I ragazzi che si amano si baciano in piedi, Contro le porte della notte e, i passanti che passano, li segnano a dito.
Ma i ragazzi che si amano, non ci sono per nessuno ed è la loro ombra soltanto, che trema nella notte, stimolando la rabbia dei passanti: la loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia.
I ragazzi che si amano, non ci sono per nessuno: essi sono altrove, molto più lontano della notte, molto più in alto del giorno, nell’abbagliante splendore del loro primo amore. (JACQUES PRÉVERT)
Cari Lettori, il 14 Aprile si celebra la giornata internazionale del Bacio, cioè di quell’atto compiuto trasmettendo, con le proprie labbra un sentimento d’amore, venerazione, affetto, devozione.
Sigmund Freud ci ha spiegato l’importanza della cosiddetta “Fase orale”, mediante cui esploriamo il mondo attraverso quello che la nostra bocca e le nostre labbra trasmettono al cervello e, soprattutto, al “cuore”.
Una questione di emozioni e sentimenti di paura che vengono “addolciti” con la certezza che, comunque vada, qualcuno ci aspetterà a braccia aperte.
È questo, per esempio che ci ha descritto Margaret Mahler nel “suo” meccanismo di “Separazione – Individuazione” con cui, il bambino, apprende il proprio schema corporeo, esplora il mondo esterno, distingue la madre e avverte angoscia quando non c’è (perché, ormai, si è “differenziato” da lei), stabilirà una “giusta distanza” da lei (e si appiglierà a un oggetto transizionale per non avvertire l’angoscia della solitudine), si riavvicinerà capace di sopportare le attese e iniziando a sentirsi, interiormente, al sicuro e percependo, finalmente, la propria identità.
Un’apertura di braccia con cui “comprende” il mondo e lo riporta in sé, per poterlo correttamente “assaporare”.
“Siamo fatti per esserci insieme, soli ma non troppo; lune piene da condividere, cielo da contenere, terra da decidere.
Siamo un incastro troppo buono per investire sulla geometria solitaria: abbiamo un collo che si incastra con l’altra scapola, la schiena che pareggia il piano con il petto di un altro; con quattro braccia facciamo linee rette, salti mortali per parallele di pelle; con le gambe possiamo diventare treccia: creare nodi, restare legati, sciogliersi mai.
Siamo fatti per allontanarci ma non troppo.
Siamo fatti per esserci insieme, per starci, creare corpi di ballo, creare corpi da ballo.
Siamo fatti per solitudini non troppo marcate: il cuore deve ritornare, prima o poi, alla parata del mondo, battere insieme a tutti, dare il tempo all’eternità che, anche se non crede nel tempo, ha comunque bisogno di un metronomo per non sbagliare ritmo.
Siamo fatti per salvarci a vicenda, per accompagnarci insieme fuori dalla guerra; fatti per il confronto, fatti per il conforto, per sostenerci, s.o.s tenerci, tenerci in aiuto; per riprenderci ma non per rimproverarci; per lasciarci non essere più tutte le cose che non vogliamo essere più.
Siamo fatti per accettare questa nostra meravigliosa debolezza che, quando cadiamo a pezzi, solo un abbraccio riesce a tenere uniti i frammenti”. (Gio Evan)
Cari Lettori, in momenti di tensione tra familiari o amici si sente, spesso, esclamare da parte di uno dei partecipanti alla discussione: “Tu non mi capisci! Non riesci a metterti nei miei panni!”.
Sembra una frase “giustificativa” ma contiene una profonda verità.
Spesso, chi la pronuncia non sa nemmeno che, l’espressione, rinvia al concetto di empatia e tira in campo un aspetto psicologico di grande importanza che sta alla base del principio di ogni rapporto con l’altro (le “relazioni oggettuali”), che consente un’azione terapeutica attraverso il Transfert e il Controtransfert e che nasce grazie alla miracolosa azione del “rispecchiamento” fra mamma e bambino che risveglia i neuroni specchio della “circonvoluzione precentrale” e dell’Area di Broca e di quella di Wernike (per consentire la decodificazione delle emozioni attraverso la sincronizzazione degli sguardi, alla stregua della sintonia di due diapason).
Se ciò che io dico risuona in te, è semplicemente perché siamo entrambi rami di uno stesso albero. (Cit.)
