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Essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che, se Dio esistesse, potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse una mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine, avrai da batterti per dimostrare che, dentro il tuo corpo liscio e rotondo, c’è un’intelligenza che urla d’essere ascoltata. (Oriana Fallaci)

Mimosa o non mimosa? Non è solo questo il problema.

La mimosa, con il suo acceso colore giallo e l’inconfondibile profumo, è il simbolo della Festa della Donna e, nel linguaggio dei fiori, indica forza e femminilità.

Originaria della Tasmania, deve il suo nome alla radice spagnola mimar, cioè accarezzare(termine che si collega alla sensibilità del mondo femminile). La mimosa in realtà è un’acacia (dal greco a-cacha, cioè senza negatività, candida) “dealbata”: cioè non bianca ma gialla. Il significato di questo nome, quindi, diventa un particolare ossimoro molto affine alla personalità femminile: candore non bianco.

Cari Lettori, l’intensa immagine di copertina (proposta già in un precedente editoriale) evoca quel bisogno insito in ogni bambino e che, da adulti, ci portiamo dentro: la speranza di un abbraccio che ci riporti (anche solo per un istante) nel posto più bello del mondo, nel momento più bello di sempre: il grembo materno, nei primi frammenti della nostra tormentata e travagliata esistenza, prima che la condanna alla Solitudine ci presenti il conto dell’angoscia e del lutto delle origini.

Nel 1970, Alberto Bevilacqua dirige “La Califfa”, estrapolato dal suo omonimo romanzo del 1964, ambientato in una ricca e spietata Parma degli anni sessanta e interpretato da Ugo Tognazzi e Romy Schneider

Annibale Doberdò, ex operaio divenuto il più importante industriale della città ritrova, in Irene Corsini (vedova di un operaio “caduto” nella lotta contro i padroni) quel filo di Arianna smarrito con l’aumentare del senso di potere sugli altri che, a poco a poco, ha attenuato la ricerca di una vita come “segno” di una “bella” presenza. Ritrova, allora, il piacere di “ricominciare” creando un modello di azienda, con la compartecipazione degli operai alla gestione, capace di divenire modello di Umanità e Parità, anche se con bassi (o nulli) margini di profitto. Consapevole di dover morire per mano di tutti coloro che non avrebbero mai accettato l’idea di una Società più giusta, sapendo di essere amato per la prima volta in vita sua da una donna che non fosse la propria madre, si offre al Martirio, pur di non tradire se stesso, una seconda volta.

Cari Lettori, ogni anno (di questi tempi) portiamo mimose e sangue: il sangue di tante donne che, nonostante l’impegno progressivo di associazioni, cittadini e istituzioni, lasciano la vita a causa di una tremenda violenza subita.

Panchine rosse e scarpe rosse sono osservate con amarezza, perché ci ricordano la nostra impotenza, il nostro non riuscire a innescare una vera inversione di tendenza.

Leggiamo con partecipata attenzione analisi qualificate di vario tipo ma, all’inizio di ogni marzo, a consuntivo ci troviamo nelle mani, purtroppo, un vuoto fallimento angoscioso.

Ci vuole tempo, provano a spiegarci: i comportamenti violenti, per esaurirsi, hanno bisogno di tempo.

Sarà così. Ma intanto studiamo operatività culturali e sociali per accelerare questo processo di “umanizzazione” in chi, di umano, non ha molto e lo dimostra ogni giorno.

Oppure è insita nell’immaturità del maschio, quella pretesa di restare sempre al centro dell’attenzione della “propria” donna. Quasi fosse una mamma paziente verso cui indirizzare la rabbia dei propri insuccessi, sapendo di essere perdonati sempre e comunque

Ci aspettiamo che la difesa di ogni donna (come Valore inestimabile), in una Società così scombussolatamente “borderline”, venga al primo posto nell’agenda politica e sociale.

E, ovviamente, la strategia dell’attenzione deve produrre effetti non solo nelle famiglie ma anche a livello giudiziario con la messa in campo di decisioni precise a tutela delle donne che vengono a trovarsi in situazioni di forte disagio e difficoltà.

Non bastano le quote rosa, non basta richiamare l’attenzione sulle donne che raggiungono posizioni apicali a livello culturale, scientifico, sociale e politico.

Perché, dietro questi successi, c’è una massa anonima che “nome” (molto spesso) non ha.

E noi, in quanto rappresentanti del genere umano (a prescindere dall’identità di genere) dobbiamo tutelare e proteggere le donne “normali” che incontriamo per strada, al lavoro, al supermarket. Immerse nei propri pensieri.

Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente. Hanno sempre dovuto portare due pesi, quello privato e quello sociale. Le donne sono la colonna vertebrale delle società. (Rita Levi-Montalcini)

Abbiamo, quindi, l’obbligo di “leggere” dietro uno stanco sorriso, l’inferno di un grande scontento.

