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È strano quante cose bisogna sapere, prima di sapere quanto poco si sa (Cit.)

Cari Lettori la canzone con cui abbiamo deciso di aprire la “passeggiata” di quest’oggi, dal titolo emblematico (“Tu, spiegami, cos’è?”) esprime una dei sentimenti più frequenti e controversi dell’animo umano: non tanto “la paura della solitudine” quanto, piuttosto, “la paura di restar soli”.

Ognuno di noi è stato un bambino che, in modo o nell’altro, ha imparato a conoscere il mondo attraverso il filtro degli adulti di riferimento: in base alla costanza della loro costruttiva presenza e in funzione dello stato d’animo con cui si sono affrontate le vicende esistenziali, dalle più tristi alle più felici.

E, quindi, un conto è avere imparato a “spiccare” il volo grazie agli incoraggiamenti di chi si è preso cura di noi, un altro paio di maniche è aver tentato di volare controvento, nel deserto dei sentimenti.

Un po’ come dire: è difficile sorridere alla vita se siamo cresciuti inalando fumo (passivo) e subendo punizioni svilenti.

Non è strano, dunque, che la nostra base comune non si discosti dalla paura di non farcela, dalla paura di sbagliare.

Molti di noi, infatti, al mattino si svegliano con una speranza: riuscire a costruire qualcosa di bello, qualcosa di buono sia nell’arco della propria giornata, sia per ciò che riguarda tutto il prospetto dell’esistenza, almeno per quello che riusciamo ad immaginare.

Ha una sua solitudine lo spazio, solitudine il mare e solitudine la morte. Eppure, tutte queste son folla in confronto a quel punto più profondo, segretezza polare, che è un’anima al cospetto di sé stessa: infinità finita. (Emily Dickinson, Ha una sua solitudine lo spazio)

All’idea di trascorrere del tempo in maniera immotivata o demotivante, ci abbattiamo e ci deprimiamo. Soprattutto se abbiamo paura di scoprire il vuoto interiore e di percepire la noia.

Però, quanti di noi, poi, rimangono con la certezza di riuscire a dare un senso al tempo che trascorre e quanti, invece, cominciano (magari di fronte alle prime difficoltà) a dubitare di riuscire a portare a casa un risultato degno di tale nome?

A volte è come se mi mancasse quella parte dell’anima che si incastra nel puzzle del mondo. Apro migliaia di scatole, trovo pezzi bellissimi e colorati, ma è dentro di me che manca il pezzo con cui completare l’incastro. Fabrizio Caramagna, Incastri

L’osservazione che ci proviene tanto dalla gente comune quanto dai più saggi, è quella cui possiamo giungere riflettendo quel tanto che basta per riuscire ad accettare l’idea che, ognuno di noi in fondo, commette degli errori e che, la vita di ogni essere umano,  è alternata da successi e insuccessi… e questo non solo per cattiva valutazione ma, soprattutto, per elementi non previsti e difficilmente considerabili che ci mettono in condizione di dover rimodulare le strategie ipotizzate.

Non vale la pena avere la libertà se questo non implica avere la libertà di sbagliare (Gandhi).

In fondo le paure, tutte quante, derivano dal rapporto che ognuno ha con sé stesso e con il mondo esterno. Sono preoccupazioni dalle quali, a volte, si cerca di fuggire applicandoci e distraendoci con quello che, la Società, ci consente e ci mette a disposizione.

Sempre più spesso, in Solitudine.

Nell’antichità, da parte degli spiriti più nobili, questa condizione di isolamento dagli altri era, in certi momenti, ricercata perché necessaria per riflettere sui problemi che riguardano l’uomo.

Scrive Seneca: “Stare da soli ogni tanto è utile, perché permette di riflettere e ci porta ad una maggiore consapevolezza di noi stessi.”

La solitudine, prosegue il filosofo, è per lo spirito ciò che il cibo è per il corpo.

Su questa linea, nei nostri tempi, si trova Sartre che osserva:

Se sei triste quando sei solo, probabilmente sei in cattiva compagnia.

I tempi moderni, in cui (come ci ricorda Bauman) tutto cambia velocemente, troppo velocemente, sono contrassegnati da una solitudine peculiare di questa epoca.

