Essere ciò che siamo, diventare ciò che siamo capaci di diventare: questo è il solo fine della vita. (Robert Louis Stevenson).
Cari Lettori, la profonda riflessione con cui abbiamo iniziato la “passeggiata” di quest’oggi, campeggia sul muro di uno dei corridoi del Carcere di Rossano (in provincia di Cosenza): una apparente antitesi (considerando gli ospiti detenuti) che, però, diventa il faro per il recupero di una esistenza apparentemente “gettata alle ortiche”
Come sostiene il Filosofo, Psicoanalista e Saggista Umberto Galimberti, alla base di ogni dipendenza (droghe, alcol, fumo, ludopatia, etc.) c’è l’angoscia legata alla mancata risposta a una fatidica domanda:
La vita, offre un margine di senso sufficiente per giustificare tutta la fatica che si fa per procedere nel percorso esistenziale?
Infatti, se i giorni si succedono solo per distribuire insensatezza e dosi massicce di insignificanza, allora si va alla ricerca di qualche anestetico capace di renderci insensibili alla vita.
Questo, da sempre, è stato tristemente riconosciuto col termine di “Nichilismo”
Una della più caratteristiche pubblicità di un famoso profumo, destinato alle giovani e rampanti generazioni, ha una frase declinata in diverse sfaccettature emotive e ripetuta in maniera ossessiva: I AM!
IO SONO!
Ora, pur senza ricorrere all’aiuto di Padre Freud, possiamo arrivare a concludere che qualcosa di propugnato prepotentemente, nasconde una paura che si trasforma in richiesta implicita che, in questo caso, diventa: Aiutami a individuarmi, per potermi riconoscere attraverso il tuo assenso.
Il bisogno di essere riconosciuti
Il primo contatto col sorriso di chi ci chiama per nome e, attraverso il proprio sguardo, ci trasmette il piacere di averci tra le braccia, ce lo dona nostra madre mediante il meccanismo del “Rispecchiamento”, in grado di attivare le zone cerebrali dell’empatia e di creare le basi dell’autostima: Tu mi accetti e mi valorizzi per quello che sono. Dunque, io “sono”.
Lungo la strada che porta a vedere andar giù i fogli del calendario allo stesso modo di come cadono le foglie degli alberi, in autunno, accade di essere assaliti dai dubbi che sono il frutto di una crescita interiore non sufficientemente solida.
La felicità non dipende tanto dal piacere, dall’amore, dalla considerazione o dall’ammirazione altrui, quanto dalla piena accettazione di sé. (Umberto Galimberti)
I primi, preoccupanti, segnali di questi “scricchiolii” si manifestano in quella fase di passaggio che, da bambini ci proietta nel mondo degli adulti e che prende il nome di adolescenza.
In questo fondamentale arco di tempo (il cui range può arrivare a riguardare l’arco temporale compreso fra i 10 e i 26 anni di età) gli “errori” educativi vissuti nell’infanzia possono essere (almeno in parte) riparati ma, paradossalmente, non c’è esperto del settore che non si senta angosciato, oggi, dal non sapere trovare soluzioni credibili per quanto riguarda il rapporto genitori- figli e l’educazione dei giovani.
È sempre difficile, quando si è genitori, sapere in che modo comportarsi coi figli. Soprattutto perché ci si trova a fare i conti con i limiti e i condizionamenti della propria personalità.
Pensiamo, oltretutto, di essere la prima generazione ad essere toccata dal delicato problema e, invece, non è così. Ogni epoca ha dovuto affrontare il problema che, oltretutto, non essendo una equazione matematica, non è mai di definitiva soluzione.
Il grande commediografo Terenzio ha affrontato la questione nella sua opera “Adelphoe”(i fratelli), in cui mette in scena due metodi educativi: “Demea” è un padre severo e conservatore che, coi suoi modi rigidi, allontana il figlio; Micione (che non è padre biologico) educa il figlio all’insegna dell’amicizia e della comprensione ma, la troppa permissività, rischia di creare problemi.
Cari Lettori, siete curiosi di sapere per chi parteggia Terenzio?
Per nessuno dei due “tipi”.