Dal Greco “En – Pathos” (Dentro al sentimento), il termine “empatia” è stato usato nell’antichità per connotare il legame di partecipazione emotiva che univa l’aedo (Cantore di professione dei canti epici della Grecia antica, che accompagnava il proprio canto con il suono della cetra) col suo pubblico
Chi ha studiato in tempi in cui, a scuola, si leggeva (in traduzione) molto Omero, sa bene di che cosa parliamo (l’aedo alla corte di Alcinoo, l’aedo nella casa di Ulisse a Itaca…)
Il termine è stato introdotto in filosofia, a fine Ottocento, da Robert Vischer, uno studioso di arti figurative, per “definire la capacità della fantasia umana” di cogliere il valore simbolico della Natura.
In psicologia connota la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, “di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro. Con questo termine si suole rendere in italiano quello tedesco di Einfuhlung” (Cit. Enciclopedia Treccani).
Lo psichiatra e psiconalista Ralph Romeo Greenson colloca le origini dell’empatia nella relazione primaria madre-bambino e sostiene, tra l’altro, che gli analisti di sesso maschile, per essere veramente empatici, debbano venire a patti con la propria “componente materna”.
Sostiene sempre Greenson che “Empatia e intuizione sono affini. Mentre si prova empatia per comprendere i sentimenti, si usa l’intuizione per cogliere le idee. L’empatia sta agli affetti e agli impulsi come l’intuizione sta nei confronti del pensiero logico”
Nel 1983 con la regia di Woody Allen (che interpreta anche il personaggio principale) esce nelle sale cinematografiche, “Zelig”.
Questa pellicola è una tragicomica parodia di un documentario degli anni venti del secolo scorso che, sebbene dia tutta l’aria di essere ispirato a fatti realmente accaduti, in realtà racconta una storia inventata, con personaggi fittizi.
Siamo nel 1928 e Leonard Zelig (Woody Allen) è vittima di una ignota malattia che si manifesta nella trasformazione empatica, camaleontica e psicosomatica, dei tratti in conseguenza del contesto in cui l’individuo si trova.
Ricoverato in ospedale, Zelig (in lingua yiddish, parlata dagli ebrei originari dell’Europa orientale, significa “benedetto”) viene seguito da Eudora Fletcher (Mia Farrow), una psichiatra che cerca di scoprire le radici dello strano fenomeno nell’inconscio del paziente.
Il “camaleontismo” di Zelig si trasforma in una moda.
Leonard viene affidato alla sorellastra che cerca di trasformarlo in un fenomeno da baraccone. La dottoressa Fletcher tenta di proteggere Leonard e se ne innamora. I due decidono di sposarsi, ma Zelig, turbato dagli scandali montati dalla stampa, fugge in Europa. Eudora lo ritrova a Berlino: Leonard è alle spalle di Hitler durante un’adunata nazista. Fuggiti dalla Germania, Leonard ed Eudora vengono accolti trionfalmente in patria.
Il Leonard Zelig di Woody Allen è un uomo che, alla stregua del miglior Alighiero Noschese, non ha una identità definita..
Egli, è letteralmente l’immagine proiettata degli altri, uno specchio che restituisce alle persone la propria immagine.
Bruno Bettelheim (famosissimo psicoanalista tedesco che, nel film, interpreta sé stesso) dichiara: “Se Zelig fosse psicotico o solo estremamente nevrotico, era un problema che noi medici discutevamo in continuazione. Personalmente mi sembrava che i suoi stati d’animo non fossero poi così diversi dalla norma, forse quelli di una persona normale, ben equilibrata e inserita, solo portata all’eccesso estremo. Mi pareva che, in fondo, si potesse considerare il conformista per antonomasia”.
È in tale accezione di personalità adattivamente camaleontica, di trasformismo identitario dipendente dal contesto ambientale, che è stata coniata in psichiatria la sindrome di Zelig.
In questo film, è evidente la geniale intuizione di Allen che, ben prima degli scopritori dei neuroni specchio, si rende conto del fatto che, ogni essere umano, in fondo, è capace di adattarsi all’ambiente.
Quando tale caratteristica è spinta all’eccesso, come ogni stress psiconeurofisiologico, genera un’aura di confine tra la norma e il disturbo, che rende l’individuo paradossalmente diverso dal contesto in cui cerca di fondersi.
È quello che accade, di fatto, quando tentiamo di inseguire modelli comportamentali in cui identificarci ossessivamente, finendo col pagare il prezzo del disadattamento estremo.