La Società globale ha frastornato l’essere umano, a cui vengono a mancare coordinate di riferimento ben precise per affrontare la vita.

Le relazioni interpersonali sono al minimo storico e l’età della conversazione e del civile confronto è finita da tempo.

Perché, si ha paura della solitudine?

Il termine in questione, secondo i dizionari della lingua italiana, identifica la condizione di chi vive solo, in modo permanente o per un lungo periodo, ricercata per acquisire pace interiore o subita per assenza di affetti o appoggi materiali.

La risposta, quindi, consiste nel fatto che tutto gira in funzione del peso che le diamo e dell’interferenza di eventuali circostanze avverse. Perché, la solitudine, non dovrebbe essere qualcosa nel rapporto fra noi e il mondo esterno ma, al contrario, una situazione che connota un nostro corretto modo di essere, per alcuni aspetti, avvincente.

Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera.

Questi versi di Quasimodo, di parecchi decenni fa, rendono bene il clima del nostro tempo.

Venendo meno i rapporti umani più autentici si impongono le cose e, i prodotti, sono diventati il centro di interesse della nostra esistenza.

Il tutto, grazie anche alla abilità dei persuasori occulti (ma non più di tanto) che ci propongono i beni materiali come strada maestra verso la felicità.

La difficoltà di superare questa solitudine tra esseri umani è, come accade sempre, ben rappresentata in varie opere di letteratura e di filosofia.

Qualche anno fa è uscito un bel romanzo di Paolo Giordano dal titolo: “La solitudine dei numeri primi”.

In esso si parla, tra l’altro, della amicizia tra un uomo e una donna che non sfocia mai, per vari motivi, né in amore né in un sentimento di vicinanza totale. C’è sempre qualcosa che blocca, sul più bello, la relazione e costringe i protagonisti alla solitudine. Il titolo, esprime con grande efficacia tutto ciò. Siamo dinanzi a numeri primi solitari e isolati, ma vicinissimi tra loro, perché separati da un sol numero.

Separazione che sembra di poco conto e, invece, è un vero e proprio abisso.

In un angolo del cortile, tra la schiuma di sapone, alcune rose si sono piegate sotto il peso del loro profumo. Nessuno ha sentito l’odore di queste rose. Nessuna solitudine è piccola. (Ghiannis Ritsos, Piccola solitudine)

A ben riflettere, tutto gira intorno ai primi momenti della nostra vita in cui abbiamo percepito di essere “soli” e non “siamesi” di quell’astronave che è stata nostra Madre, durante la gravidanza e almeno fino ai primissimi anni di vita.

Si parla di “lutto originario” o angoscia abbandonica, ma si traduce in “prezzo da pagare per capire cosa significa crescere”.

Che cosa si vuole intendere?

Ognuno di noi, nell’arco della propria giornata, trascorre tantissimo tempo a riflettere, a meditare, a volte a rimuginare… e di questo ce ne accorgiamo attraverso quello che comunemente si definisce “umore”.

Anche quando ci troviamo immersi in una folla, per intanto cerchiamo di capire come contestualizzarci e, quindi, come integrarci e come inserirci per cui, anzitutto “viene” il rapporto con sé stessi e, poi, con chi ci sta vicino o intorno.

Allora, siccome la solitudine può essere considerata il nostro alter ego, perché si utilizza questa frase per identificare qualche cosa di negativo?

Solo chi si isola da sé stesso e dal prossimo, è veramente solo” (Nicola Abbagnano).

La solitudine, siccome ci sintonizza con le frequenze del nostro mondo interiore, costituisce un amplificatore di stati d’animo; di conseguenza, pur appartenendo a principi di Natura, ci fa consapevolizzare la paura sentirci inadeguati a sostenere il dialogo con quella parte di noi che ritroviamo ogni mattina quando ci osserviamo in quello che Eduardo De Filippo chiamava “ò guarda n’faccia”, colui il quale ha mancanza di rispetto nei nostri confronti, quello che ti dice esattamente come stanno le cose. Quando, furtivamente, ci incrociamo con chi sta dall’altra parte riflesso nello specchio dell’anima e qualcosa non va, beh… quest’ultimo ce lo manda a dire!

