sfrutta (come la prostituzione) ma può diventare altrettanto remunerativo: la voglia di sfidare la sorte per vincere o rimetterci tutto.
L’edificazione del Flamingo, nel 1946, contrassegnò lo stile dei futuri casinò: grandiosità, sfarzo, divertimenti sine die, destinati ad attirare persone da ogni angolo della Terra e generare posti di lavoro a ciclo continuo. Bugsy Siegel ha pagato con la vita questa scommessa. Il bel film, diretto dal regista Barry Levinson,interpretato da attori del calibro di Warren Beatty, capace di ottenere (nel 1992) dieci nomination e due Oscar, dimostra come, alle volte, i luoghi comuni ci privino della possibilità di osservare la realtà col suo giusto mezzo, nel bene e nel male.
In ogni Società “cosiddetta” civile, si verificano situazioni particolari in merito alla diffusione di informazioni che condizionano l’opinione pubblica orientandola in funzione di programmi o progetti che, spesso, hanno quel retrogusto un po’ amaro che “sa” di discutibile. Anche se “spesso, è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio” (Albert Einstein), sarebbe opportuno cercare di andare oltre i soliti luoghi comuni e tentare, in tal modo, di sfatare certi modi di pensare un po’ bigotti orientati, più che altro, da paraocchi che mettono il guinzaglio al cervello e annebbiano qualsiasi proposito di verità oggettiva.
Rom… o Rumeno?
La ricca storia della Romania, non è conosciuta come si dovrebbe. Come spesso accade, quando, si tranciano giudizi su base di ignoranza. Gli storici romeni, seppure profondamente divisi sull’incasellamento oggettivo da dare alle tappe fondamentali del loro Paese, hanno ravvisato gli elementi costitutivi dello Stato unitario nella tradizione storica, nel sentimento nazionale, negli interessi comuni della vita economica e soprattutto nella comunanza della lingua. Essi addirittura hanno ripreso una tesi messa in rilievo dallo storico italiano Antonio Bonfini, che già nel XVI secolo aveva sostenuto la comunanza linguistica come elemento indispensabile dell’unità politica e territoriale.
L’introduzione della stampa e l’uso della lingua latina nella Chiesa e nell’amministrazione dello Stato hanno contribuito a rafforzare i rapporti commerciali tra la Moldavia e la Valacchia con la Transilvania, la cui economia si è sempre orientata verso il Danubio e il Mar Nero. Le città di Braşov, di Bistriţa e di Sibiu hanno rappresentato i principali punti di contatto delle tre regioni sul piano economico. A questo aspetto strettamente commerciale, si deve aggiungere un fondo culturale comune costituito dai costumi, dalle convinzioni religiose e dai medesimi rituali come le cerimonie dei battesimi, delle nozze, dei funerali e delle feste.
Le prime formazioni politiche sono apparse fra il IX e il XIII secolo in Moldavia, in Valacchia e in Transilvania, regioni circondate in quei secoli da potenti Stati feudali con mire egemoniche. L’ondata delle invasioni barbariche, durata fino alla seconda metà del XIII secolo, ha ritardato la formazione dei tre voivodati (unità del territorio con un proprio consiglio regionale). La loro lotta, proseguita contro le tendenze espansionistiche degli Stati confinanti (il regno di Polonia e quello d’Ungheria), ha assunto un peso decisivo durante l’instaurazione del dominio ottomano. Con il declinare della potenza turca verso il principio del XVIII secolo, i Paesi romeni divennero campo di lotta fra i contrastanti espansionismi dell’Impero austriaco e di quello zarista. Ma in pari tempo si diffusero, con la cultura dell’Europa occidentale, le idee di libertà e di indipendenza proclamate dalla Rivoluzione francese e, (nel 1822) i Fanarioti, posti dal governo ottomano sui troni di Valacchia e di Moldavia, furono sostituiti con prìncipi nazionali. Il risultato più interessante di questa particolare situazione giuridico-internazionale fu determinato dall’introduzione del “Regolamento organico” (una vera e propria Costituzione), che stabilì la separazione dei poteri ed istituì un’Assemblea generale, un consiglio dei ministri, un apparato burocratico, un sistema fiscale e un esercito estesi su tutto il territorio dei due Principati.
