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Luci, al neon, accese sempre. Suoni, cupi, costanti. Odori, forti, di sterilizzazione. Questa è una sala di rianimazione. E questo è l’ambiente in cui Pasquino (dal bellissimo film di Gigi Magni), alias, Saturnino Manfredi è stato costretto a vivere nell’ultimo periodo della sua intensa vita… professionale e non solo.

Che tormento deve essere stato, il non potere trasmettere quel suo modo “perfetto” di rendere accettabili anche le cose più tristi, che lo hanno reso famoso sugli schermi di chiunque possegga una connessione col mondo dell’informazione.

Conta prima la mimica, poi la parola: questo non lo insegna più nessuno

Gli occhi, quelli, sono rimasti vigili ed espressivi, come nelle sue migliori interpretazioni, fino all’ultimo, fino a quando non ha deciso che era arrivato il momento delle rimembranze, di “passare alla Storia”.

In grado di trovare da solo la formula del successo, è riuscito a diventare una multiforme “maschera” del nostro cinema e della nostra vita, grazie al suo impegno costante, nello studiare (era anche laureato in legge, oltre che diplomato all’Accademia di arte drammatica) e nel migliorarsi, senza peli sulla lingua.

Nino Manfredi è stato, assieme a Sordi, Tognazzi, Gassman e Mastroianni, un grande interprete della commedia all’italiana.

Noi lo apprezziamo tuttora in modo particolare perché nelle sue “maschere” troviamo qualcosa di più profondo che non sempre si riscontra negli altri. Senza offesa per nessuno, intendiamo dire che, nei suoi personaggi, il riso diviene sorriso e alla fine sorriso amaro sulla durezza della vita nei confronti di tanti sfortunati che cercano di sbarcare il lunario.

Cosa dice, per esempio, Pierpaolo Pasolini di Alberto Sordi?

“Ma di che specie è il riso che suscita Alberto Sordi? Pensateci bene un momento: è un riso di cui un po’ ci si vergogna. E il massimo di questo senso di vergogna viene raggiunto nella risata angosciosa e un po’ isterica che Sordi strappa al pubblico nei due episodi dei Magliari in cui vende la merce della povera ingenua gente tedesca, per di più colpita dal lutto. È vero che il «magliaro» è stata la più brutta interpretazione di Sordi: e non si capisce come egli sia così sfuggito di mano a un regista di buon gusto, anzi, di gusto raffinato, come è Rosi. Tuttavia, appunto perché è la più brutta, questa interpretazione può essere presa ad esempio, perché, nel suo eccesso, mostra con chiarezza l’intelaiatura della comicità di Sordi: è la comicità che nasce dall’attrito, con la variopinta e standardizzata società moderna, di un uomo il cui infantilismo anziché produrre ingenuità, candore, bontà, disponibilità, ha prodotto egoismo, vigliaccheria, opportunismo, crudeltà. È una deviazione dell’infantilismo”

Osserviamo, invece,  “Cafe’ Express” (1986), un film assai bello e amaro di Nanni Loy. In esso, Nino Manfredi fa la parte di Michele Abbagnano, un invalido napoletano di mezza età che per sopravvivere e mantenere il figlio in collegio si improvvisa venditore abusivo di caffè sulla tratta Vallo della Lucania – Napoli.

Viaggia clandestino in perenne guerra col personale delle ferrovie.

Manfredi delinea una figura d’uomo che, con le sue traversie ci proietta nelle amare contraddizioni del vivere. Il tutto, con il procedere di una leggerezza che, ben rappresentata, alla fine diventa profondità.

Personaggio complesso e multiforme, Nino. Manfredi è stato attore, regista, sceneggiatore, comico e cantante.

In ognuno di questi campi ha saputo trovare un accento tutto suo, come solamente capita agli autentici uomini di spettacolo.

Parecchi sono i film con Nino Manfredi che, rivisti, rivelano tuttora una grandissima freschezza ed efficacia.

