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Il 20 novembre del 2005, il tabloid inglese News of the World pubblicò, su esplicita richiesta dell’interessato, una foto che ritraeva un malato terminale in un letto d’ospedale.

Il paziente, praticamente un moribondo, si congedava dal mondo con queste parole:

Don’t die like me (Non morite come me).

Perché, un giornale, era interessato a dar grande evidenza a quanto abbiamo sopra riportato?

“Semplicemente” perché, il Signore che lanciava questo drammatico messaggio, era George Best, riconosciuto come uno tra i calciatori più grandi di tutti i tempi.

Maradona Good, Pelé Better, George…Best!


Cinque giorni dopo il terribile messaggio pubblico, George Best muore, all’età di 59 anni.

Di origine nordirlandese, è stato un attaccante fuori dal comune, capace di mandare in delirio i tifosi e gli appassionati di calcio con un repertorio decisamente sopra le righe: velocità, equilibrio, sublime abilità con la palla al piede.

Nonostante un fisico non eccezionale (gracile e di statura non eccelsa), con la palla al piede si trasformava sovrastando difensori molto più alti di lui.

Grazie ad una classe naturale che aveva pochi confronti, ha vissuto in grande evidenza i pochi anni eccellenti della sua carriera.

Era, per istinto, un personaggio a tutto tondo e, per questo, ha sempre attirato l’attenzione della stampa, sia sportiva che scandalistica.

Era curiosamente soprannominato “il quinto Beatle”, per via dei pantaloni a zampa d’elefante e della capigliatura simile ai quattro membri del favoloso gruppo musicale di Liverpool.
Il 1968 (il mitico ‘68) è stato grandioso anche per lui che, proprio quell’anno, ha fornito un contributo fondamentale per la vittoria nella Coppa dei Campioni del Manchester United.

Nonostante il suo carattere scontroso che non attirava, di certo, le simpatie, sempre in quell’anno è riuscito a ottenere il consenso necessario a vincere anche il premio di miglior giocatore dell’anno: “Il pallone d’oro”.

Purtroppo figure come lui, fanno parte di quella ristretta cerchia di personaggi incasellati nel reparto “Genio e sregolatezza”.

I tabloid, infatti, oltre a magnificare le meraviglie sportive si sono trovati spesso “costretti” a seguirlo anche in episodi negativi, legati alla sua grave dipendenza dall’alcool.

Le sue “celebri” bevute hanno fiaccato il fisico fino al punto che neanche un trapianto di fegato gli è stato di grande aiuto.

George Best e “la bottiglia” sono stati una cosa sola, creando rammarico e sconcerto in tutti gli appassionati anche perché, visto il calibro del personaggio, la Stampa (non senza un certo sadismo) ha infierito forse più del dovuto, senza il minimo rispetto che si deve ad una persona così in difficoltà.

Dopo la morte, il giudizio delle persone, come spesso accade, è stato molto controverso, passando dalla celebrazione alla contestazione più plateale.

Se mi fosse stata data la possibilità di scegliere se scendere in campo a dribblare quattro uomini segnando un gol da trenta metri contro il Liverpool oppure di andare a letto con Miss Universo sarebbe stata una scelta difficile. Fortunatamente, ho avuto entrambe le cose (George Best)

Cari Lettori, a quasi vent’anni dalla sua scomparsa, abbiamo iniziato questo Editoriale provando a ricordare le illusioni di felicità che ha donato, a molti, nei momenti altissimi della sua carriera di giocatore.

In tanti, infatti, lo portano nel cuore per via dei suoi dribbling avvolgenti e ubriacanti. Talmente “ubriacanti” da avvelenare la sua esistenza.

Ma, direbbe qualcuno, questa è la malinconia del “dopo” perché, secondo il desiderio dei più, il ricordo degli atleti deve restare indelebilmente legato a quella fase “mitica” in cui la giovinezza è fulgida e nel suo momento più aureo.

Il momento, appunto, della effimera felicità terrestre.

Nessun essere umano può sopportare una vita senza significato (C. G. Jung)

Partendo da questa riflessione di Jung, cari Lettori, vorremmo continuare il lavoro di quest’oggi provando a capire perché, nella vita, così come accaduto a questo nostro “Campione” si possa imboccare la via dell’autodistruzione.

Pare sia stato un cameriere (quello che gli portava in camera l’ennesima bottiglia di champagne mentre era segregato lì da giorni con una Miss Mondo) a sentirgli pronunciare la sua fase più celebre:

Ho speso metà dei miei soldi tra belle donne, auto da corsa e alcool. L’altra metà l’ho sperperata.

Di interessante, di questa frase frutto di una evidente alterazione mentale, c’è che sarebbe stata la risposta a una domanda posta proprio da quel cameriere che lo aveva osservato per un attimo nel letto, sbronzo e con lo sguardo stanco, una donna stupenda addormentata al suo fianco e una quantità imprecisata di banconote, bicchieri, bottiglie sparsa per la stanza:

George, quand’è che le cose per te hanno incominciato a precipitare?