La rivoluzione del 1848 risvegliò un sentimento nazionale, che pose le condizioni per l’abbattimento del dominio turco. Nel 1858 le Grandi Potenze (Austria, Inghilterra, Prussia, Regno di Sardegna, Russia) decisero di sostituire ai vecchi istituti di tipo costituzionale una Convenzione e un nuova legge elettorale. Grazie ad essa fu raggiunta, l’anno successivo, l’Unione dei Principati di Moldavia e di Valacchia, che costituì nel 1862 lo Stato romeno. In questo processo unitario le idealità nazionali trovarono piena attuazione dopo la Prima guerra mondiale, quando la Romania, in seguito all’aumento della popolazione e all’estensione del suo territorio, modificò completamente il suo volto, ingrandendosi notevolmente. Alla fine della Seconda guerra mondiale la Romania restituì solo i territori ceduti all’Ungheria, ma divenne uno dei tanti stati satelliti dell’Unione Sovietica.
La dittatura “velata” di Gheorghiu-Dej e quella macroscopica di Ceauşescu frenarono ogni forma di sviluppo anche se, entrambi, cercarono di garantirsi una certa autonomia sul piano internazionale. Poi la caduta del muro di Berlino, (nel novembre 1989) segnò il trapasso a un sistema politico pluralistico, l’ingresso nella NATO e l’avvio di un processo di modernizzazione culminato con l’ingresso nell’Unione europea.
I Rom
Popolazione indoeuropea che parla una lingua di ceppo indiano, concentrato soprattutto nell’Europa dell’Est, in Spagna e in Sud America (specialmente in Brasile e in Argentina) Nella loro lingua, il termine ” Rom” significa semplicemente “persona”, “essere umano”. I Rom costituiscono uno dei gruppi etnici (insieme a Sinti, Caminanti ed altri minori) che vengono nel loro insieme chiamati zingari, zigani o gitani. Questi definizioni, hanno un comune denominatore che deriva dal termine Egitto, in quanto alcune zone della Grecia dove abitavano erano particolarmente fertili e paragonate, appunto, a un piccolo Egitto. I Rom sono spesso anche chiamati nomadi, termine che si riferisce genericamente a chiunque conduca vita itinerante e che, quindi, sarebbe improprio riferito a quanti di loro preferiscono una vita “stanziale”. Il termine si riferisce infatti alla cultura nomade del popolo e non alla situazione contingente attuale di una parte di esso.
Curiosità. Molti italiani credono che ci sia coincidenza tra il popolo Rom e il popolo Romeno e avallano questa loro convinzione considerando il termine “Rom” come un’abbreviazione di Romeno. In realtà “Rom” significa “Persona”, mentre “Romeno” significa “abitante della Romania”. Quindi un Rom può avere nazionalità romena, ma sicuramente non tutti i Romeni sono Rom. In Italia si stima che siano presenti 160.000 Rom e 1.000.000 di Romeni. Da ciò si desume che almeno 840.000 Romeni presenti in Italia non sono Rom.
A proposito di genetica, un altro indizio dell’origine indiana dei Rom è la diffusione del cromosoma Y tipo H-M82 (presente nel 47.3% di loro), rarissimo al di fuori del subcontinente indiano. A questa caratteristica genetica si aggiunge anche la particolarità dei filamenti di DNA di tipo M contenuto nei mitocondri, tipico delle popolazioni indiane. Si pensa quindi che le popolazioni Rom abbiano tendenzialmente una discendenza comune da un gruppo originario proveniente dall’India circa quaranta generazioni fa, successivamente frazionatosi.
Un po’ di storia. La tradizione Rom è stata per secoli tramandata oralmente, così sappiamo del loro passato soprattutto ciò che hanno lasciato scritto le varie culture dominanti con cui i Rom sono venuti in contatto. Secondo gli studiosi, la lingua dei Rom (il romanés, in italiano detta anche romanì e in inglese romany) è simile al sanscrito (che è una lingua ufficiale dell’India, dalla quale derivano molte moderne lingue del paese) e anche per questo sembra probabile che provenissero dall’India, da dove sono dovuti fuggire intorno all’anno mille.
