Scuola di Formazione in Psicoterapia ad Indirizzo Dinamico – SFPID
Direttore Sara Rosaria RussoTitolo originaleMENTALIZZAZIONE E PSICOPATOLOGIA.LA MENTE, LA RELAZIONE E IL PROCESSO DI CAMBIAMENTO IN PSICOTERAPIA
Allievi II anno 2012-2013, Biondo M.R., Burattini S., Monastra V., Pistolesi P., Testoni G.
Tutor, D’AmbrosioF., Psicologo, Psicoterapeuta Psicodinamico, Docente interno S.F.P.I.D.
Riassunto: A partire da alcune considerazioni relative all’inquadramento teorico e all’approfondimento del concetto di mentalizzazione, gli AA sottolineano come l’interesse è specificamente centrato all’interno della relazione terapeutica e le sue implicazioni nelle diverse configurazioni relazionali.
Vengono presentati i principi generali e metodologici degli interventi psicoterapeutici che promuovono la mentalizzazione, e il processo di cambiamento in cui terapeuta e paziente sono coinvolti, nonché le attuali applicazioni cliniche.
Parole chiave: mentalizzazione, personalità, relazione terapeutica, psicoterapia psicodinamica.
Abstract: From considerations relating to the theoretical framework and deepening of the concept of mentalization, the AA emphasize how the interest is specifically centered within the therapeutic relationship and its implications in different relational configurations.
In this work, we intend to introduce the general and principles methodological of psychotherapeutic interventions that promote mentalizing, and the process of change in which the therapist and patient are involved, as well as current clinical applications.
Key words: mentalization, personality, therapeutic relationship, psychodynamic psychotherapy.
“…Ogni realtà è prima di tutto un’immagine della psiche. Dare densità, solidità, peso, profondità alla fantasia è fare anima, affinché la materia si trasformi in profondità interiore.”
J. Hillmann
“E’ solo attraverso la conoscenza della mente dell’altro che il bambino sviluppa il pieno possesso della natura degli stati mentali.”
Hegel Introduzione alla realtà psichica attraverso la mentalizzazione o lo sviluppo della funzione riflessiva
Già da alcuni anni diversi autori hanno sottolineato l’importanza di taluni costrutti in grado di cogliere in modo sintetico, durante il processo terapeutico, le componenti sostanziali del concetto di mentalizzazione (presente già nel concetto freudiano di Bindung). Con il termine mentalizzazione, Amadei (2006) indica l’insieme di processi mentali che permettono all’individuo di elaborare una riflessione sui significati del proprio comportamento e quello degli altri e che rende possibile accedere alla comprensione di ciò che accade nelle relazioni interpersonali in relazione a pensieri, affetti, desideri, bisogni e aspettative. Quindi di rappresentarsi il proprio e altrui comportamento in termini di stati mentali intenzionali (Fonagy et al., 1991, 1996).
Tale importanza di estendere la percezione dei propri processi mentali ai costrutti emotivi e motivazionali viene sostenuta da Fonagy e Target (2001), che propongo il concetto di “funzione riflessiva”, inteso come capacità di concepire il comportamento come prodotto di stati mentali che possono essere costituiti da desideri, emozioni, credenze, fantasie. Un’espressione dunque che racchiude in sé tutti i processi psichici mediante i quali una persona interpreta in modo esplicito o implicito i comportamenti come manifestazioni di stati mentali (Frith, & Frith, 2003; Bateman, Fonagy, 2004).
Nell’ambito della psicologia dinamica, secondo Allen e Fonagy (2006) la mentalizzazione (interpretato come significato attivo e dinamico) è quel processo che porta alla consapevolezza che l’esperienza che abbiamo del mondo è mediata dalla nostra mente. Di conseguenza, organizzare tale esperienza attraverso la mente porta a costruire un senso solido del Sé, o identità (v. a questo proposito, gli studi di Russo, 2000), o agency.
Partendo da questo tipo di considerazione è facile capire come strettamente connessa alla mentalizzazione è la capacità di saper attivare la funzione riflessiva (capacità di riflettere sulla mente) (Fonagy, Target, 2001; Allen, Fonagy, 2006), anzi mentalizzare significare usare la funzione riflessiva su di Sé e sugli altri. Essa comporta quindi una componente sia autoriflessiva (relativa alle rappresentazioni del Sé) che interpersonale (legata alla rappresentazione degli altri). Ciò permette complessivamente a distinguere tra realtà interna ed esterna.
