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Si narra che, un giorno (forse senza tempo), nell’antica Grecia, i Sette Savi incisero alcuni loro pensieri sulle mura del tempio di Apollo, a Delfi.

Chilone di Sparta, Cleobulo, Misone, Solone, Talete, Pittaco e Briante (da Priene)

“Conosci te stesso”; “Ottima è la misura”; “Nella vita, la cosa più bella è la tranquillità”; “Impara a ubbidire e imparerai a comandare”; “Ricordati degli amici”; “Restituisci il deposito”.

Pare che, l’ultimo dei sette, Biante da Priene, dopo aver titubato a lungo, abbia scritto: “La maggioranza degli uomini è cattiva”.

A riguardare i libri di Storia (e di Filosofia) ritroviamo Socrate che, riprendendo un pensiero di Eraclito sintetizzò una interessante conclusione in merito: “L’uomo persegue il Male solo perché non conosce la strada del Bene; altrimenti, non sarebbe così stolto da battere un sentiero così impervio e poco gratificante come quello del Male”.

Come a dire che a praticare il Bene ci si può solo guadagnare. (Luciano de Crescenzo)

Cari Lettori, analizzando le notizie di cronaca, a noi tornano in mente Biante, Eraclito e Socrate.

Genocidi, massacri, uxoricidi, abusi sugli indifesi, stupri violenze di gruppo e tanto altro, possiamo attribuirli alla cattiveria, all’ignoranza o alla stupidità?

E ammesso che sia il nefasto Thanatos (di Freudiana memoria) a prevalere, noi (forse ingenuamente) ci domandiamo: sono più cattivi i palestinesi o gli israeliani, i Russi o gli Ucraini, i giovani o i cosiddetti “adulti”? Gli extracomunitari o gli italiani? I laureati o gli analfabeti? I settentrionali o i meridionali del Mondo?

Forse, non esistono razze, categorie o popoli cattivi, ma solo singoli individui non dotati di pietas. (Luciano de Crescenzo)

Volendo prendere in considerazione l’esempio per antonomasia; quello che è accaduto in Germania negli ultimi anni dell’Olocausto, non può essere addebitato al solo Hitler (pur affetto da psicopatologia, forse peggiorata dall’uso di cocaina).

Volendo effettuare un conteggio sommario, l’eliminazione sistematica di sei milioni di ebrei avrà pure richiesto la collaborazione di migliaia di “criminali” che hanno eseguito delle orribili disposizioni…

Lo stesso discorso vale per ogni orrida manifestazione effettuata su larga scala, compreso l’interramento di rifiuti tossici e il lasciare affogare chi tenta la “traversata della vita”.

E, allora, dorme in noi un istinto criminale che attende l’occasione di appalesarsi nella maniera più terribilmente idonea?

Probabilmente molto dipende dal conflitto primigenio da cui, grazie alla “insopportabilità reciproca dei quark (di protoni e neutroni) prende origine ogni forma di vita.

Altro ancora prende spunto dai meccanismi di identificazione proiettiva (per cui scarichiamo su malcapitati di turno, la rabbia che proviamo verso noi stessi) o da disturbi di personalità come quello del Narcisismo maligno…

Fatto sta che ciascuno di noi trova difficile capire in che modo sentire, a pieno, la propria felicità.

L’essere umano non nasce per soffrire ma confonde, sovente, l’incapacità da carente sviluppo della propria personalità (risolvibilissima, attraverso l’impegno, lo studio e la motivazione) con la fatalistica convinzione che, tutta l’esperienza terrena, debba essere costellata da una sequela di iatture e dispiaceri. In una pubblicazione scientifica del 1969, il biologo Delgado, riporta i seguenti risultati: “Nella porzione posteriore dell’ipotalamo, sono presenti due gruppi diversi di strutture, le une remunerative e le altre punitive. Un’analisi sistematica delle aree cerebrali del ratto, rivela che il 60% del cervello è neutro, il 35% risulta “remunerativo” e solo il 5% può provocare effetti punitivi”.

Considerando che il protocollo scientifico prevede una “sovrapposizione neurofunzionale” fra ratti ed esseri umani, possiamo concludere che il buon Dio, o chi per lui, abbia previsto la necessità di riflettere molto (60% di aree cerebrali neutre) per imparare ad apprezzare i piaceri della vita (35% di aree cerebrali gratificanti) e valutando la capacità di percepire il dolore (5% di aree cerebrali “punitive”) solo come campanello d’allarme in presenza di pericoli.