Cosa c’è dietro il tentativo di farci credere che ci si trovi tutti in un unico calderone?
Forse un interesse particolare dei media che si basano su studi specifici di marketing in base ai quali le brutte notizie attirano di più delle liete novelle. In effetti, un’informazione capace di generare stress, attiva la struttura cerebrale responsabile di generare emozioni intense e, di conseguenza, la risposta in termini di audience è maggiormente remunerativa.
Giusto per curiosità, che fine hanno fatto quei cumuli di spazzatura che, fino a qualche mese fa, sembrava che stessero per sommergere (senza apparente possibile soluzione) l’intera Campania e che ricompaiono come bombe ad orologeria in alcuni telegiornali?
A voler essere un po’ diffidenti (magari solo un po’!) situazioni del genere fanno tornare alla memoria alcuni giochi politici internazionali di cui, noi Italiani siamo esperti “tessitori”. Personaggi politici del calibro di Camillo Benso conte di Cavour (per citarne uno fra tanti) si sono mostrati disponibili a partecipare a conflitti bellici solo per poter mettere sul piatto della bilancia (sul fronte delle richieste riguardante lo scacchiere internazionale) un bel numero di morti sul campo.
Potremmo aggiungere che, alcuni paesi dell’area prospiciente il mar mediterraneo (e non solo) hanno preso l’abitudine di esercitare una certa pressione “politica” mediante la minaccia di immigrazioni massicce e incontrollate che potrebbero destabilizzare qualunque organizzazione umanitaria volesse prendersi a cuore simili. D’altronde, i giochi di guerra si sono spostati su scenari diversificati ma aventi lo stesso denominatore: la diffusione di notizie “pilotate” e difficilmente verificabili.
“Un buon capro espiatorio vale quasi quanto una soluzione” (proverbio popolare).
Come difendersi?
Sostenendo le proprie buone ragioni. Quali? Partendo dal principio che, secondo la lingua italiana, la ragione identifica quella facoltà propria dell’essere umana di stabilire connessioni logiche tra idee, che costituisce la base della conoscenza e del discernimento, aggiungerei che si dovrebbe prendere come modello il comportamento dell’organismo il quale, di fronte a batteri, virus e parassiti di ogni genere, cerca di stabilirne, dapprima, il grado di potenziale dannosità e, conseguentemente, calibra le strategie opportune: o li combatte, o impara a saperci convivere “utilizzandoli” come “stimolanti vaccinatori”, in grado di tenere allenate le difese.
“Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore, e avranno la guerra” (Winston Churchill)
Good News
Un mio amico giornalista mi ha spiegato che tutto ciò che determina stress e ansia, fa aumentare la tiratura e l’audience. E se cominciassimo ad educare al piacere di apprezzare, finalmente, una buona notizia? Non tanto per spegnersi dietro la ricerca di una “borghese” tranquillità quanto, piuttosto, per mettersi in condizione di valorizzare quello che ci dà la possibilità di evolvere sul serio.
“Dagli schermi di casa, un signore raffinato e una rossa decisa con il gomito appoggiato ti danno il buongiorno sorridendo e commentando con interviste e filmati ti raccontano a turno a che punto sta il mondo. E su tutti i canali arriva la notizia un attentato, uno stupro e se va bene una disgrazia che diventa un mistero di dimensioni colossali, quando passa dal video a quei bordelli di pensiero che chiamano giornali. Ed ogni avvenimento di fatto si traduce in tanti “sembrerebbe”, “si vocifera”, “si dice” con titoli ad effetto che coinvolgono la gente in un gioco al rialzo che riesce a dire tutto senza dire niente… E c’è un gusto morboso del mestiere d’informare, uno sfoggio di pensieri senza mai l’ombra di un dolore e le miserie umane raccontate come film gialli sono tragedie oscene che soddisfano la fame di questi avidi sciacalli. Inviati speciali testimoniano gli eventi con audaci primi piani, inquadrature emozionanti di persone disperate che stanno per impazzire, di bambini denutriti così ben fotografati messi in posa per morire. Lasciateci il gusto dell’assenza, lasciatemi da solo con la mia esistenza che se mi raccontate la mia vita di ogni giorno finisce che non credo neanche a ciò che ho intorno…
C’è un’aria, un’aria, ma un’aria… che manca l’aria” (Giorgio Gaber).