Empatia.
Cioè, capacità di identificarsi con un’altra persona in una determinata situazione e di percepire e comprendere i suoi stati emotivi. È una dote così importante per lo sviluppo sociale da essere profondamente radicata in quelle zone del nostro cervello, dove “nasce” la coscienza di esistere (neocorteccia, formazione reticolare mesencefalica, talamo e ippocampo).
È già una felicità poter amare anche quando, ad amare, si è soli (Théophile Gautier)
Fra i primi ad usare il termine “empatia” (traduzione del tedesco Einfuhlung), fu il filosofo Theodore Lipps, che lo propose agli inizi del Novecento per indicare la relazione tra l’artista e il committente, che proietta se stesso nell’opera.
È proprio questo tipo di esperienza che ci permette di riconoscere gli altri come persone simili a noi e, quindi, favorisce la messa in atto di abilità sociali fondamentali, come l’apprendimento attraverso l’osservazione e la comprensione dei bisogni e dei desideri altrui: una capacità, insomma, che (almeno in teoria) consente di ottimizzare le interazioni tra individui.
Nell’ambito familiare, l’educazione empatica ha un ruolo importante e si basa su una presenza costante del genitore che accoglie e soddisfa i bisogni del proprio figlio, “regalandogli” attenzione e un attaccamento sicuro.
Un prerequisito per essere empatici, è inserire la gentilezza nel quotidiano e disporsi verso gli altri con disponibilità “evangelica”.
Gli altri sono il nostro prossimo e a ben vedere sono, “in fondo”, noi.
Lo psicologo Martin Hoffman ha precisato, a suo tempo, che l’empatia si compone di tre fattori: affettivo, cognitivo, motivazionale.
Per questo, grazie all’empatia, si entra con l’altro “in connessione psico-emotiva. Ciò è possibile perché c’è una capacità del cervello che permette di concentrarsi non solo su sé stessi, ma di essere più ricettivi nei confronti degli altri e del mondo esterno.
Il mondo è fatto di relazioni. Il mondo “è” relazione.
In un intenso e, per alcuni versi, straziante libro di L. Tolstoj, “La morte di Ivan Il’ic”, quello che colpisce particolarmente, è il colloquio fra medico e paziente, nel quale si evince l’angoscia di quest’ultimo che non riesce ad avere una risposta alla sola domanda che gli interessa: “dottore…il mio stato è grave?”
Ascolto, attenzione e solidarietà sono alleati cruciali in ogni terapia.
“Ho sempre pensato che sia giusto spiegare la situazione al paziente, passando in rassegna i sospetti diagnostici (secondo il moderno concetto di “alleanza terapeutica”). Il medico non può fingere d’ignorare le domande cruciali, relative all’evoluzione del proprio stato morboso.
Questo è particolarmente vero quando ci si trova davanti a una malattia tumorale. Certo, ci sono segnali incoraggianti: le percentuali dicono che di cancro si guarisce sempre di più. Ma una neoplasia resta sempre una malattia grave, che sconvolge gli equilibri del malato e i suoi rapporti familiari e sociali.
Perciò, il medico non può fingere di ignorare le angosce del paziente ma, anzi, deve prevenirle e chiarificarle, al massimo possibile.
Profondamente convinto di questo, fin da quand’ero giovane e lavoravo all’Istituto nazionale dei tumori di Milano mi sono sempre battuto perché, nei trattamenti dei malati di tumore, entrasse a pieno titolo anche una particolare attenzione per gli aspetti psicologici della malattia.
Quindi, accanto a preoccupazioni come quella di individuare una precisa scala del dolore per comprendere come il malato si sentisse, cercammo di sviluppare un metodo per capire come il malato vivesse la sua condizione. Era un approccio diverso, dedicato al rispetto della persona
All’Istituto europeo di oncologia, abbiamo sviluppato un modello particolare di approccio col paziente, a partire dal messaggio della diagnosi, che deve sempre essere accompagnato dal messaggio della terapia e da quello della fiducia nella guarigione.
Con semplicità e serenità, bisogna dire le cose come stanno. Esiste il male, ma ci sono anche le terapie. L’errore che evitiamo con determinazione è di parlare di un tumore in termini statistici, perché può indurre nel paziente, a seconda dei casi, un ottimismo esagerato o pessimismo distruttivo.