Al contrario, l’essere umano ha imparato ad amplificare la funzionalità delle potenzialità sofferenti (che rappresentano invece, percentualmente, una quota trascurabile) mortificando il resto, per carenza di un sistema educativo adeguato.

Perché molti hanno paura di provare e mostrare la propria gioia?

Come abbiamo già avuto modo di spiegare in altre occasioni, dal punto di vista Sociale, questo è un problema che affonda le radici nell’antichità, all’epoca degli antichi greci, i quali avevano paura di mostrarsi felici, contenti, perchè temevano l’invidia degli Dei.

In effetti, a quei tempi, si temeva che gli dei poi punissero gli esseri umani per la loro felicità, e quindi si mostravano sempre tristi, insomma cercavano di non far vedere i loro stati d’animo al positivo.

Questa sciagurata tradizione si tramanda ancora oggi! Molte persone dichiarano di aver paura dei propri momenti felici per timore di doverla scontare attraverso molta sofferenza. Questo tipo di convinzione “ellenistica” risente della cultura del tempo: infatti gli Dei venivano umanizzati e “nevrotizzati”, schiavi di complessi di inferiorità, permalosi e suscettibili. 

Eppure, a guardare il bambino che si perde negli occhi della propria madre che lo tiene fra le braccia, potremmo concludere che l’inizio del percorso esistenziale ci offre più di uno spiraglio da cui giungono i raggi di un radioso e felice avvenire.

Procedendo con ordine, andiamo alla scoperta di tutto quello che è intorno a noi mentre, il caregiver per eccellenza (cioè la mamma o chi per lei) anticipa l’appagamento dei nostri bisogni prima che, noi, riusciamo a consapevolizzarli.

E poi?

E poi, accade che, questa mamma (per legge di Natura “sufficientemente buona” e non “assolutamente buona”), ci espone alle frustrazioni che, se da una parte sono indispensabili alla crescita interiore, dall’altra ci fanno risperimentare la “cacciata dal Paradiso Terrestre”.

Se, a questo, sommiamo il famigerato “conflitto edipico” la conclusione che la vita sia, di fatto, un grande inganno, è abbastanza probabile.

In base alle sfumature caratteriali dei nostri primi “educatori”, riusciamo più o meno bene a prendere (come un surfista), l’onda spartiacque fra la convinzione che il mondo si divida fra  buoni e cattivi (posizione schizoparanoide) e la realtà deprimente nella quale capisci di non poterti fidare di nessuno (posizione depressiva, che dovrebbe essere “temporanea”).

Il rischio è quello di prendere la via della melanconia o dell’iperattività compulsiva: in entrambi i casi, è molto difficile “sentire” la propria Felicità.

Come ci muoveremo, quindi, nei meandri della Vita?

Proveremo ad adattare, anagraficamente, gli oggetti transizionali per cui, l’orsacchiotto (o la copertina) diventa l’auto di lusso, il conto in banca, le passioni sfrenate, etc.

Ma, insomma, perché si ha paura di essere felici?

Cari Lettori, nella tematica di oggi, è più che mai evidente che, la nostra “forma mentis” ci porta sempre a dialogare coi “Classici” per procedere in ottima compagnia.

Sul tema in questione offre notevole aiuto Epitteto, filosofo greco esponente dello stoicismo in epoca romana, vissuto dal 50 al 130 d. C.

Un uomo saggio non si affanna per ciò che non ha, ma gioisce per quello che ha.

Un dato basilare emerge da questa frase solare: bisogna analizzare e apprezzare quel che si ha.

Ma noi, come stiamo capendo nel prosieguo del ragionamento odierno, tendiamo sempre a desiderare ciò che non abbiamo: questo atteggiamento, ci impedisce di porci dinanzi alla vita in modo sereno e creativo.

Tra le cose che esistono, ci ricorda Epitteto, le une dipendono da noi, le altre non dipendono da noi.

Dipendono da noi, per far qualche esempio, il giudizio di valore, l’impulso ad agire, il desiderio e così continuando.

In una parola, tutti quelli che sono “fatti nostri”.

Ciò che dipende da noi, va da noi gestito per il meglio.

E qual è la “cosa” che, noi, sommamente desideriamo (o dovremmo desiderare)?

La felicità o, volendo usare altra espressione, una positiva e ricaricante vivibilità.

In psicologia, non a caso, la felicità corrisponde ad uno stato emotivo positivo: una sensazione di soddisfazione e di benessere.

Giacomo Leopardi, mirabile traduttore del Manuale di Epitteto, sostiene che la felicità risiede nell’equilibrio tra i bisogni dell’individuo, le sue passioni e le sue capacità.