Ecco perché la solitudine, a certe condizioni, può diventare difficile da sopportare.

Il capolavoro di Garcia Marquez, “Cent’anni di solitudine”, già nel titolo contiene la parola chiave. Il romanzo, è stato osservato, svela il vitalismo di un universo di solitudini incrociate.

Alle glorie della nuova era globale si contrappone la solitudine dell’uomo comune: la socialità è incerta, confusa, sfocata.

Garcia Marquez, attraverso una stesura durata quasi due anni, ci porta per mano nella storia (durata 100 anni, appunto) delle sette generazioni della famiglia Buendía, all’interno dell’immaginaria cittadina di Macondo, nella Colombia caraibica.

Attraverso uno stile definito “realismo magico”, ci racconta un microcosmo frustrante, all’interno del quale la linea di demarcazione fra i vivi e i morti non è comprensibile, in grado di anticipare il freddo interiore di un ambiente carico di isolamento e arretratezza.

E noi, cari Lettori, pur trovandoci fuori dalla città di Macondo, viviamo, purtroppo, in tempi di modernità liquida, come ci insegna  Zygmunt Bauman.

L’unico elemento costante è, oggi, il cambiamento.

L’unica certezza è, oggi, l’incertezza.

Cosa conviene fare? Come si affronta e come si risolve il problema?

Sarebbe necessario ritrovare lo spazio in cui pubblico e privato possano connettersi tra loro. Si avverte fortemente il bisogno di qualcosa che richiami l’antica Agorà, un organismo nel quale la libertà individuale può diventare, volendo, anche impegno politico.

Ma potremmo “accontentarci” anche di imparare ad andare d’accordo con l’unica persona che ci accompagnerà tutta la vita: noi stessi.

In questo modo cominceremo ad apprezzare il tempo da trascorrere in nostra compagnia… leggendo un libro davanti ad un caminetto, ad ascoltare il crepitio della fiamma, o in mezzo ad una moltitudine di persone: in fondo non conta.

La paura di rimanere soli potrebbe condurre a fare delle scelte avventate?

Dipende dalla difficoltà del sostenere la presenza di chi ci crea disturbo. 

Ci spieghiamo meglio. 

Immaginiamo come deve sentirsi una persona, a pranzo, seduta a tavola con un partner con cui non ha più nulla da spartire…

il silenzio che cade diventa insostenibile e si attivano dei meccanismi interiori che hanno una ripercussione sul sistema neurovegetativo producendo, alla lunga, dei malesseri fisici.

Quel silenzio, infatti, dichiara meglio di mille parole tutto il fastidio, tutte le delusioni, tutti i dolori, tutta la rabbia che sta all’interno del proprio animo.

Ecco, cari Lettori, il partner più fedele che noi possiamo avere è quello che incontriamo, come dicevamo prima, ogni mattina allo specchio e che non ci abbandona fino all’ultimo momento di vita, fino all’ultimo respiro…

Quanto è difficile sostenere il suo sguardo sapendo che, magari, stiamo commettendo un errore, dei torti nei nostri e nei suoi confronti?

E allora, pur di non essere costretti a un duro confronto con la nostra coscienza, cominciamo a cercare dei mezzi, dei sistemi per allontanarci da noi: la compagnia di qualcuno “a prescindere”, la compagnia di qualcosa “a prescindere”…

La vita, insomma è fatta di equilibri. E di chiarezza.

La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi (Pier Paolo Pasolini)

Com’è possibile ignorare se stessi e pensare di farla franca?

Per lo stesso motivo per cui si imbroglia, si ruba, si rapina, si violenta, si vive sistematicamente al di là della norma. Basterebbe riflettere sul principio che, è solo una questione di tempo e poi, inesorabilmente, si viene scoperti. Ma in quei momenti prevale l’ebbrezza di essere riusciti a fare qualcosa nonostante le nostre incapacità… e poi in qualche modo, si farà fronte al prezzo da pagare.