Il malato non ha bisogno di cifre, ma di ragionevoli speranze… e, soprattutto, non va lasciato solo”. (Umberto Veronesi)
Sensibili si nasce o si diventa?
Il meccanismo della risonanza emotiva che determina il coinvolgimento (e il relativo condizionamento) nei confronti degli stati d’animo altrui, trae origine dai cosiddetti neuroni specchio, scoperti da un gruppo di neurofisiologi di Parma, guidati dal prof. Giacomo Rizzolatti.
Tali cellule celebrali presentano la particolare proprietà di attivarsi non solo quando si esegue una determinata azione ma, anche, quando si osserva la stessa azione eseguita da un altro o, addirittura, nell’ascoltare un suono che la evoca (per esempio il rumore di una carta stropicciata che fa pensare all’appallottolamento di un foglio).
Di sicuro, l’empatia si genera nel mondo inconsapevole.
A volte siamo in grado di renderci conto del nostro coinvolgimento emotivo di fronte a condizioni che il mondo esterno ci propone (mediante variazioni dell’umore, attivazione del sistema neurovegetativo con alterazione di parametri come temperatura, frequenza cardiaca e respiratoria, etc.).
Altre volte, ciò sfugge alla percezione consapevole.
È stato dimostrato, per esempio, che la presentazione di immagini relative ad espressioni del volto (tristezza, rabbia, paura, disgusto, etc.) induce negli osservatori (soprattutto se di sesso femminile) impercettibili contrazioni degli stessi muscoli del viso che normalmente sono attivati quando si sperimentano personalmente quelle emozioni.
Anche il cosiddetto “effetto camaleonte”, cioè la tendenza a mimare le posizioni e le espressioni del volto di coloro con cui interagiamo, è largamente inconscio.
Tale fenomeno è innescato da un “contagio emotivo” conseguente ad un “effetto diapason” energetico che rende possibile l’innesco di vibrazioni molecolari del DNA di neuroni e nevroglia delle zone cerebrali coinvolte nell’ideazione e nelle processazioni di pensiero.
Ciò è talmente efficace da determinare risposte comportamentali anche quando non si comprendono i motivi del messaggio esterno.
Per esempio, un neonato che inizia a piangere sentendone piangere un altro, non è in grado di capire il perché del disagio.
I meccanismi neuro – nevrogliali dei processi empatici, si basa su una serie di meccanismi di “risonanza” interna che permettono di simulare – cioè di ripetere mentalmente – gli aspetti emozionali, percettivi e motori delle esperienze delle persone che osserviamo. In sostanza, attraverso questi processi simulativi saremmo in grado di “metterci nei panni degli altri”, comprendendone gli stati mentali.
L’attività dei neuroni specchio e, quindi, la capacità di riuscire a riprodurre i pensieri ed i comportamenti degli altri” imitandone” le azioni, è influenzata dalle abilità individuali sviluppate al punto da farle diventare abitudini “creative”.
Tutte le grandi gioie si somigliano nei loro effetti, a differenza dei grandi dolori che hanno una scala di manifestazioni molto variata (Ippolito Nievo)
Una matrice per il dolore
In teoria, i sistemi neurali con proprietà specchio sono ideali per attivare l’immaginazione nella capacità di rappresentarsi le emozioni degli altri.
Questo tipo di abilità consente di dedurre senza dovere, per forza, sperimentare direttamente e potrebbe avere una funzione adattativa in una circostanze come quelle che riguardano il dolore e la sofferenza in genere.
Il dolore è la spiacevole esperienza sensoriale ed emotiva associata a un danno biologico e psicologico potenziale o reale e riveste un chiaro significato adattativo.
La percezione di uno stimolo doloroso, infatti, ci consente di minimizzare il danno immediato producendo riflessi di allerta verso elementi potenzialmente dannosi, mettendoci in condizione di apprendere, ricordare e anticipare il pericolo.
Nell’esperienza “nocicettiva” (dolorifica) è possibile distinguere una dimensione sensoriale – discriminativa (che riguarda per esempio la valutazione della sede, della durata e dell’intensità della sensazione dolorosa) e una psico – emotiva ( riguardante la spiacevolezza, il fastidio, il turbamento indotto dalla sensazione provata).
Cari Lettori, la rappresentazione del dolore, nel sistema nervoso, si basa su una molteplicità di strutture cerebrali che, nel complesso, costituiscono la “matrice del dolore” di cui fanno parte due grandi gruppi neurologici, dedicati rispettivamente alla rappresentazione degli aspetti sensoriali e di quelli emotivi del dolore.