Inoltre, la capacità riflessiva favorisce la rappresentazione psicologica e la simbolizzazione del proprio stato interiore ed è quindi determinante per lo sviluppo di una regolazione ed espressione affettiva efficace, per il controllo degli impulsi sessuali e aggressivi, l’automonitoraggio (il riflettere sul proprio comportamento) e l’esperienza di self-agency (il riconoscersi come protagonista delle proprie azioni) (Fonagy, 1999, Fonagy et al., 2005, Baldoni 2005b). Tali capacità sono utilizzate nella gestione dei conflitti a vantaggio delle relazioni (ad es. la cooperazione) e nelle situazioni di pericolo. Questo protegge dalla sofferenza mentale e permette di sviluppare una capacità di condivisione e di comprensione emotiva che è alla base dell’alleanza terapeutica.
D’altra parte, quando il processo di mentalizzazione fallisce, la psicoterapia può aiutare a raggiungere una condizione di “affettività mentalizzata” (intesa come comprensione dei significati soggettivi dei propri stati affettivi). Il soggetto, in questo modo, riesce gradualmente a sviluppare una capacità matura di regolazione affettiva e capacità di scoprire i significati soggettivi dei sentimenti.
La capacità di mentalizzare e le configurazioni relazionali: la concezione della mente relazionale
Come abbiamo visto, la capacità di mentalizzare non è intrinseca all’individuo, in quanto essere-in-relazione ma viene piuttosto acquisita nel corso dei primi anni di vita e richiede la capacità di percepire cosa avviene nella mente dell’altro e di rispondere di conseguenza. E’ una chiave fondamentale dell’organizzazione del Sé e della regolazione affettiva (tra bambino e caregiver), e viene acquisita nelle prime relazioni di attaccamento. In questo paragrafo si vuole evidenziare come la relazione e, in particolar modo, quella primaria svolga una serie di compiti evolutivi fondamentali per la crescita psichica del bambino, tra cui l’importante processo della mentalizzazione.
Le prime relazioni oggettuali (Greenberg, Mitchell, 1986) dovrebbero permettere al bambino molto piccolo la comprensione degli stati mentali propri e altrui, per generare così la mentalizzazione. Infatti, i genitori o coloro che si prendono cura del bambino che sono in grado di mentalizzare si sintonizzano con la sua condizione mentale soggettiva, e il bambino alla fine ritrova se stesso nella mente dei genitori (Gabbard, 2005), in termini di stati mentali, e riconosce che questi stati sono rappresentazioni, e internalizzate che consentendo di formare un nucleo psicologico Sé.
Diversi autori concordano nel considerare la rappresentazione mentale un precipitato all’interno della mente delle relazioni che si sono avute con le persone importanti della propria vita (Sandler, Rosenblatt, 1962). Queste relazioni lasciano tracce profonde che vengono internalizzate e che quindi modellano e informano gli orientamenti, le percezioni e i ricordi successivi.
In questo scenario, è abbastanza facile considerare il richiamo di Bowlby (1969; 1973; 1980) all’importanza dell’interazione madre-bambino che ha fornito un importante cornice teorica al fine di studiare la soggettività attraverso l’elaborazione degli aspetti interni dell’esperienza. Egli propone il concetto di Modelli Operativi Interni (MOI) che costituisce una rappresentazione mentale dinamica, una costruzione attiva che, una volta organizzata opera al di fuori della coscienza.
Secondo Fonagy (1998), l’attaccamento è coinvolto nello sviluppo della funzione riflessiva perché il bambino non deriva il concetto di affetto attraverso l’introspezione, ma è l’espressione emozionale del caregiver, congruente con lo stato del bambino, che viene interiorizzata e ne diviene la “rappresentazione”. La combinazione della rappresentazione dell’esperienza di sé e della rappresentazione della reazione del caregiver articola il modello della mente che il bambino ha e, da ultimo, gli consente di comprendere le manifestazioni affettive negli altri oltre che regolare e controllare le proprie emozioni. In questo modo, l’attaccamento sicuro e la funzione riflessiva sono costrutti sovrapposti, e la vulnerabilità associata all’attaccamento insicuro consta primariamente nella diffidenza del bambino nel concepire il mondo in termini psichici invece che di realtà fisica.
In altre parole, l’affettività mentalizzata che, come abbiamo visto, deriva dalle prime esperienze di relazione assume la funzione di regolazione del sé e riflette la capacità di attribuire significato soggettivo ai sentimenti propri e altrui (Fonagy, Target, 2005). Possiamo a questo punto dire che quanto più si è stati compresi dal caregiver nei propri vissuti, tanto più si ha la possibilità di sviluppare un’adeguata funzione riflessiva (Bateman, Fonagy, 2010).