Secondo alcuni, se George Best è divenuto un’icona culturale, al di là del calcio, dipende dal fatto che, in lui, si sono mescolati un incredibile talento, l’entusiasmo e la disperazione, l’oblio delle convenzioni, l’eleganza atletica, la bramosia di vita e la noncuranza per la sopravvivenza.

Sarebbe stata questa ricetta, a fare di lui una specie di eroe letterario vivente. Un po’ come Hernest Hemingway

Un Mito, insomma

E, Mito, cari Lettori, dal Greco mỳthos (“parola, racconto”), rappresenta una narrazione di particolari gesta compiute da Dei, Semidei, Eroi e Mostri.

Al tempo stesso, gli antichi Greci distinguevano il termine Mitos che indica un fenomeno fiabesco, qualcosa di assolutamente lontano dalla realtà, dal termine Logos, che invece rappresenta il pensiero razionale, logico.

Da qui nasce il concetto di “Mitologico”.

Sostanzialmente, un tentativo di razionalizzare il teleologico che ci circonda (con tutta la magia del Trascendente) e, al tempo stesso, esorcizzare le paure del negativo che ognuno si porta dentro.

Lo psichiatra psicoanalista Renè Kaes ci ha spiegato che il “Mito” ha un’origine inconscia ma, attraverso l’elaborazione prodotta “dalla attività mitopoietica della famiglia” (cioè da quello che la madre e il padre suscitano nell’immaginario del figlio) assume una forma narrata.

La capacità di operare un più o meno corretto esame di realtà di tutti i fatti della vita che ci riguardano, dipende in gran parte da come i nostri caregiver di riferimento (mamma e papà, di solito), ci aiutano a crescere fin dai primi istanti di venuta al mondo e ci aiutano a capire chi siamo, iniziando dai momenti critici dei tre anni di vita fino all’adolescenza.

È inevitabile che (anche nelle migliori condizioni immaginabili) ciascuno si porti dentro una lunga serie di conflitti interiori irrisolti (e, forse, neanche consapevolizzati) dei propri modelli identificativi: genitori, professori, personaggi “ideali” (artisti, nelle varie declinazioni), etc.

Questo passaggio renderà per forza di cose difficile il consapevolizzare molte delle nostre aspirazioni potenziali.

Da qui, come già spiegato, il bisogno inconscio di “simbolizzare” (mediante allegorie, miti , etc.), per affidare sogni, possibilità e probabilità.

Ogni mito (ce l’hanno insegnato, fra gli altri, Freud, Jung, Hillman) è, quindi, metafora e dispiegamento di una condizione psichica.

Possiamo osservare come, nelle varie epoche storiche, gli Dei e gli Eroi dell’Olimpo dell’antica Grecia e del suo repertorio scenico ritornino ciclicamente “come sintomi” di desideri e aspirazioni inespresse sul piano del consapevole, dopo essere rimasti lungamente inabissati.

Ci spiega, poi però, la vita (quella che ci presenta il conto “a stato d’avanzamento”) che, la favole, servono a dar la spinta ai “sogni” e che, il vero Eroe è quello che comprende la responsabilità della propria Libertà.

E, per comprendere George Best, occorre pensare a quanto di più distante possa esservi dagli attuali calciatori “vip”, patinati e tatuati, tra selfie e “veline”: un ribelle anti sistema a cavallo fra il “perverso” Jim Morrison e la “sfida alla vita” di pura derivazione Celtica.

Uno spirito del tempo dei ribelli anni ‘60, insomma.

Ma torniamo indietro di qualche anno…

Come è stato scritto nelle biografie ufficiali, nei cantieri navali di Belfast, tra i vicoli che si affacciano sul porto c’è una coppia di nome Ann e Dickie Best. I due si innamorano durante un ballo e mettono su famiglia. Ann è una sportiva, giocatrice di hockey, capace di coinvolgere anche il figlio quando ne avrà l’opportunità.

Il piccolo George Best fin da subito corre lungo le linee laterali, con una palla qualsiasi, e si appassiona al calcio. Il suo talento si manifesterà ben presto e a soli 15 anni lo porta via dalla famiglia.

Un dramma talmente forte, per il rapporto stretto (e morboso) fra madre e figlio, da potere essere riassunto nella foto che vi mostriamo (e che testimonia il forte legame fra loro) e nella toccante poesia che, tempo prima, Gabriele D’Annunzio aveva composto.

Non so che darei per averti qui tra le mie braccia… Fuori il sole abbaglia; si sente il rumore del mare; in un vaso i gigli mandano un profumo acutissimo spirando; le cortine dei balconi ondeggiano come vele in un naviglio. Io ti chiamo, ti chiamo, ti chiamo. (Gabriele D’Annunzio)

A questo punto, cari Lettori, le idee cominciano a chiarirsi.

La spasmodica ricerca del “corpo” femminile ha rappresentato la disperata ricerca di narcotizzare l’angoscia di solitudine e, l’alcool, lo ha idealmente e simbolicamente tenuto vicino all’immagine della Madre.