Qualche titolo pescato nella memoria: “Audace colpo dei soliti ignoti; Operazione San Gennaro; Le avventure di Pinocchio; “Nell’anno del Signore; C’eravamo tanto amati; Pane e cioccolata; Brutti, sporchi e cattivi”.

Di quest’ultimo, magistralmente diretto da Ettore Scola, basti ricordare la trama che di per sé è abbastanza eloquente. In una baraccopoli romana vive una famiglia di 25 persone a cui fa capo Giacinto Mazzitella, la cui principale attività è difendere i soldi che ha ricevuto in seguito ad un incidente nel quale ha perduto un occhio.

In tutti questi film la maschera di Manfredi funziona in modo eccellente. La sua “comicità” non è monocorde e “ripetitiva”.

Non c’è in lui un collaudato cliché. Nino Manfredi entra nei vari personaggi in modo sempre nuovo e dispiega la sua bravura a 360 gradi. Assistiamo ad uno scavo profondo nella psicologia di chi interpreta e, di ognuno, sa mettere in evidenza la specifica irripetibilità.

È per questo motivo che, nella “commedia all’Italiana”, occupa (e merita) uno spazio autorevole tutto suo.

Parlando di Nino Manfredi, viene naturale fare qualche riferimento al riso e alla comicità necessari a valorizzare la sua recitazione

Sul “Riso”, un saggio basilare è stato scritto da Henry Bergson, nel 1900.

L’opera si presenta come riflessione sulla natura del riso e sulle cause che portano gli esseri umani a ridere.

Un concetto qui ci interessa particolarmente ed è questo: “Non vi è comicità al di fuori di ciò che è propriamente umano”.

Così, per talento e studio, si comporta il grande attore comico che è un osservatore acutissimo dei comportamenti umani.

Nino Manfredi, nel suo campo d’azione, è uno di questi.

Per ridere, bisogna rimanere spettatori e non provare empatia nei confronti di chi è di fronte a noi. Il riso è il riso di un gruppo: di una intera comunità.

Il vero attore comico ci “ruba” il riso con un procedimento che cogliamo a posteriori solo con la riflessione.

L’aspetto comico più immediato è che ridiamo quando siamo davanti all’avvertimento del contrario. Ma questo (come ci insegna Luigi Pirandello) é solo l’aspetto iniziale di un discorso molto più complesso e articolato.

Ad esempio, incontriamo una signora avanti negli anni vestita come una “avvenente mangiauomini” e, immediatamente, siamo portati a ridere di lei perché rappresentando l’esatto opposto di quel che sarebbe corretto che fosse, finiremmo per considerarla una “esibizionista narcisista”.

Eppure, se scoprissimo che all’origine del suo gesto ci fosse un disperato tentativo di riconquistare l’interesse sopito di un marito “distratto”, lo scherno si trasformerebbe, in noi, un sorriso di compassione.

E tutto questo perché, in un baleno, saremmo stati messi di fronte alla complessa conflittualità dell’animo umano.

“Dovete capire che la maggior parte delle persone che conoscete, vive nei propri sogni. Chiunque abbia un contatto qualsiasi con la realtà viene definito un idiota. Il significato vero che fu attribuito dagli antichi saggi a questo termine, era quello di essere se stessi. Un uomo che è se stesso sembra e si comporta come un matto, per coloro che vivono nel mondo delle illusioni. Chiunque decida di lavorare su se stesso è, quindi, un idiota agli occhi di chi si nasconde le verità” (G.I. Gurdjieff.)

A ben guardare, Nino Manfredi riesce, coi suoi personaggi, a compiere ogni volta questa autentica magia: nell’immediato ridiamo ma, poi, nello sviluppo la percezione del dolore e della sofferenza che albergano nell’animo umano prevale su ogni altra manifestazione emotiva: sunt lacrimae rerum.