Tutto ciò si basa sulla concezione della mente come “relazionale” nel senso che la psicopatologia, così come il funzionamento normale, è spiegata come il risultato di una costruzione, dalle esperienze affettive rilevanti vissute nelle relazioni dell’infanzia, di “modelli operativi interni” (MOI di Bowlby, 1969; 1973; 1980) che agiscono a livello inconscio, come sistemi motivazionali (Lichtenberg, Lachmann, Fossage, 2000), orientando i comportamenti della persona adulta secondo aspettative, motivazioni, reazioni comportamentali, ecc., derivate appunto dalle relazioni interpersonali del passato.
A tale proposito, gli studiosi della “Teoria della Mente” (Leslie, 1987; Baron-Cohen, 1991) attestano l’inizio della capacità di mentalizzazione dopo il secondo anno di età per giungere compiutamente a maturare intorno al quarto anno. C’è da dire che la capacità di tenere a mente la mente (Fonagy, 1991), propria e altrui, può subire danni irreparabili sulla base di una relazione di attaccamento traumatica e disfunzionale tra caregiver e neonato.
Risulta chiaro quanto le prime esperienze che coinvolgono il bambino nella relazione con la madre, influenzeranno in seguito l’immagine che il bambino avrà di sé e quindi la sua sfera cognitiva, affettiva e relazionale. Sono, infatti, le prime esperienze che il bambino vive come quelle di accoglienza, di comprensione, ascolto, rispecchiamento, contenimento, sostegno e guida che andranno a costituire in lui quella “base sicura” (Bowlby, 1989), per aprirsi al mondo in maniera certa e adeguata, in caso contrario, in mancanza di tutte le qualità positive della relazione madre-bambino, s’instaurerà un’assenza di “base sicura”, che porta di conseguenza a una fragilità del sé.
Dal canto suo, Fonagy et al. (2005), ipotizza come il ruolo evolutivo della relazioni di attaccamento va molto al di là del dare protezione fisica al “cucciolo” dell’uomo. In pratica, incontrando il comportamento di accudimento della madre di fronte all’espressione di un proprio stato interno, il neonato è in grado di interiorizzare l’espressione empatica della madre, sviluppando una rappresentazione secondaria del proprio stato emozionale.
Secondo alcuni autori, per creare una realtà psichica pienamente mentalizzante, il bambino ha bisogno di sperimentare ripetutamente i suoi comuni pensieri e sentimenti rappresentati (pensati) nella mente dell’oggetto (caregiver) e la cornice rappresentata dalla normale prospettiva orientata alla realtà di un adulto. La figura di accudimento dà prova di una funzione riflessiva attraverso la capacità di dare significato alle esperienze del bambino e di anticipare il suo comportamento. Questo meccanismo permette alle persone di sentire l’empatia per l’altro, di interagire con successo e di sviluppare il senso dell’agire e della continuità. Per dirla con le parole di Russo (2000) l’empatia è “il traghetto energetico delle emozioni (unità emozionali) della comunicazione durante la dinamica analista/analizzato” (p.176).
Un caregiver che mentalizzi è in grado allora di creare una connessione tra due messe a fuoco che si alternano tra loro, una mirata alla realtà fisica e l’altra allo stato interno, per un tempo sufficientemente lungo perché il bambino possa identificare la contingenza tra le due.
In sostanza, è attraverso la relazione che la mente è capace di creare altre menti e di essere allo stesso tempo da loro creata (Siegel, 1999) e di influenzare/modificare sia le strutture cerebrali (Kandel, 2007) che le reti neuropeptidiche (Pert, 2000) presenti nell’uomo (inteso come cervello e corpo). In tal senso, spesso la crisi si riferisce a problematiche che riguardano le diverse configurazioni relazionali, e quindi ai diversi fallimenti collusivi che si generano da modalità rigide di percepire e sentire se stesso, ma anche l’altro.
Come abbiamo evidenziato fin qui, la relazione è alla base dell’essere vivente, e spesso si sottovaluta il loro ruolo cruciale, rappresenta il perno per l’uomo sia della sua crescita sia del suo sviluppo e in particolar modo del suo adattamento. La relazione con un altro essere è dunque la base per la costruzione del nostro mentale, quale processo dinamico che emerge dalle attività del cervello (Siegel, 1999); il riconoscere e il riconoscersi, l’accettare e l’accettarsi e di tutte le altre e diverse qualità energetiche della nostra psiche, tutte si innescano attraverso un’interazione con l’altro.
La mentalizzazione nella relazione terapeutica: quel campo di forze che intercorrono tra terapeuta vs paziente
E’ interessante osservare come, in realtà, la mentalizzazione è un modo ulteriore di sondare gli aspetti dell’interazione umana attraverso la focalizzazione sugli stati mentali, sulle credenze, sulle interpretazioni riflessive che attivano la comunicazione umana.