Le strutture più legate agli aspetti sensoriali includono la corteccia somatosensoriale e l’insula posteriore.
Il “nodo” emotivo della matrice del dolore, include la circonvoluzione del cingolo (con interessamento del sistema limbico) e l’insula anteriore.
Le lesioni in queste due aree, infatti, provocano una specifica riduzione della risposta emotiva al dolore che, in alcuni casi, porta alla cosiddetta “asimbolia per il dolore”, nella quale il soggetto percepisce lo stimolo doloroso senza manifestare reazioni psicologiche appropriate.
Il dolore degli altri
Nella tradizione filosofica che risale a Cartesio, il dolore è ritenuto un’esperienza fondamentalmente privata.
Un interrogativo che solo recentemente ha appassionato le neuroscienze riguarda l’esistenza di sistemi “empatico – rievocativi” dell’esperienza dolorosa che rendano possibile capire e condividere il dolore altrui.
Nel 1999, William Hutchinson, dell’Università di Toronto, registrando l’attività neuronale nella corteccia cingolata anteriore di pazienti svegli, notò un neurone la cui frequenza di scarica variava non soltanto in seguito a stimoli dolorosi applicati alla mano del paziente ma, anche, quando il paziente osservava uno sperimentatore ricevere la stessa stimolazione.
Questa scoperta fortuita suggerì che l’empatia per il dolore possa essere legata alla parte emotiva (soprattutto affettiva) della matrice del dolore.
Il primo studio sistematico sulle basi neurali dell’empatia del dolore è però più recente.
Nel 2004 il gruppo della prof. Tania Singer presso il Laboratorio di neuroanatomia funzionale dell’Università di Londra, ha usato la risonanza magnetica per analizzare l’attività cerebrale di giovani donne sane, in due condizioni sperimentali.
Nella prima, le volontarie ricevevano uno stimolo doloroso in prima persona.
Nella seconda, erano avvertite mediante uno stimolo visivo che il loro partner, fidanzato o marito, che si trovava nella stessa stanza, stava ricevendo una stimolazione dolorosa simile a quella da loro precedentemente ricevuta.
In entrambi i casi risultavano attive sia la corteccia cingolata anteriore sia l’insula anteriore.
Inoltre, i soggetti che ottenevano punteggi più elevati in due scale di empatia emozionale, mostravano una maggiore attivazione di queste due aree mentre il partner subiva la situazione dolorosa.
Gli studiosi hanno concluso che empatizzare con il dolore degli altri non attiva il sistema corticale per la rappresentazione del dolore, ma solo la sua componente psicologica, mentre la componente sensoriale si attiva soltanto durante l’esperienza dolorosa diretta.
Empatia in rosa?
Nell’ambito delle differenze comportamentali legate al genere, le diverse attitudini empatiche potrebbero essere alla base della maggiore capacità di relazioni interpersonali di tipo collaborativo delle donne e di tipo competitivo negli uomini.
Questa diversa capacità, ha trovato riscontro in una recente ricerca condotta con una tecnica basata sul riscontro dell’attività cerebrale mediante risonanza magnetica
Tania Singer e i suoi collaboratori, hanno esaminato l’attività cerebrale di volontari di sesso maschile e femminile mentre ricevevano uno stimolo doloroso o erano avvertiti che un’altra persona (uno di due attori seduti ai lati dell’apparecchiatura per la risonanza magnetica) stava ricevendo la stessa stimolazione nociva.
In una fase precedente alla scansione, il soggetto aveva partecipato con i due attori a un gioco economico in cui vincevano somme di denaro.
Uno dei due attori era istruito a comportarsi correttamente consentendo un guadagno accettabile per entrambi, l’altro invece a comportarsi in modo scorretto, ostacolando le vincite del soggetto sperimentale a suo completo vantaggio.
I risultati del test hanno mostrato l’attivazione di un complesso circuito di aree sensomotorie e affettive quando il dolore era provato sul proprio corpo.
Ma che cosa succedeva quando il soggetto sapeva che uno dei due attori stava provando dolore?
Il risultato più interessante è stato che la risposta neurale al dolore altrui dipendeva da quanto la persona “sofferente” si era comportata correttamente durante il gioco.