Moratoria sulla pena di morte…
NEW YORK 18.12.2007 – L’assemblea generale delle Nazioni Unite ha detto sì alla proposta di moratoria sulla pena di morte. La decisione dell’Onu è una vittoria diplomatica per l’Italia che ha promosso l’iniziativa. 104 Stati hanno votato a favore. Sono 13 anni che ogni tentativo di approvare qualche cosa di simile al Palazzo di Vetro è naufragato. Già altre due volte, nel ’94 e nel ’99, le iniziative sulla pena di morte erano deragliate a livello di commissione e spesso per pochi voti. Colpa di quegli Stati, circa 50, in cui la pena di morte è ancora in vigore. Si attende il passo successivo: quello della definitiva abolizione.
La rivincita dei senior?
In molti paesi europei si sono resi conto che un lavoratore anziano non è necessariamente meno efficiente di un collega giovane ma, anzi, spesso porta in dote un bagaglio di esperienza professionale e di adeguato comportamento di fronte a situazioni complesse, da noi le politiche sull’occupazione nei confronti degli ultra cinquantenni, a conti fatti, rappresentano un’incognita rilevante. “La tragedia della vecchiaia non è di essere già vecchi, ma di essere ancora giovani” (Oscar Wilde). Chi assume, di solito, preferisce i giovani. Ma recenti studi sul cervello dimostrano che i neuroni “ingrigiti” funzionano altrettanto bene di quelli ancora “bruni” e, in qualche caso, persino meglio. Eppure, sono ancora tanti i pregiudizi a sfavore di chi ha superato la barriera degli “anta” già da qualche luna: lenti, distratti, poco adattabili, non accettano il lavoro di equipe, rifiutano le nuove tecnologie, etc. “La vecchiaia inizia quando si è sicuri di non essersi mai sentiti così giovani” (Jules Renard).
Con molta probabilità, il punto di accordo migliore si otterrebbe seguendo il modello delle antiche tribù degli indiani d’America, le quali utilizzavano gli anziani per ottenere suggerimenti e consigli al fine di giungere velocemente alla soluzione dei problemi, risparmiandosi il costoso “pedaggio” da pagare all’insegnante più difficile, quello che prima ti fa l’esame, e poi ti spiega la lezione: l’esperienza di vita.
Poca politica, meglio il ballo o il cinema. E a tre su dieci non piace il cartellino.
Qualcuno potrà rimanere sorpreso. Ma la “classe operaia”, quella mitizzata per molto tempo nella letteratura sociopolitica, come roccaforte della sinistra, sembra proprio non esistere più. Malgrado l’attuale paradossale crescita di attenzione per la politica tra la popolazione nel suo insieme, proprio tra gli operai, la partecipazione e l’interesse per tutto quello che gira intorno a Berlusconi, Prodi e dintorni, sembra trovare minor spazio che in altre categorie.
Al tempo stesso, il complesso degli operai italiani mostra una netta frattura di visioni riguardo alla questione della flessibilità del lavoro. Così , la maggioranza relativa dichiara ( coerentemente con quanto accadde tra gli altri lavoratori, ma contrariamente a quanto si rileva tra i non occupati) di preferire un mercato del lavoro che consegni “maggiori possibilità di licenziamento ma che favorisca stipendi più elevati”.
C’è, insomma, un orientamento spesso prevalente verso la maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Alla luce di tutto ciò, non sorprende il fatto che la maggioranza relativa degli operai italiani possa forse essere definita “sarkoziana”, almeno dal punto di vista del mercato del lavoro. Ad esempio, al quesito riguardo alla possibilità che ciascuno possa “fare gli straordinari che vuole guadagnando, così, di più”, la maggioranza relativa (che raggiunge quasi la metà dei lavoratori interpellati) risponde affermativamente.