In particolare, l’importanza per lo sviluppo della persona umana di imparare a pensare gli affetti e le emozioni, da una parte, e a provare a sentire i pensieri, da qui vi è una stretta relazione tra empatia e mentalizzazione. Tuttavia, si potrebbe dire che l’una anticipa l’altra e che senza mentalizzazione non si può accedere agli stati empatici della comunicazione e della dimensione intersoggettiva (Russo, D’Ambrosio, 2009): l’essere umano è impegnato nella propria globalità (Russo, 1994, 2000), attraverso la mente, il proprio corpo, gli affetti, le emozioni, i sentimenti e la coscienza a divenire persona umana attraverso e con lo scambio e il legame con l’altro. In questo senso, i diversi autori confermano che l’empatia deve essere messa in gioco come elemento di curiosità che fornisce la base per mentalizzare. In questo ambito assumono rilievo particolare:
- le azioni acquisiscono senso e diventano prevedibili,
- promuovere e sostenere l’attaccamento sicuro,
- permettere di distinguere tra apparenza e realtà,
- facilitare la comunicazione, in quanto permette di tenere il punto di vista dell’altro,
- mediare lo stabilirsi di legami tra mondi esterni e interni. Gli altri sono considerati come essere e non cose concrete.
La relazione tra terapeuta e paziente è influenzata significativamente dalle fantasie, dalle aspettative, dalle risposte emotive, dalle paure e dagli atteggiamenti difensivi di entrambi. Nella stanza d’analisi c’è la strutturazione continua di un campo di forze, che si esprimono attraverso le narrazioni (Ferro, 1996). Dove il punto di partenza è la percezione distinta dei propri stati che si riflette nel terapeuta nell’ascolto attento e fluttuante e nel paziente in ciò che sta raccontando.
Da un punto di vista pratico, solo attraverso gli strumenti tecnici clinici (empatia, chiarificazioni, interpretazione, non porre forme di giudizio e di discriminazione) è possibile incrementare nel paziente i processi di mentalizzazione. Secondo Ferro (2007) bisogna potenziare l’apparato del pensiero, per poter raggiungere ad avere una diversa consapevolezza dei propri stati mentali che sostengono l’ agire.
Va in ogni modo ricordato chelo scopo per un lavoro terapeutico è quello di riconoscere un fallimento della mentalizzazione e incrementare i processi riflessivi nel paziente, che divengono i nuclei centrali del trattamento, al fine di stimolare un progressivo recupero di tale capacità, intervenendo in modo deciso di fronte ad un collasso della mentalizzazione. Infatti, in questo caso, la psicoterapia dovrebbe comportare il miglioramento della mentalizzazione, poiché il paziente dovrebbe essere capace di distinguere tra la rappresentazione interna di una persona e ciò che questa è nella realtà esterna e avere un senso del mondo interno degli altri e riconoscerlo come diverso dal proprio. In altri termini, è importante valutare la capacità del paziente di comprendere che il proprio comportamento deriva da una serie di credenze, sentimenti e punti di vista che non coincidono necessariamente con quelli degli altri.
Per quanto riguarda il fallimento ci sono tre modalità tipiche che il terapeuta deve essere in grado di individuare e affrontare. Per poter illustrare meglio le caratteristiche cliniche precipue del fallimento riteniamo utile riportare nella Tabella 1 le modalità tipiche da individuare in psicoterapia.
Tabella 1 – Modalità tipiche del fallimento della mentalizzazione.
- Comprensione concreta: caratterizzata dall’isomorfismo di mondo esterno e mondo interno, in modo tale che ciò che esiste nella mente deve esistere anche nel mondo esterno e viceversa. Un paziente che usa questa modalità ha difficoltà a riconoscere le emozioni e non è in grado di stabilire connessioni tra pensieri e sentimenti da un lato e azione dall’altro.
- Pseudomentalizzazione:, gli stati mentali non hanno alcuna connessione con la realtà esterna o fisica (“modalità del far finta”), in modo tale che ogni stato interno è percepito come separato dal mondo. Il paziente è come se fosse sganciato dalla realtà, in un mondo immaginario.
- Atteggiamento teleologico: il paziente non è in grado di interpretare situazioni interpersonali complesse in termini di stati mentali intenzionali, se non in funzione di un’evidenza fisica e concreta. In questa modalità un affetto può diventare reale soltanto quando si accompagna a un’esperienza fisica, solo perché una modificazione della realtà fisica è sentita capace di avere un impatto sugli stati mentali propri e altrui.
In tal senso, la relazione terapeutica offre una nuova e peculiare occasione per modificare attivamente, grazie allo sforzo congiunto di paziente e terapeuta, le modalità relazionali acquisite che risultano disfunzionali.