Quando i soggetti (sia donne sia uomini) erano avvertiti che a provare il dolore era il giocatore corretto, si osservava principalmente l’attivazione di aree affettive come l’insula anteriore/giro frontale inferiore e la corteccia cingolata anteriore.
Inoltre, quanto più i soggetti ottenevano punteggi alti in questionari che valutavano l’empatia emozionale, tanto più erano forti le risposte affettive al dolore del giocatore corretto.
Le risposte affettive al dolore del giocatore scorretto erano invece ridotte.
A unire il cuore delle persone non è soltanto la sintonia dei sentimenti. I cuori delle persone vengono uniti ancora piú intimamente dalle ferite. Sofferenza con sofferenza. Fragilità con fragilità. (HARUKI MURAKAMI)
Ma, mentre nelle donne, la riduzione della risposta affettiva era modesta, negli uomini si registrava una vera e propria assenza di risposta per il dolore dell’attore scorretto.
Inoltre, sapere che l’attore scorretto stava provando dolore attivava negli uomini, e solo in loro, strutture cerebrali legate al rinforzo (in altre parole alla soddisfazione) tanto più forti quanto più alto era il desiderio di vendetta.
I risultati mostrano che, soprattutto nel sesso maschile, le risposte neurali empatiche sono modellate dalla valutazione del comportamento sociale altrui: si empatizza con un avversario onesto, ma si favorisce la punizione dell’avversario scorretto.
In conclusione
Riprendendo alcune riflessioni di C.G. Jung, proviamo domandarci: “Giunto alla fine dalla mia vita che cosa mi ritrovo tra le mani?”
Forse, un rimpianto, una vita “non vissuta”. Tutto questo, inevitabilmente porterà a accumulare rancore verso di noi, dentro di noi.
E, quindi, cari Lettori, forse la vita non può essere, in alcun modo, “pura rassegnazione e malinconica contemplazione del passato”.
È nostro compito cercare quel significato che ci permette ogni volta di continuare a vivere o, se preferisce, di riprendere, a ogni passo, il nostro cammino. Tutti siamo chiamati a portare a compimento la nostra vita meglio che possiamo. (C.G. jung)
Quale che siano i risultati raggiunti attraverso le moderne tecniche scientifiche, resta da valutare nella giusta maniera il forte condizionamento del modello imposto dai sistemi sociali che ha determinato le distinzioni comportamentali relativamente al sesso, la razza o l’appartenenza a gruppi aggregativi (religiosi, politici, sportivi, etc.).
Comunque sia, il messaggio che abbiamo voluto inviare attraverso il presente lavoro vuole essere quello di valorizzare al meglio le nostre capacità di capire le esigenze dell’altro, come passo fondamentale verso la legittima aspirazione di miglioramento delle proprie condizioni.
Cari Lettori, avviati al commiato e consapevoli del fatto che il più difficile non è il primo bacio, ma l’ultimo”, vorremmo salutarvi con una particolare poesia in musica che riprende la bella (e un po’ struggente) immagine di copertina
Parafrasando la grande affermazione di Dostoevskij, ci pare di non essere lontani dal vero se affermiamo che l’empatia salverà il mondo.
Sarà per te
E se il tempo passa, sarà per te… E se non è mai presto, sarà per te
Se ho sbagliato e ho riprovato sarà per te, Se quando sono solo ho paura, ho paura a stare con te
E se qualcosa resta, sarà per te; e se un sogno resta, sarà per te
Se adesso sto cercando di capirti fino in fondo, e non mi accorgo che rimango troppo solo in mezzo al mondo
Ma quando son sereno io non posso fare a meno di pensare, “Mamma mia, che fortuna che ci sia”
Sarà, sarà, sarà, sarà per te
Tutto quello che è stato sarà per te: adesso vieni fuori che io mica ti conosco
O forse lascia stare che mi sembra ancora presto
E se il cuore batte, sarà per te, e se mi sento forte, sarà per te
E adesso, nel silenzio, io ti prenderei per mano e, con un bacio raccontarti che mi manchi e mi manchi,
Sarà, sarà, sarà, sarà per te
Esiste, nel nostro Cervello, una zona che ci consente di sentire la sofferenza altrui. Esiste, nel nostro Cuore, la possibilità di trasmettere Amore. Il “trucco ” consiste nell’assorbire il dolore e restituire la gioia. E, la vita, può diventare bellissima.
Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo
Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”
Un sentito ringraziamento ad Amedeo Occhiuto per l’affettuosa disponibilità