Il banchiere di Dio: il credito come diritto umano
Strana genesi, quella della parola “lavoro”. La sua derivazione etimologica è alquanto incerta. Si sa, però, che il termine è stato coniato dai latini, probabilmente come processo sincopato di due vocaboli: Labi (scivolare, andare verso) e orare (pregare). La conclusione che possiamo trarre è che, probabilmente, si volesse intendere l’impegno di energie fisiche e intellettuali nell’esercizio di un’arte, un mestiere o una professione, alla stregua di una missione protesa a dare un senso concreto e positivo all’esistenza di ciascuno, con il rispetto e la dignità che si deve alle attività di meditazione contemplativa. In effetti, ciascun essere vivente si applica in qualcosa per appagare delle necessità e per migliorare, nel contempo, l’esercizio di determinate funzioni. E questo lo chiama lavoro, da che mondo è mondo. In “questo” mondo, invece, il lavoro viene, per lo più, inteso come sfruttamento teso a produrre reddito in nome di un effimero consumo di beni e risorse non rinnovabili. Una opportunità di riscatto viene offerta, al mondo, dalle potenzialità di crescita dei paesi emergenti, a condizione che, tanti esseri umani in cerca di realizzazione, vengano orientati e accompagnati nella direzione di uno sviluppo sostenibile, consapevole, utile e flessibile. Le lobby di quelli che contano, ha riconosciuto il sessantaseienne Muhammad Yunus meritevole del premio Nobel per la pace, nel 2006, in virtù del suo impegno come inventore della prima e unica banca, al mondo, finalizzata al microcredito. “Un giorno capii che l’America era grande perché si basava sulla possibilità di scegliere fra una gamma infinita di beni e servizi. Tutte cose che, nel mio Bangladesh, non potevano essere nemmeno immaginate dalla stragrande maggioranza della popolazione, per via dell’impossibilità di accesso al credito, elemento fondamentale di un qualsiasi pilastro imprenditoriale, unico volano economico in assenza di realtà e cultura industriale”. All’età di 34 anni, dopo l’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan, Yunus torna a casa con l’american dream in testa e una cospicua disponibilità economica (essendo figlio di un mercante di pietre preziose) in tasca. Fonda, così, la Grameen Bank (Banca dei villaggi), l’equivalente di una cassa rurale. In concreto, una struttura di microcredito che, con prestiti a tasso infinitesimale, aiuta da sempre gli indigenti ad affrancarsi dall’usura diventando microimprenditori. Dati alla mano, oltre sei milioni di clienti hanno ricevuto più di cinque miliardi di dollari attraverso 2185 filiali distribuite in 69140 villaggi, con una ricaduta positiva (in termini di investimenti) a livello planetario. Personaggi come lui, sono distanti anni luce, in termini di mentalità operativa, dai tanti mestieranti adusi al sostegno non finalizzato, capace solo di realizzare “cattedrali nel deserto”. Il suo autentico merito, è stato quello di operare in controtendenza rispetto alla filosofia dell’accesso al credito che vede premiati solo coloro che dispongono di garanzie tali da far dubitare della reale necessità di ricorso al finanziamento medesimo. Al contrario, questo “banchiere di Dio”, ha dato fiducia alle capacità di sviluppo dei più poveri che, a suo dire, rappresentano i clienti più affidabili in quanto consapevoli del fatto che l’opportunità concessagli, rappresenta l’occasione della vita. “Tutta la forza di Grameen, deriva dalla sua quasi totale capacità di recupero, in assenza di crediti in sofferenza”. Questo, finalmente, consente di profilare un nuovo modo di intendere la gestione delle cose del (terzo) mondo, al riparo da tentazioni assistenzialistiche e caritative, comprese le moratorie sul credito.
“Solo diventando consapevoli del nostro ruolo nella vita, per quanto piccolo, saremo felici. Allora potremo vivere e morire in pace perché solo questo dà senso alla vita e alla morte” (A. Saint – Exupèry).