Più felice sono, quanto più lontana porto l’anima mia dalla sua casa di creta, in una notte di vento, quando la luna è chiara e gli occhi vagano tra mondi di luce, quando io non sono e nessuno è accanto: né terra, né mare, né limpido cielo. solo spirito che vaga senza confini nell’immenso infinito. (Emily Brontë, Più felice sono, quanto più lontana)

La Solitudine, quindi, a volte è un bisogno da soddisfare, altre volte un mostro da cui scappare. Cos’è che determina la differenza?

La Cultura, intesa, non solo come “quel bagaglio di conoscenze importanti, che vengono trasmesse di generazione in generazione” ma considerata soprattutto come “strumento capace di aiutarci a coltivare l’animo umano”.

Questa “base” (la cultura, appunto), ci consente di sintonizzarci al meglio con la realtà, cioè con l’evidenza del fatto che siamo soli, in qualsiasi circostanza e contesto.

E allora, siccome siamo come tante isole coi castelli dagli infissi murati, dopo aver accettato questo aspetto della vicenda, in base a come organizziamo il rapporto con la nostra solitudine, all’interno di quelle stanze, ci “vivremo” come degli autistici disadattati, o come dei Robinson Crusoe, capaci di far sentire la propria presenza per essere, correttamente, individuati.

Solo quando smarriamo il senso delle cose che facciamo, avremo paura di restar soli e di non avere qualcuno con cui confrontarci e da cui avere sostegno.

Cari Lettori, nell’immagine di copertina risalta una bambina che disegna, con un gessetto, un cerchio che andrà a chiudersi con gli eventi della propria esistenza. Nel mentre, accarezza il proprio orsacchiotto di peluche che, simbolicamente, ricorda il passato ma che, agli occhi di questo essere in crescita, diventa un trampolino da cui partire verso l’avventura della vita.

In fondo, “solo nei sogni, gli uomini sono davvero liberi: è da sempre così e così sarà per sempre”

Chi ci ha preceduto, ci ha insegnato che esistono “dolori” che hanno perduto la memoria e non ricordano perchè sono dolori e ci ha esortato a non “perdere di vista” le cose veramente importanti perché lo spegnersi di un’anima è lieve, moto lieve, quasi silenzio. Eppure, anche le difficoltà passano, come tutto passa, senza difficoltà. Col senno di poi.

Al netto di ogni condizionamento, nessuno di noi, consapevolmente, prenderebbe per il sentiero che conduce a morire.

Eppure, la Fisica ci spiega che le nostre particelle di tempo giocano con l’eternità per cui, con sufficiente tranquillità, possiamo concludere che se non ci fossero luci che si spengono, le luci che si accendono non illuminerebbero il cammino già tracciato ma, ancora da migliorare.

E allora, cosa resta da fare?

Decidere di lasciarsi andare? Continuare a combattere? Proviamo a riflettere su cosa contare per poter dare un senso e una sacralità alla propria vita. O alla propria morte.

Immaginiamo questa scena.

Stati Uniti, 1865, guerra di secessione. Un cow boy scorge un giovane soldato ferito e accasciato all’interno di alcune rovine. Scende da cavallo, si avvicina, gli tocca la ferita e si accorge che non c’è più speranza. Gli sguardi si incrociano. Terrore e pacatezza si incontrano, occhi negli occhi. Quello in piedi, lentamente, si toglie il cappotto e copre il morente che trema dal freddo. Si osservano in silenzio. Si abbassa, gli passa il sigaro… lo guarda aspirare fumo e vita… proprio quella che sta “andando via”. Il soldato sorride. Il cavallo nitrisce: ci sono altre avventure, forse altra gente da soccorrere. Il ragazzo muore con un filo di fumo che ricorda il legame con la vita e la solidarietà ricevuta. Il cow boy riprende il sigaro. La coperta no. Perché non è giusto lasciarlo al freddo della propria solitudine, che in quel momento, comunque, ha smesso di pesare.

Dissolvenza.

MORTE DI UN SOLDATO

“Non insegnate ai vostri figli ad adattarsi alla Società, ad arrangiarsi con quel che c’è: dategli dei valori interiori con i quali possano cambiare la Società e resistere al diabolico progetto della globalizzazione di tutti i cervelli”. (Tiziano Terzani)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per la collaborazione

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