Pubblicato su Lo SciacquaLingua
Il treno, fermo alla stazione del paesino, stava per partire; il capostazione aveva già dato il “fischio” quando, trafelato, giunse il padre di Armandino: “Tieni – disse al figliolo – ti ho portato molte marche, ti saranno utili non appena giungerai in caserma; potrai subito marcare visita e ottenere, probabilmente, un periodo di assoluto riposo; cosí la mamma sarà piú tranquilla, almeno temporaneamente”.
Non sapeva il padre – che non aveva servito la Patria, quando la leva militare era obbligatoria – che le marche non hanno nulla che vedere con l’espressione “marcare visita” che – nel gergo militare – significa “darsi malato”.
Una certa parentela con la “marca” – nell’accezione che tutti conosciamo – si può provare, però. Per farlo, occorre prendere il discorso alla lontana.
La marca, cioè il bollo che si applica sui documenti (un tempo si applicava sulla patente di guida, per esempio) per provare il relativo pagamento di una tassa e simili, viene dal tedesco “marka”, che significa “segno”. Il verbo marcare, vale a dire contrassegnare con marca, bollare, annotare, “segnare” viene, infatti dalla voce teutonica “marka”. Tornando, quindi, all’espressione “marcare visita” sembra che questa derivi dalla locuzione piemontese “marché a liber” (scrivere sul libro).
Coloro che all’epoca hanno svolto il servizio militare sanno che ogni mattina il caporale di giornata passava per le camerate con il registro sul quale annotava (‘marcava’,’segnava’) i nomi dei militari che chiedevano la visita medica. Marcare visita, per tanto, pur provenendo da un’espressione vernacolare piemontese, può avere – come dicevamo all’inizio – una certa parentela con il germanico “marka”.
A cura di Fausto Raso
Giornalista pubblicista, laureato in “Scienze della comunicazione” e specializzato in “Editoria e giornalismo” L’argomento della tesi è stato: “Problemi e dubbi grammaticali in testi del giornalismo multimediale contemporaneo”). Titolare della rubrica di lingua del “Giornale d’Italia” dal 1990 al 2002. Collabora con varie testate tra cui il periodico romano “Città mese” di cui è anche garante del lettore. Ha scritto, con Carlo Picozza, giornalista di “Repubblica”, il libro “Errori e Orrori. Per non essere piantati in Nasso dall’italiano”, con la presentazione di Lorenzo Del Boca, già presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, con la prefazione di Curzio Maltese, editorialista di “Repubblica” e con le illustrazioni di Massimo Bucchi, vignettista di “Repubblica”. Editore Gangemi – Roma.