Come segnalato da Bateman (2007), è interessante ricordare che il deficit riscontrabile nella funzione riflessiva dei pazienti è da addebitare al fatto che sono stati immersi in relazioni che scoraggiavano un discorso continuativo e coerente sulle emozioni e sugli stati mentali delle persone.
Si può osservare chela psicoterapia si configura quindi come un intervento clinico che si sviluppa in un campo di forze e il cui obiettivo è di promuovere la capacità del paziente a riconoscere e modulare i diversi stati del proprio sentire per riuscire a esprimere le proprie emozioni in modo sempre più funzionale, intervento in cui quindi è necessario mantenere una costante attenzione alla modalità in cui si sviluppa la relazione nel “qui ed ora”, cioè in cui si esprime il transfert ed il controtransfert.
Compito del terapeuta sarà quindi mantenere la concentrazione sulla mente del paziente senza concentrarsi troppo sul comportamento, portando così il potenziamento della capacità di mentalizzare attraverso interventi terapeutici specifici elencati nella tabella che segue.
Tabella 2. Elenco degli interventi terapeutici specifici.
- Rassicurazione, supporto ed empatia
- Chiarificazione, elaborazione e challenge
- Mentalizzazione di base
- Mentalizzazione interpretativa
- Mentalizzazione del transfert
Mentalizzazione come possibile approccio terapeutico nelle psicopatie
La mentalizzazione è un processo che racchiude le numerose attività psichiche tramite le quali gli individui, non solo interpretano i propri stati mentali ma decodificano anche i pensieri che sottendono al comportamento altrui. Come abbiamo visto in precedenza, è un meccanismo che si apprende sin dalla nascita, osservando e ricevendo dai caregivers le basi necessarie per poter associare lo stato mentale provato, ai nostri bisogni interni. I bambini infatti imparano a mentalizzare, associando il comportamento della madre a possibili stati mentali e “immaginando” o inferendo la corrispondenza (Bowlby, 1969, 1989).
In ambito clinico, al concetto di mentalizzazione associamo inoltre non solo la capacità di comprendere gli stati mentali ma anche l’abilità nell’immedesimarsi nel pensiero degli altri, arrivando a sperimentare il comportamento affettivo empatico. In realtà, ciò che consideriamo l’aspetto più logico e razionale della capacità di mentalizzare, è in realtà un lavorare su aspetti emotivi, il ché comporta la capacità di distinguere ciò che appartiene a sé da ciò che appartiene all’esterno e che non segue le logiche del proprio funzionamento mentale. È l’opposto del pensiero che segue la “modalità dell’equivalenza psichica”, in cui il mondo interno e il mondo esterno corrispondono, rispetto alla “modalità del far finta”, dove si ha il collasso della differenziazione tra esterno e interno, e che si manifesta spesso nelle modalità di ragionamento dei pazienti borderline di personalità. Quando entra in azione la mentalizzazione si avvia una sensazioneimplicita che il mondo “non sia necessariamente come noi percepiamo che sia” e, non di rado, questa distinzione è il fulcro su cui lavorare attivamente (Allen, Fonagy, Bateman, 2010). Si può dire che la mentalizzazione attiva un meccanismo che induce a rivalutare continuamente la propria esperienza.
Si può quindi dedurre che la capacità di mentalizzare sia essenziale per una vita in sintonia con sé stessi e il mondo, tuttavia talvolta può risultare necessario dover ridurre i livelli di mentalizzazione per poter mantenere un livello di benessere: rischiare di intuire i contenuti della mente altrui che sono immotivatamente dannosi, può alterare i rapporti sociali e la serenità del relazionarsi all’altro. Differente invece è la condizione di quegli individui che fanno un cattivo uso di alcune “componenti” di questa abilità: possiamo avere soggetti che spogliano della valenza affettiva gli stati mentali per manipolare e sfruttare questa conoscenza come mezzo per danneggiare l’altro; oppure in presenza di un attaccamento insicuro, potremo avere individui estremamente attenti e ipervigili, per quanto concerne gli stati mentali dei partner relazionali, ma che falliscono nella comprensione dei propri. Quest’ultimo caso si è rivelato estremamente frequente nei pazienti traumatizzati o abusati (Allen, Fonagy, 2008), mentre in riferimento al primo vedremo il caso dei soggetti antisociali e la psicopatia.