Egli, infatti, con grande saggezza, è consapevole che non ci sono soluzioni drastiche. Bisogna avere fiuto nelle varie situazioni della vita e sapere, di volta in volta, trovare una via intermedia tra l’essere troppo tollerante e l’essere troppo autoritario.
La vera paternità risiede nella capacità di essere padre.
Oggi, muoversi nel campo è certamente più complesso perché viviamo e operiamo in una Società straordinariamente complessa.
In un ambito come quello odierno, in cui il distacco generazionale è molto netto, la risposta è semplice e, nello stesso tempo, difficile da realizzare: bisogna incontrarsi, bisogna attivare la capacità di incontrarsi.
Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, lavora da decenni coi ragazzi e, nel suo ultimo volume (“Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti”) offre elementi di riflessione sul delicato tema.
In questo campo, è bene precisarlo subito, la verità non è in un solo libro o in un solo autore. Ognuno porta un contributo che poi va verificato nella pratica.
Una espressione di questo studioso ci ha fortemente colpito:
I giovanissimi vogliono essere amati per quello che sono non dagli psicologi, ma dai loro genitori.
Sembra poco, ma è molto.
La morte del libanese
Ma’, apri, te devo parla’!
Per una volta sarai contenta di me, Mamma! T’ho dato tetta, me so’ rimesso a posto, davvero!
Stanno tutti sotto de me, ma’!
E la casa, ma’, la devi vedè: mo’ è una Reggia, degna de te, della regina de Roma!
Nun te dovrai più vergogna’ de me!
Ma’, apri sta cazzo de porta!
E tu che cazzo voi?
Cari Lettori, il monologo che abbiamo appena riportato in tutta la sua crudezza, appartiene a uno dei momenti clou della serie televisiva che ha romanzato la saga della banda della Magliana in “Romanzo criminale”: la morte del “Libanese”, l’ottavo re di Roma.
Ebbene, in questo frame di poco più di due minuti, non possiamo non provare tenerezza per questo “bambino” mai cresciuto, che ha portato nel cuore il dolore profondo di non essere stimato e “riconosciuto” dalla propria Madre.
Il problema, per quanto strano possa sembrare, è tutto qui e, ogni risposta comportamentale, dovrà sforzarsi di attivare la “relazione”.
Oggi per un Padre, così come per una Madre, la vera paura è quella di non sapere chi sia il proprio figlio.
Proprio per entrare ancor di più nel merito, segnaliamo che, la serie Netflix “Adolescence”, macina numeri da record. È la più seguita della piattaforma digitale. Dai dati di settore, si stima che, la settimana scorsa abbia avuto un’audience di 24 milioni di spettatori, per un totale di 93 milioni di ore passate dinanzi al video.
Un fenomeno che merita di essere attentamente analizzato in sedi più opportune.
La serie, ci dice chiaramente che i punti di riferimento sono finiti.
I ragazzi sono rimasti senza modelli. Resta la grande difficoltà per i giovani di discutere e capire davvero le loro emozioni. Abbiamo bisogno di parlare delle emozioni (anche le più disturbanti) e facciamo fatica a farlo. Sarebbe necessario un adulto di riferimento e molto spesso non c’è.
Si assiste sempre più spesso a gruppi di uomini (“Incel”) che si sentono inadeguati e trasformano la loro frustrazione in odio e violenza verso le donne. Il maschio uccide non perché si sente dominante, ma perché si sente brutto e rifiutato.
Matteo Lancini sostiene che “bisogna interrogarsi su una nuova fragilità che porta oggi ad un ritiro maschile senza precedenti. Dovremmo aiutare i ragazzi a trovare una mediazione tra questa visione del maschio alpha, comunque aggressivo, e quella dello sfigato, che lo diventa come per difendersi. O si ritira fino a sparire “.
E, a questo proposito, vorremmo condividere l’amara considerazione espressa da un altro componente della Banda della Magliana: “Il Freddo”
Monologo finale del “Freddo“
Le cose sono incominciate da queste parti. Dietro a quel palazzo, una notte, da ragazzini rubammo una macchina. Eravamo Libano, Dandy, io, il Grana e il povero Andreino che ci lasciò quella notte stessa. Era una notte come questa: minacciosa, piena di nuvole. Chi lo sa, forse quella morte doveva essere un segnale, per farci capre che dovevamo sta’ boni, che dovevamo stare al posto nostro per non fare la stessa fine. E invece, noi, abbiamo pensato che era meglio fare quella fine piuttosto che andare a timbrare un cartellino per tutta la vita.