I consigli di Epitteto, di due millenni fa, appaiono quindi, come “freschi di giornata” e in grado di farci ripensare la felicità con tutto l’alone che essa porta con sé.

Tutti vogliamo vivere meglio, vogliamo essere più felici e avere meno preoccupazioni. Il problema è che non sappiamo come riuscirci. Abbiamo un obiettivo, ma il percorso verso la felicità sembra tortuoso e confuso. (Epitteto)

Sono importanti alcune condizioni di base.

Sostiene Epitteto: per essere felice, devi prima essere libero.

Concetto chiaro, che dovremmo tenere sempre presente:

La felicità non consiste nel delineare delle cose, ma nell’essere liberi.

Oggi, come abbiamo avuto modo di considerare a proposito della trasformazione dell’oggetto transizionale, tanti si affannano a guadagnare sempre di più perché il prestigio è legato ai soldi.

Si affannano, spesso in modo non lecito, per avere.

Chi non ha, non è. (Vincenzo Padula)

Quindi, secondo questa concezione, chi non possiede beni materiali, nella nostra Società, è come se non “Fosse” nulla.

Chi si basa su questa concezione di vita non è interessato alla felicità: si arrovella per il potere e, di fatto, è da sé stesso condannato alla infelicità.

La vera ricchezza (che conduce alla felicità) non consiste nell’avere molti beni, ma POCHI DESIDERI “EFFIMERI”.

Esiste un modo per “cambiare”, veramente?

La Scienza ci descrive alcuni fondamentali ruoli del Protone sia nella creazione di nuove idee (per poter destrutturare e ristrutturare un atomo, è necessario che il Neutrone si trasformi temporaneamente in Protone) che nell’avviamento della macchina della vita aerobica (i protoni sono fondamentali nella fotosintesi clorofilliana attivando la produzione di quel deposito di energia chiamato ATP).

Ora, siccome tutto parte dall’energia (e dalle sue conseguenti frequenze elettromagnetiche), per ciò che concerne le nostre emozioni, presupponendo l’Elettrone come fattore di “movimento aggressivo” (visto il suo ruolo di mediatore di informazioni, attraverso i salti da un orbitale all’altro) e il Neutrone come particella neutra simbolicamente sede di razionalità, al Protone non resta che la pertinenza affettiva.

Ebbene è come se il “Creatore” (o la “Creatrice”) di tutte le cose ci lasciasse questa libertà di scelta:

affrontare la vita “mascherando” sentimenti ed emozioni attraverso una fredda razionalità (che ci porta verso una coazione a ripetere schemi ed errori)

oppure

sacrificare, in nome dell’Amore, l’apparente tranquillità della nostra razionalità, per aprirci a nuova vita, dopo la percezione di aver perso tutto.

La destabilizzazione che si crea nel temporaneo passaggio da Neutrone a Protone, fa emergere il nostro “inconscio collettivo” che ci aiuta a ricontattare la nostra natura Angelica la quale contiene, in sé, qualcosa di Luciferino.

Cari Lettori, conciliando questi opposti (e apparenti estremismi) ci accorgeremo del fatto che, l’aggressività che ci fa sbandare, può diventa anche un ottimo propellente in grado di guidarci oltre gli orizzonti conosciuti. Senza la paura della solitudine.

Buon cammino. A tutti

La Felicità

Cadono, come castelli di sabbia, le nostre certezze: pilastri di rabbia e paura

siamo lontani dai giorni che ci hanno concesso di apprendere il senso di chiederci scusa con un compromesso e trovare la cura

e ora capisco perché non ho mai amato nessuno all’infuori di te, che insisti che insisti che insisti che insisti

Non c’è più niente da dire, è la verità, anche se cerchi ogni giorno un frammento d’amore, che vita sarà?

Voglio ascoltarti per ore ma prova a convincermi che prima o poi tornerà la felicità.

I sogni, sai, vanno dipinti anche se non li vedi ma, se poi ci pensi, spesso svaniscono proprio perché non ci credi

O forse gli cambia il colore l’amore che prende e che da lo puoi comprendere

Non c’è più niente da dire, è la verità, anche se cerchi ogni giorno un frammento d’amore, che vita sarà?

Voglio ascoltarti per ore ma, prova a convincermi che, prima o poi, tornerà la felicità

Il vero Amore si determina quando, ricordandomi ciò che ho amato in maniera incommensurabile e conflittuale, grazie a te io risolvo quell’impossibile da dire (Cit.)

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento ad Amedeo Occhiuto, per l’affettuosa collaborazione

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