Cari Lettori Fra i tanti personaggi interpretati, merita un segno preferenziale quello di Pasquino, da ciabattino a Cardinale “illuminato”, con inclinazione a fustigatore dei costumi morali, all’epoca della Roma Papalina.

I figli so’ diversi, e noi, invece d’esse’ contenti che non ce somigliano, li volemo fa’ diventa’ come noi che, poi, manco se piacemo.

Sensibile alle difficoltà delle persone meno fortunate (disabili psicofisici, etc.), si è dedicato alla realizzazione di pellicole in grado di costringere le coscienze “sorde” a capire che lavorare per aiutare anche gli altri, è segno di civiltà e dà più gusto alla quotidianità.

La guerra non va bene a nessuno, e senò la chiamavano pace.

“Saturnino”, etimologicamente significa “malinconico e riflessivo”, in quanto influenzato da influssi astrali che determinerebbero uno stato di crepuscolare meditazione.

Non è difficile immaginare il nostro “Nino” (che oggi avrebbe compiuto 102 anni) porsi domande del tipo: In un mondo teso, ossessivamente, alla ricerca della felicità ad ogni costo, c’è spazio per un “sano” rimpianto? È possibile che stati come malinconia o nostalgia debbano essere sempre l’anticamera della depressione? Non potrebbe significare, più propriamente, essere più “intensamente” vivi?

Lascia nel suo “La luce prodigiosa” il proprio testamento morale, interpretando la parte di un vecchio smemorato, forse Garcia Lorca scampato alle fucilazioni franchiste, nell’Andalusia del 1936.

Un atto riassuntivo, un ultimo pegno d’amore verso quel mondo di celluloide che ha dato un senso più vero a quel suo modo di essere… cosi “normale” nella propria eccezionalità.

Cari Lettori, si dice che la capacità di un amore “altruistico”, quella di gioire del piacere e di sopportare il sentimento di lutto, costituiscono l’anticamera della salute interiore.

E, allora, è forse per questo che, tra il nulla e l’addio c’è il posto del “non detto”, quello che, per esprimersi, cerca la via della preghiera affinché, il peso dell’assenza di colui che ci ha accompagnato come un Padre, possa essere alleggerito dal ricordo del nome, che diventa un esempio capace di guidare fra la Legge e il Desiderio,

“Nell’anno del Signore” è un film del 1969, scritto e diretto da Luigi Magni e basato su un fatto realmente accaduto: l’esecuzione capitale di due carbonari nella Roma papalina. È il primo della trilogia proseguita con “In nome del Papa Re” (1977) e “In nome del popolo sovrano” (1990);

In tutte queste tre opere d’arte, ricorre il tema del rapporto tra il popolo e l’aristocrazia romana con il potere pontificio, all’interno dei controversi sconvolgimenti del periodo  risorgimentale.

Cari Lettori, vorremmo accomiatarci, offrendo l’ascolto di un bellissimo brano del Maestro Armando Trovajoli, che guida l’opera di Luigi Magni, col titolo: tema di Giuditta.

La Bibbia racconta che Giuditta riesce a liberare la città di Betulla, uccidendo il Generale Oloferne e offrendo, in tal modo, una possibile idea di libertà dall’oppressore.

Allo stesso modo, l’ascolto di questa bellissima opera musicale, genera uno stato d’animo in cui si alternano tristezza e ribellione, perché la dolcezza della melodia ci trasmette l’immagine di un popolo disperato e tradito dai rappresentanti di quel Dio che dovrebbe incarnare, invece, l’emblema del Padre protettore e i cori e il “fischio” commuovono e inquietano al tempo stesso, impreziosendo  una pellicola indimenticabile

TEMA DI GIUDITTA

“- Cardinal Rivarola: Noi siamo sempre dalla parte giusta.

– Frate: Pure quando sbagliamo?

– Cardinal Rivarola: Soprattutto quando sbagliamo. È facile stare dalla parte giusta quando si ha ragione.”

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Letterato, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per la collaborazione offerta