Pubblicato su Lo SciacquaLingua
In un tempo ormai lontano, nel villaggio incantato di Allegoria, vivevano due parole con nomi simili ma con storie molto diverse: Agape e Agave. Sebbene fossero spesso confuse dagli abitanti, ciascuna custodiva una propria essenza unica, radicata nelle origini della lingua e della vita.
Agape, luminosa e accogliente, incarnava lo spirito della festa e della condivisione. Il suo nome proveniva dalla tradizione latina (agape), che indicava un “banchetto,” un’occasione speciale dove le persone si riunivano per celebrare ogni avvenimento, condividere il cibo e rafforzare i legami. Per Agape qualunque festa era un’occasione per unire il villaggio: lunghe tavolate adornate con fiori freschi, candele profumate e ogni genere di bontà, dal pane fragrante agli arrosti succulenti, fino ai dolci glassati di miele. Gli abitanti, felici, dicevano spesso: “Un’agape non è solo un convivio: è il cuore del villaggio che batte all’unisono.”
Dall’altro lato del villaggio viveva Agave, una parola altrettanto affascinante ma legata alla forza della natura. Il suo nome, derivato dal latino (agave, che significava “splendida” o “ammirevole”), rappresentava perfettamente la pianta robusta e maestosa che prosperava nei terreni aridi. Con le sue foglie carnose e il suo cuore dolce, Agave era un dono prezioso: dalla sua linfa si otteneva un nettare prelibato, usato per dolcificare bevande e torte; le sue fibre venivano intrecciate per creare corde forti e utili. I contadini erano soliti dire: “La agave ci insegna che, anche nei luoghi più impervi, la natura sa darci meraviglie.”
Un giorno d’autunno, Agape e Agave si incontrarono, casualmente, lungo il sentiero del Mercato delle Parole. Curiosa e sempre alla ricerca di nuove ispirazioni, Agape disse alla sua quasi omonima: “Agave carissima, la tua dolce linfa potrebbe rendere speciale il banchetto che sto preparando per la festa patronale. Vuoi unirti a me?” Agave, lusingata, accettò di buon grado l’invito.
Quella sera, sotto un cielo trapunto di stelle, tutto il villaggio si radunò per il grande banchetto. Agape creò un dolce nuovo, preparato con il nettare di Agave: soffici frittelle immerse in una salsa dorata. Gli abitanti, incantati, applaudirono e il vecchio saggio del villaggio esclamò: “Questo dolce è la perfetta armonia tra la generosità di Agape e la magnificenza di Agave. È il simbolo di ciò che possiamo creare insieme.”
Da quella sera le due parole divennero inseparabili. Le feste di Agape celebravano la bellezza della condivisione, arricchite con la dolcezza di Agave. Tutte le volte che qualcuno, nel villaggio, usava la parola agape, c’era sempre, nell’aria, un sapore che richiamava la linfa della pianta, un ricordo della fusione perfetta tra festa e natura.
A cura di Fausto Raso

Giornalista pubblicista, laureato in “Scienze della comunicazione” e specializzato in “Editoria e giornalismo” L’argomento della tesi è stato: “Problemi e dubbi grammaticali in testi del giornalismo multimediale contemporaneo”). Titolare della rubrica di lingua del “Giornale d’Italia” dal 1990 al 2002. Collabora con varie testate tra cui il periodico romano “Città mese” di cui è anche garante del lettore. Ha scritto, con Carlo Picozza, giornalista di “Repubblica”, il libro “Errori e Orrori. Per non essere piantati in Nasso dall’italiano”, con la presentazione di Lorenzo Del Boca, già presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, con la prefazione di Curzio Maltese, editorialista di “Repubblica” e con le illustrazioni di Massimo Bucchi, vignettista di “Repubblica”. Editore Gangemi – Roma.