Per questo motivo sembra essere un buon obiettivo da mantenere nella relazione terapeutica, non solo nella pratica clinica generica ma soprattutto con alcune tipologie di pazienti, con i quali può rivelarsi uno dei grandi punti di forza di una trattamento efficace. Punto di contatto secondo Allen, Fonagy e Bateman (2010) di tutte le terapie e dell’impatto che una terapia può avere sul soggetto, scaturisce proprio dalla capacità di mentalizzare del terapeuta e del paziente, che scambiano pensieri e immagini. Quindi, per lavorare con la mentalizzazione nella pratica clinica risulta necessario
- fornire una base sicura al paziente, fondamentale per permettergli la fiducia necessaria per lavorare sugli aspetti emotivi e comprendere ciò che sente;
- mantenere un’ attenzione condivisa sul vissuto del paziente e l’esperienza soggettiva, rafforzando anche il senso di sé del paziente;
- associare una terapia di gruppo poiché stimola il processo interattivo, coinvolgendo l’individuo in una relazione carica simultaneamente di diverse soggettività, alle quali deve imparare a rapportarsi, tenendo conto dei molteplici punti di vista.
- lavorare sul transfert, non riportandolo ad un lavoro sul passato ma nel “qui ed ora”, lavorando sul rapporto attuale senza ricercare che cosa viene rimesso in gioco: l’obiettivo è in parte abituare il paziente a spostare l’attenzione su un’altra mente, in questo caso quella del terapeuta suscitando curiosità sul perché di una specifica versione/interpretazione della situazione.
Fonagy e Allen (2006) consigliano nel promuovere la mentalizzazioni nelle relazioni di attaccamento, un lavoro sugli aspetti preconsci e consci della funzione mentale, all’interno del dominio inteprersonale. Quindi, si cerca di evitare nella pratica di dare spazio alla fantasia, fantasticare infatti riporta all’equivalenza psichica e al distacco dalla realtà oggettivabile. Corretto è secondo gli Autori invece mettersi in discussione davanti al paziente dando ad entrambi la possibilità di lavorare sulle possibili attribuzioni di stati mentali ed emotivi.
Talvolta il soggetto potrebbe invece essere troppo centrato su di sé, arrivando al rimuginio e all’irrigidimento, in questo caso si dovrà spostare l’attenzione sull’altro, viceversa talvolta soggetti abituati sempre ad analizzare il pensiero e le reazioni degli altri devono essere riportati alla percezione del proprio stato d’animo.
Parlando dell’intervento con la mentalizzazione viene proposto un vero decalogo delle cose da non fare e persino di parole da non utilizzare. A tale proposito, Allen, Fonagy, Bateman (2010) fanno ben notare come, usare le “j-word” (just=solo) quali ovviamente, chiaramente, solo, realmente, allontana il processo di mentalizzazione poiché negli stati mentali non si può definire un realmente in quanto siamo nella sfera del soggettivo e, inoltre, utilizzarle inibirebbe il paziente nel processo esplorativo degli stati mentali possibili, minimizzando tutto con un solo.
Secondo gli studi di Blair et al. (1999), gli psicopatici, sono infatti mancanti da un punto di vista genetico e organico di alcuni sostrati neurobiologici necessari alla mentalizzazione: sembrano essere sotto-reattivi agli stimoli emotivi riportando una riduzione del volume dell’amigdala e della sua attività. Pertanto, sono individui capaci di leggere la mente, ma che non ne colgono la coloritura affettiva, ovvero non producono alcuna risposta emotiva. Si pensa che questa incapacità nel risuonare agli stati emotivi altrui possa abbassare l’inibizione al comportamento aggressivo.
Ricerche recenti dimostrano che la mancanza di risposta affettiva agli stati mentali altrui potrebbe essere legata all’incremento dell’aggressione interpersonale. I più recenti autori sulla psicopatia sottolineano come deficit nell’attaccamento potrebbero alterare proprio la capacità di mentalizzazione, per questo si è cercato di dimostrare il possibile ruolo della mentalizzazione come moderatrice nelle spinte aggressive di adolescenti con tratti associati alla psicopatia (Taubner et al., 2013).
Uno studio specifico (Dolan, Fullam, 2004) ha cercato di individuare le differenze effettive nella “Teoria della mente” di individui antisociali e psicopatici in opposizione a controlli, mostrando una lieve differenza nelle esecuzioni di un test specifico legato all’individuazione di figure imbarazzanti. Infatti gli individui riconoscevano e comprendevano le situazioni mostrando tuttavia una particolare indifferenza affettiva. Inoltre individui antisociali rispetto ai componenti psicopatici del gruppo mostravano una caduta nel riconoscimento delle emozioni di base.
Nei soggetti borderline secondo Fonagy et al. (2005) sono proprio il prodotto di una dinamica familiare che scoraggia la mentalizzazione o che dia messaggi incoerenti in materia di stati mentali. Sembra essere la costante, nell’eterogeneo gruppo di pazienti associati a una tale diagnosi, una assenza o distorta capacità di mentalizzare, a sua volta causata da genitori trascuranti o poco coinvolti. I genitori minano le autopercezioni degli stati interni, invalidandoli o banalizzandoli tramite disconferme dirette o minimizzando le emozioni espresse dal bambino: viene a crearsi una dissintonia nella diade madre bambino che sarà la base dell’indebolimento delle capacità sociocognitive di base. La causa è quindi un inadeguato mirroring (rispecchiamento) e il conseguente danneggiamento delle abilità di mentalizzazione.