Buon lavoro, signor Tod’s
Oggi un vero imprenditore deve anche assolvere a un compito di solidarietà verso il prossimo. Questo è un principio che dobbiamo cominciare a diffondere”. In una Società dove orientare l’obiettivo della telecamera interiore verso il centro della propria coscienza costituisce un esercizio di rara maturità, Diego della Valle (padrone del marchio di lusso “Tod’s”) dimostra di poter porre, sul tavolo del dinamismo costruttivo, un ottimo biglietto da visita. Aver lottato contro i Romiti (Cesare e figlio) per salvare il Corriere della Sera dalla “Famiglia Adams”, l’esser riuscito ad entrare in Mediobanca (salotto buono della finanza italiana), l’aver voluto duellare (nel 2004) con Adriano Galliani (“longa mano” di Berlusconi) per provare a liberare la Lega Calcio dai prepotenti, ha creato, dietro e davanti questo nuovo modello di uomo di potere, un alone da Robin Hood. Innegabilmente innamorato della sua compagine lavorativa, cui dedica il 95% del tempo e delle energie è riuscito a porre le basi per uno sviluppo formativo di nuove generazioni di giovani lanciati alla ricerca di nuove opportunità da valorizzare più che da sfruttare. Anche se, questo gli è costato un dazio sotto forma di attacchi e coinvolgimenti (veri o presunti) all’interno degli scandali del calcio italiano del 2006, è innegabile che, in un panorama di aziende in decozione, l’essere a capo di un gruppo privo di debiti che, addirittura, si autofinanzia senza ricorrere a truffe e artifici vari e, soprattutto, con la volontà di partecipare ad un vero Made in Italy, è sinonimo di lungimiranza e disponibilità a creare reddito, piuttosto che a bruciare risorse. Magari non da solo, ma in compagnia di personaggi del calibro di Luca Cordero di Montezemolo il quale, da tempo, ha puntato avere, nei vari posti chiave delle aziende che dirige (FIAT e FERRARI, tra le altre) dei “car guys” (che amano il prodotto che creano), eliminando i tanti “bean counters” (che si limitano a far tornare i conti, senza passione alcuna per il proprio lavoro), continua a dichiarare “Promuovere nella cultura dell’Italia concetti come rischio, innovazione spirito imprenditoriale. Ecco, Questa è la politica che mi piace, e la sola che continuerò a fare”.Meglio il Jazz, o il quartetto d’archi?
“Tanti bei proclami ma, in pratica, lunedì mattina, cosa debbo fare ?” Ovvero, cosa deve inventare chi vuole rischiare in proprio capitali, salute e reputazione (imprenditori, operatori del sociale, liberi professionisti, lavoratori in genere) per mantenere competitivo il risultato del proprio lavoro? Nel XXI° secolo, l’era dell’altissima velocità (e degli incidenti mortali!), ogni attività con più di tre persone (dalla scuola materna alla media impresa) dovrà sempre più essere “event driven”(guidata dagli eventi), in grado, cioè, di sapersi adattare e costituire un sistema “sense and respond”, capace di percepire in tempo reale gli elementi strutturali e dinamici che caratterizzano il proprio business (l’insieme delle attività remunerative in termini di gratificazione e profitti) e regolarsi costantemente per il meglio. Tutto ciò è possibile solo a condizione che i flussi di informazione (corretti e non manipolati) interessino in egual misura i vari componenti del team ed i processi operativi. Una sorta di Network intra ed extra aziendale. Secondo Vivek Renadivè (Ingegnere con Master ad Harvard, ideatore della TIBCO ed autore del libro The Power of Now Ed. Olivares – 2000), le informazioni non sono più una risorsa passiva ma un catalizzatore in grado di innescare ed accelerare reazioni efficaci in tutta l’organizzazione. Se, per esempio, in un cantiere edile, si apporta un minimo cambiamento al progetto originale, questo viene trasmesso a tutti coloro i quali debbono venirne a conoscenza. Seun architetto sposta una parete, i progettisti degli impianti elettrici mettono immediatamente mano al lay-out (schema globale) del circuito, gli addetti agli acquisiti vengono invitati ad ordinare altro materiale, etc. Power of Now: il potere di un’organizzazione che opera sul qui ed ora, molto lontano