Per tornare alle riflessioni di Galimberti, con un Futuro incapace di far intravedere una qualche promessa, il Presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità per provare a seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso, nel quale non è più possibile descrivere il proprio malessere per via di quell’analfabetismo emotivo che non consente di individuare e riconoscere i propri sentimenti.
Da qui, a Bullo o “Criminale”, il passo è breve
Eppure il termine Bullo, deriva dall’olandese Boel (che significa “fratello”) e, successivamente, trasformatosi in “Bully” (“tesoro”) che, in origine, connotava le buone qualità di un individuo.
Da ciò ricaviamo che, all’origine non aveva un’accezione negativa e che, da originario sinonimo di “bravo ragazzo”, ha finito con l’identificare il “molestatore di deboli”.
Infatti, secondo i dizionari della lingua italiana, il bullismo consiste in “attività svolta da chi, benchè giovane o giovanissimo, con estrema e disumana cattiveria si diverte a bersagliare solo vittime percepite come incapaci di difendersi adeguatamente, camuffando la propria essenziale vigliaccheria, in apparente forza e prepotenza”.
Sostanzialmente, quello che accade, è descritto in ciò che la psicoanalista Melanie Klein (ma non solo lei) chiamava “Identificazione proiettiva”, “Proiezione” e “spostamento”.
In pratica, dei meccanismi di difesa dell’Io (l‘interiorità, la propria identità) che, in maniera del tutto inconsapevole (e che, quindi, sfuggono al controllo cosciente), fanno vedere nell’altro, aspetti della propria personalità e spostano sulla “vittima”, elementi ritenuti inaccettabili del proprio modo di essere.
In questo caso, il bullo ritrova, nell’altro, aspetti di sé che odia profondamente e, quindi, con il sopruso e l’annichilimento altrui, è come se annullasse (e/o punisse) questi elementi caratteriali che non accetta. Di tutto questo, ne è inconsapevole
Seduti uno di fronte all’altro. In fondo sanno di essere dei “prigionieri” ma guardano dritto, con aria di sfida: le pupille incrociano i guantoni senza mostrare il più piccolo cedimento. Una goccia. È un attimo, un solo momento. Tanto basta per accorgersi, a chi sa e vuole osservare, che lo specchio d’acqua in cui riflettono il proprio passato, fa fatica a sbiadire l’immagine di una casa ancora in costruzione.
“Perché non hai paura?”
“Perché il coraggio lo mostri quando la tua casa senza ferro e cemento affronta la tempesta perfetta. Quella in cui capisci che, dopo, nulla sarà più come prima”.
In gruppo, il bullo cammina che sembra un uomo ma, a guardarlo bene… niente di più “che un grissino che si spezza al primo imbocco” (V. Andraous).
La Natura ci ha “plasmato” a propria immagine e somiglianza.
Questo vuol dire che siamo, innanzitutto e fondamentalmente, energia (meccanica, cinetica, termica, potenziale, nucleare, elettromagnetica. gravitazionale, etc.). Questa parola, che deriva dal “tardo” latino energîa e, a sua volta, dal greco energheia (usata da Aristotele nel senso di azione efficace), etimologicamente composta dagli elementi en – ergon, identifica la capacità di agire in maniera intensa. In pratica, “visualizza” flussi di microparticelle elementari (elettroni, quark, etc.) che, viaggiando ad altissima velocità “compiono” un lavoro spostando una forza.
Ognuno, quindi si ritrova a gestire un serbatoio potenzialmente immenso di “carburante” che dà, al sistema nervoso, la possibilità di generare impulsi che porteranno a manifestazioni comportamentali che possono orientarsi in maniera costruttiva o distruttiva.
Da bambini incidiamo un disco che da adulti continuiamo a sentire. Ma sapevamo incidere dischi, da bambini? (Gabriel Mandel).