Una serie di studi sottolinea che il fallimento della comprensione sociale e personale (dei propri stati) induce un aumento delle difficoltà e tensioni che producono difficoltà nella regolazione affettiva e nelle abilità di problem solving (tutto perde oggettività perché non l’hanno mai appresa in modo corretto). Infatti nei pazienti borderline abbiamo dei fallimenti regolari, identificabili nel processo di mentalizzare. Possono inglobare parte della rappresentazione del caregiver come parte di sé- sé alieno (Fonagy et al., 2005).
Alla luce di ciò, è molto importante evidenziare che l’obiettivo con il paziente borderline è quello di far raggiungere al paziente un maggior grado di chiarezza nella comprensione di come funziona il suo stesso modo di ripresentare la stato mentale, e quali sono i possibili errori che mette in atto nell’attribuzione degli stati mentali a chi lo circonda. Per iniziare questo tipo di trattamento gli autori mettono in chiaro quanto sia importante la definizione degli obiettivi, così che la dinamica della terapia sia compresa ed accettata dall’individuo.
Con i pazienti psicopatici dovremo invece focalizzare l’attenzione su quello che viene considerato un abuso di mentalizzazione, quando viene usata per il controllo del comportamento altrui, dove l’individuo usa la comprensione degli stati mentali dell’altro per indurlo a reagire nel modo che desidera o per ottenere un vantaggio secondario. Talvolta può adottare questo stesso comportamento per sedurre l’altro anticipandone i bisogni e le preoccupazioni, rassicurandolo per ottenerne fedeltà. Spesso però una tale abilità nel decodificare gli altri comporta un difetto nella capacità di leggere e rappresentare i propri stati mentali, che vengono messi in secondo piano, offuscati e confusi.
Infine, nella psicopatia possiamo osservare uno sfruttamento senza riserve delle relazioni interpersonali, che si basa proprio sull’abilità nell’usare a proprio vantaggio la conoscenza della mente degli altri. Altre volte sono capaci di indurre nell’altro sentimenti di colpa e vergogna che rendono l’interlocutore debole e influenzabile.
Applicazioni pratiche della mentalizzare e meccanismi di cambiamento in psicoterapia
Mentalizzare in psicoterapia definisce un processo di attenzione congiunto di cui gli stati mentali del paziente costituiscono il focus. Il terapeuta costruisce e ricostruisce continuamente una immagine del paziente nella sua mente per aiutarlo a comprendere ciò che prova.
Un aspetto fondamentale dell’azione terapeutica consiste nel percepire se stesso nella mente del terapeuta mentre contemporaneamente si sviluppa più distintamente la sensazione della sua separatezza soggettiva (McWilliams, 2011). Quindi si associa l’interpersonale con l’intrapsichico.
Per indurre il processo di cambiamento è necessario porre domande in modo attivo: mostrare disponibilità ad apprendere dal paziente utilizzando una modalità definita “del non sapere”. Anche la mentalizzazione interpretativa risulta molto utile ed indica la necessità di chiarire primariamente l’emozione e l’esperienza oggetto del lavoro terapeutico, per mettere in luce le distorsioni dovute ad un errore di mentalizzazione (Choi-Kain & Gunderson, 2008).
Successivamente il terapeuta dovrà spingere il paziente a invalidare le deduzioni precedenti per spianare la strada all’interpretazione di una nuova possibile spiegazione dell’evento. In questo caso, verrà proposta una visione alternativa dello stato mentale sotterraneo all’accaduto in questione. Il terapeuta deve dunque saper usare la sua conoscenza dei meccanismi di difesa per aiutare il paziente a ritornare a un’esperienza più piena della sua soggettività.