Parimenti, attraverso le meraviglie calcistiche, ha sublimato il dolore del “vuoto” trasformato in personalità narcisistica e anticonvenzionale.

Autodistruttivo, per tutta la vita in lotta con quello stesso fantasma che sua madre aveva cercato di sconfiggere nell’alcool e che l’ha condotta, come lui, a morte prematura.

A questa storia, però, manca qualcosa…

Cerchiamo, quindi, di chiudere questo cerchio che abbiamo tratteggiato fin dall’inizio del nostro Editoriale.

Cari Lettori, la riflessione sul mito e sul rito (cioè l’insieme delle norme necessarie alla sua “celebrazione”), è importante perché consente di muoversi nel “mare magnum” della cultura. Da che Mondo è Mondo.

Senza la cultura, non potremmo “riconoscerci”, differenziarci, diventare soggetti, trasformarci da esseri puramente biologici in esseri “teleologicamente divini”.

Perché ciò avvenga è necessario, però, che ognuno poi abbia la maturità di vivere “una sua fetta di autenticità” in modo da sentirsi una fibra originale nella armonia (o disarmonia) dell’Universo.

I miti di ogni tempo, come abbiamo potuto osservare, sono legati allo sport, al canto, alla attività artistica.

I vari “Eroi” di questi settori, hanno “agito” per noi, hanno “cantato” per noi, hanno “recitato” per noi.

E, noi, ci siamo tanto immedesimati da sentire, sia pure per pochissimo tempo, sensazioni di profonda letizia, sollevandoci da una quotidianità sovente grigia e umbratile.

E allora, per non rischiare di alimentare lo stesso “vuoto” del nostro beniamino, la “coltivazione” del mito deve essere, per noi, arricchente e non alienante.

Sostanzialmente, direbbe la psicoanalisi, è necessario che sia prodromico allo sviluppo maturativo di quel fondamento chiamato “Io”, senza correre il rischio di confinarci nella fantasia irraggiungibile di quello che viene indicato come “ideale dell’Io” perché, altrimenti, l’eroe (o il mito) nel quale ci identifichiamo diventerà il surrogato delle figure parentali importanti, capaci di farci sentire protetti e sicuri, agendo con funzione ”paraeccitatoria”.

Per intenderci meglio, ad esempio, è necessario renderci conto del fatto che, per esempio, un calciatore diventa “Mito” perché c’è il contributo di consenso di ognuno di noi.

E quindi, per tornare al concetto da cui siamo partiti, è vero che è George Best che è entrato nella Storia ma solo perché, noi, lo abbiamo legittimato, perché abbiamo ritenuto, in una simbolicità collettiva che ha per tutti rappresentato, in quel momento, ciò che oscuramente sentivamo dentro.

In conclusione, cari Lettori, vorremmo salutarvi condividendo un pensiero di Herman Hesse che, ne siamo convinti, diventa un salvacondotto per uscire dall’Inferno che, a volte, ci portiamo dentro.

I dolori, le delusioni e la malinconia non sono fatti per renderci scontenti e toglierci valore e dignità, ma per maturarci.

Cosa Sarà?

Cosa sarà?

Che fa crescere gli alberi, la felicità

Che fa morire a vent’anni anche se vivi fino a cento

Cosa sarà?

A far muovere il vento, a fermare un poeta ubriaco

A dare la morte per un pezzo di pane o un bacio non dato

Oh cosa sarà?

Che ti svegli al mattino e sei serio

Che ti fa morire ridendo di notte all’ombra di un desiderio

Oh cosa sarà?

Che ti spinge a domare una donna bassina perduta

La bottiglia che ti ubriaca anche se non l’hai bevuta

Cosa sarà?

Che ti spinge a picchiare il tuo Re

Che ti porta a cercare il giusto dove giustizia non c’è

Cosa sarà?

Che ti fa comprare di tutto anche se è di niente che hai bisogno

Cosa sarà?

Che ti strappa dal sogno

Oh cosa sarà?

Che ti fa uscire di tasca dei “no, non ci sto”

Ti getta nel mare, ti viene a salvare

Oh cosa sarà?

Che dobbiamo cercare

Cosa sarà?

Che ci fa lasciare la bicicletta sul muro e camminare la sera con un amico

A parlar del futuro

Cosa sarà?

Questo strano coraggio, paura che ci prende

Che ci porta a ascoltare la notte che scende

Oh cosa sarà?

Quell’uomo e il suo cuore benedetto che è sceso dalle scarpe e dal letto

Si è sentito solo: è come un uccello che in volo

Si ferma e guarda giù

C’è grande povertà nel mondo: quella delle persone che non sono mai contente di nulla, quella di chi non sa né ridere né piangere, quella di coloro che non sanno dare nulla di sé agli altri. Poi c’è la povertà ancora più gelida: quella dovuta alla mancanza d’amore”. (Romano Battaglia)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per la collaborazione

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