da quella deresponsabilizzazione da scaricabarile tipico di molti ambiti lavorativi contemporanei, diretta conseguenza, spesso, della gestione di leader inefficienti o mobbizzanti. Siamo ad un crocevia in cui quell’impiego razionale dei beni e dei mezzi a disposizione per soddisfare i vari bisogni evitando sprechi, che si chiama Economia, richiede l’attivazione di collaboratori “star”, chiamati ad intervenire nella “gestione per eccezioni”, per problemi che nessun sistema automatizzato sarebbe in grado di affrontare. Non è più tempo di crogiolarsi nel comfort della routine e delle pratiche consolidate né di avventurarsi in organici rigidamente piramidali: la new economy, così come il Titanic, è nata geneticamente difettosa e cresciuta (poco e male) con i postumi invalidanti di organigrammi demotivanti e consensi da yes men. Essere d’accordo su tutto, nasconde la voglia di non prendere decisioni. D’altro canto, opporsi irrazionalmente con polemiche sterili, evidenzia scarsa propensione a crescere in gruppo per eccesso di egocentrismo. Utilizzando una simbologia musicale, si può associare il modello tradizionale ad una banda di robot che suonano “marcette”. La reality economyrichiede, invece, un modello originale di orchestra jazz in cui ognuno porta avanti il suo progetto, con un direttore in grado di coordinare i vari soliti che si esprimono, mediante work songs (canti di lavoro), spirituals (inni religiosi) e blues (“richiami” di protesta sociale), nella creazione di melodie più o meno svincolate dai temi d’insieme, irripetibili fuori dall’istante della loro esecuzione. In futuro, comunque, la next economy, vedrà piattaforme operative delineate sul modello del Quartetto d’archi, capace di comunicare armonie attraverso l’ausilio di virtuosismi strumentali in grado di trasmettere sensazioni intersecanti le calde emozioni del passato con la vitalità spumeggiante della vita contemporanea. D’altronde, questo tipo di formazione musicale ( privilegiato dai compositori musicali, a partire dalla metà del settecento) rappresenta, di fatto, non un semplice aggregato di musicisti ma “un insieme omogeneo ed integrato che determina una conversazione tra quattro persone ragionevoli” ( Goethe) il cui obiettivo è quello di conciliare la dimensione sinfonica con quella solistica: la forza del gruppo, infatti, consiste nella capacità di riassumere i colori principali della tavolozza orchestrale mantenendo, ogni strumentista, l’indipendenza e l’autorevolezza di un solista (con il “direttore incorporato”). Arrivederci, dunque, all’Isola che non c’è, dove il recupero di antichi valori e la ricerca di una modernità “spinta” all’estremo, tenderanno a fondersi.
“Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Io ho davanti a me un sogno, che un giorno i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E’ questa la nostra speranza. Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza. Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, per difendere la libertà permettendole di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città… liberi, finalmente!” (M.L.King)“Sempre camminerò per queste spiagge, tra la sabbia e la schiuma dell’onda. L’alta marea cancellerà l’impronta e il vento svanirà la schiuma. Ma sempre spiaggia e mare rimarranno” (Kahlil Gibran).Giorgio Marchese
Direttore Responsabile “La Strad@” – Medico Psicoterapeuta – Vicedirettore e Docente di Psicologia Fisiologica, PNEI & Epigenetica c/o la Scuola di Formazione in Psicoterapia ad Indirizzo Dinamico SFPID (Roma/ Bologna) – Presidente NEVERLANDSCARL e NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS (a favore di un invecchiamento attivo e a sostegno dei caregiver per la Resilienza nel Dolore Sociale) – Responsabile Progetto SOS Alzheimer realizzato da NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS – Responsabile area psicosociale dell’Ambulatorio Popolare (a sostegno dei meno abbienti) nel Centro Storico di Cosenza – Componente “Rete Centro Storico” Cosenza – Giornalista Pubblicista – CTU Tribunale di Cosenza.
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