Tabella 3 – Interventi che influenzano la mentalizzazione (Allen, Fonagy, Bateman, 2010)
Favorisce la mentalizzazione | Mina la mentalizzazione |
Mantenere un atteggiamento autenticoFornire una base sicuraPromuovere un corretto coinvolgimento emozionaleIntraprendere un processo di rispecchiamento per ripresentare e marcare le emozioni del paziente Interventi semplici e direttiEsplorare i diversi punti di vista sulle esperienzeRiavvolgi ed esplora i nessi del passato che erano andati perdutiRiconoscere i propri errori e fallimenti in modo da permettere al paziente di correggere tali mentalizzazioni errateLavorare sul tranfert per mostrare come la mente dell’altro lavori sullo spazio interferendo con gli altri | Sforzarsi di essere acuti e brillantiFarsi coinvolgere in discorsi teorici e usare psicogergoDare etichette o preconcetti al paziente considerandole certezze perdendo i dettagli e la soggettivitàPermettere i silenzi prolungatiIncoraggiare le libere associazioni e fantasie sul terapeuta |
Riteniamo che un lavoro terapeutico focalizzato sulla mentalizzazione può risultare profondamente efficace, su individui con personalità che mostrino una disfunzionalità proprio in questa capacità, come ad esempio gli individui borderline, antisociali fino alla psicopatia. Bateman e Fonagy (2004) cercano di proporre un trattamento prevalentemente basato sulla mentalizzazione, proprio nei soggetti con disturbo borderline di personalità. Secondo le evidenze da noi riportate potrebbe quindi non solo essere utile nei pazienti con tale funzionamento ma anche in soggetti che presentano atteggiamenti propri della psicopatia. Si nota, inoltre, che Individui psicopatici sembrano essere capaci di mentalizzare a livello razionale (ecco la distinzione con l’empatia) ma usano le informazioni con fini aggressivi e manipolatori nei confronti degli altri: non si identificano con l’angoscia e l’aspetto penoso dell’emozione, ma si fermano all’aspetto logico e consequenziale.
Tabella 4 – Le fasi di attuazione del trattamento.
Fase iniziale | Questa fase è dedicata alla valutazione del livello che potremmo definire base, di mentalizzazione portato dal soggetto. Questa avverrà all’interno dello scenario relazionale,dove il terapeuta cercherà di indagare lo stato delle diverse dimensioni della mentalizzazione e il grado di funzionalità e pienezza delle relazioni interpersonali. Si indagheranno le relazioni attuali e pregresse portando sempre maggiore attenzione per le condizioni presenti: fondamentale per la mentalizzazione è il non lanciarsi in collegamenti con il passato che possono confondere e in parte offuscare il lavoro sugli stati mentali. Fondamentale sarà addentrarsi negli eventi di vita che possiamo definire frustranti per il paziente, così da capire lo stile attributivo e la comprensione che ha sul proprio funzionamento mentale, con particolare attenzione all’aspetto emotivo e alla sua accettazione. Ogni relazione viene valutata in base a quattro fattori: la forma della relazione; i processi interpersonali implicati; il cambiamento che il paziente cerca all’interno della relazione; gli specifici comportamenti che tali cambiamenti potrebbero comportare (Bateman, Fonagy , 2010). La mentalizzazione carente si mostra nelle eccessive generalizzazioni e nello spostamento della narrazione all’esterno del mentale attribuendo responsabilità e causalità a variabili esterne. Vi è spesso una fissazione sulle regole e una eccessiva sicurezza nelle attribuzioni sulla mente dell’altro. Sempre durante la fase iniziale è consigliabile affrontare con il paziente la diagnosi e affrontarla empaticamente appoggiandosi ad un approccio psicoeducativo. |
Fase intermedia | Seguono un percorso psicoterapeutico individuale e di gruppo centrate sui processi impliciti di mentalizzazione di controllo attentivo e affettivo; o trattamento ambulatoriale intensivo di 18 mesi con un percorso individuale di 50 minuti in aggiunta al lavoro di gruppo di 90 minuti entrambi con cadenza settimanale. in questa fase si usano tecniche specifiche mentalizzazione interpretativa e mentalizzazione del transfert. |
Fase conclusiva | La fase inizia al termine del primo anno, in cui si valuta se gli individui hanno appreso delle modalità costruttive di interazione. Si deve tuttavia tenere presente il cambiamento attraverso il miglioramento spontaneo della condotta per quanto riguarda gli aspetti autolesivi dei soggetti con disturbo borderline di personalità. Gli obiettivi principali di questa fase saranno quindi : consolidare la stabilità sociale; favorire la capacità di negoziare; aumentare il senso di responsabilità e focalizzarsi sugli stati affettivi connessi all’abbandono e alla perdita. |
Infine, si prevede un Follow up con incontri individuali di 30 minuti ogni 4-6 settimane. |
Recentemente alcuni ricercatori hanno mostrato l’importanza di un tale lavoro nell’intervento su soggetti con tratti associati alla psicopatia. L’approccio focalizzato sugli stati mentali degli altri, in associazione alla comprensione del comportamento ad esso associato sembra essere un fattore arginante l’espressione dell’aggressività (Gabbard, Menninger, 1989; Taubner et al., 2013).
Il compito del terapeuta, quindi, con alcuni pazienti, soprattutto a livello borderline, è di mettere in evidenza il carattere rappresentazionale del loro mondo interno e diminuirne l’equivalenza psichica (che il mondo interno corrisponda alla realtà esterna). Bibliografia
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