Siccome noi siamo il risultato delle dinamiche energetiche conseguenti alle esperienze che condizionano la lettura del database della nostra memoria (grazie alla quale è possibile assemblare idee e concetti), uno sviluppo equilibrato della personalità (inteso come passaggio da “momenti transitori” a “fasi mature”) garantisce approdi verso lidi di autorealizzazione (grazie ad autostima e autoaffermazione) pur partendo da zone d’ombra come quelle minimaliste (identificazione, competizione con gli altri e ambizione scorretta, gregarietà, autoritarismo, ricerca di protezione e sicurezza in funzione di altri, etc.).
Questione di autostima, quindi…
Nel 1999, un gruppo di ricerca guidato dallo psicologo e neuroscienziato Ernest S. Barratt, ha intervistato alcuni criminali detenuti nello Stato del Texas, scoprendo che molti erano continuamente coinvolti in risse, anche se ne capivano gli svantaggi e si ripromettevano di controllarsi la volta successiva: in linea di massima non avevano fiducia nelle proprie capacità di controllare i loro impulsi.
Alcune ricerche sembrano indicare che una gran parte di questi individui sia vittima di alterazioni fisiologiche (conseguenti, anche, alle esperienze negative ambientali) sia nel sistema limbico che nella corteccia prefrontale (due aree del cervello coinvolte all’origine e nel controllo delle emozioni).
Come dire, il pane buono si produce miscelando con perizia e sapienza, ingredienti semplici quali, ad esempio, farina, sale, acqua e lievito naturale.
Ci hanno imposto dei valori… ma non ci hanno autorizzato a verificare se sono validi o meno (Gabriel Mandel).
Cari Lettori,non possiamo non concludere che, quando il disagio non è del singolo individuo ma di un intero sistema vittima di assenza di prospettive, di progetti e di legami affettivi “veri”, diventano inefficaci sia le cure farmacologiche che psicologiche.
Non basta, infatti, affrontare le sofferenze del Singolo che, nella migliore delle ipotesi viene “parcheggiato” nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato all’interno di una Società dei “Tre Niente”: Niente lavoro, Niente reddito, Niente risorse.
La strada da imboccare e percorrere coraggiosamente è quella della relazionalità.
La nostra, è una Società dominata da un individualismo esasperato. Esiste solo “l’io”. È urgente riproporre il “noi ” con il conseguente bisogno di capire la complessità dell’altro.
Partendo ovviamente, dall’accettare sé stessi per potere, finalmente cambiare.
Volevo essere un “Duro”…
Volevo essere un duro, che non gli importa del futuro
Un robot, un lottatore di Sumo
Uno spaccino in fuga da un cane lupo, alla stazione di Bolo
Una gallina dalle uova d’oro
Però non sono nessuno
Non sono nato con la faccia da duro, ho anche paura del buio
Se faccio a botte le prendo, così mi truccano gli occhi di nero
Ma non ho mai perso tempo: è lui che mi ha lasciato indietro
Vivere la vita è un gioco da ragazzi
Me lo diceva mamma ed io cadevo giù dagli alberi
Quanto è duro il mondo per quelli normali che hanno poco amore intorno
O troppo sole negli occhiali
Volevo essere un duro, che non gli importa del futuro no
Un robot, medaglia d’oro di sputo, lo scippatore che t’aspetta nel buio,
il Re di Porta Portese, la gazza ladra che ti ruba la fede
Vivere la vita, è un gioco da ragazzi
Me lo diceva mamma ed io cadevo giù dagli alberi
Quanto è duro il mondo per quelli normali
Che hanno poco amore intorno o troppo sole negli occhiali
Volevo essere un duro però non sono nessuno
Cintura bianca di Judo
invece che una stella uno starnuto
I girasoli con gli occhiali mi hanno detto: “Stai attento alla luce”
E che le lune senza buche Sono fregature
Perché in fondo è inutile fuggire dalle tue paure
Vivere la vita è un gioco da ragazzi
Io volevo essere un duro
Però non sono nessuno
Non sono altro che Lucio
Nessuno è libero se non è padrone di sé (Epitteto)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese -Direttore La Strad@
Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto per la collaborazione e a Vincenzo Andraous per gli spunti di riflessione