Ci fanno compagnia certe lettera d’amore… Parole che restano con noi… E non andiamo via ma nascondiamo del dolore, che scivola: lo sentiremo poi. Siamo così… È difficile spiegare certe giornate amare, lascia stare… Tanto ci potrai trovare qui, con le nostre notti bianche… ma non saremo stanche neanche quando ti diremo ancora un altro sì (Fiorella Mannoia – Quello che le donne non dicono)

Cari Lettori, è (da tempo) arrivato il momento di guardare in faccia i problemi che ci circondano e, soprattutto, “sapere”. Per agire e far agire.

Essere tra i primi e sapere, scrive Montale nella “Lettera a Fadin“, anche se il perché di molto ci sfugge.

A volere essere seri e, soprattutto, onesti che la donna sia come l’uomo, lo sappiamo da millenni.

Ne “La Repubblica” di Platone, tanto per operare un riferimento illustre, leggiamo: “Non c’è alcuna pubblica funzione che sia riservata alla donna in quanto donna, o all’uomo in quanto uomo, ma tra i due sessi la natura ha distribuito equamente le attitudini, cosicché la donna appunto per la sua natura, può svolgere tutti gli stessi compiti che svolge l’uomo”.

In un altro passo di questa sua opera, Platone aggiunge: “Per quanto riguarda la preparazione di una donna alla difesa dello Stato, non si può mettere in atto una educazione per formare gli uomini e un’altra per formare le donne, soprattutto perché abbiamo a che fare con la medesima natura”.

Condividiamo in pieno l’affermazione dello Storico Mario Vegetti, a proposito di queste riflessioni platoniche: “Questa è la più radicale dichiarazione di eguaglianza di diritti e di doveri fra i sessi che l’antichità’ abbia mai formulato”.

Purtroppo, a distanza di più di due millenni dall’opera platonica, certe realtà mentali sono lungi dall’essere patrimonio dell’Umanità.

Ma la lotta (intesa come proposizione di idee) e l’impegno devono continuare.

Qualche decennio fa, una donna acuta e sensibile come Natalia Ginzburg, ha osservato: “Le donne non sono in realtà né migliori né peggiori degli uomini. Qualitativamente sono uguali. Io credo che gli uomini e le donne devono lottare insieme, gli uomini devono essere con le donne contro l’oppressione.”

Donna…

Se ci mettessimo a cercare il significato di questo termine, sui dizionari della lingua italiana, troveremmo che, la parola donna, deriva dal latino “domna”, forma sincopata di domina, cioè “padrona”. Padrone. Termine controverso e affascinante al tempo stesso, che identifica chi esercita il diritto del possesso su qualcosa o su qualcuno ma, anche, la capacità di gestire tutto quello di cui dispone, con la sicurezza di chi sa mettere le mani al posto giusto, come dentro le proprie tasche.

Divisa fra il bisogno di realizzarsi in una Società ostile e il piacere di donare tutta se stessa ad una nuova vita (quella del proprio figlio, magari), passando per la speranza di incontrare un principe azzurro gentile, educato, rispettoso, molto, troppo spesso, si è trovata a dover rivestire un caleidoscopio di ruoli, in affanno tra:

  • il volere ( o dovere) essere all’altezza delle performance operative maschili e delle  aspettative conseguenti;
  • il mostrarsi adeguata per ottenere il giusto riscontro in termini di accettazione;
  • il non rinunciare né alla comoda razionalità né, tantomeno, al proprio charme femminile;

Quando in una donna l’erotico e il tenero si mescolano, danno origine a un legame potente, quasi una fissazione. (Anaïs Nin)

Non di rado ci si imbatte in rimorsi e rimpianti, per una vita indirizzata verso luoghi troppo esposti a quel vento che attenua la fiamma che si chiama Amore e che, invece, richiede cura e attenzioni come un piccolo bonsai che, a dispetto delle assurde leggi degli uomini, vuole crescere e tendere le proprie “braccia” al cielo…

Alla base dell’amore, però, c’è il dialogo, fatto di comprensione, accettazione e (perché no?) un pizzico di ammirazione.

Proviamo a chiudere gli occhi e lasciamo andare il fluire dei pensieri, trasmigrandoli su carta, così come un flusso di elettroni potrebbe “impressionare” la pellicola, in una “camera a nebbia”, durante gli esperimenti di fisica delle particelle e proviamo ad immergerci nei pensieri magicamente espressi da Gianfranco Iannuzzo perché solo a cavallo di una memoria fra amore e tradizione, il maschio può aspirare a diventare, finalmente, un Uomo

Io ho amato la mia città, come si ama una donna: voltando spesso le spalle, sbattendo la porta prima di uscire ma… tornando, poi, sempre sui miei passi; perché ogni volta che tu torni indietro, riannodi, in un solo istante, tutti i fili di una memoria che, altrimenti, andrebbe perduta, e tu lo sai… che solo nella memoria si può conservare un Amore! Agrigento è la mia città. Ho imparato ad amarla crescendo, ascoltando i ricordi di chi c’era nato prima di me, di chi, a quel tempo, la chiamava con un altro nome: allora si chiamava Girgenti.

Questo nome è la sua memoria e, in questa memoria, sta tutto il mio amore; per questo, mi piace ancora chiamarla così: Girgenti.

Girgenti è il nome che non c’è più di una città che, invece, c’è ancora. Agrigento è solo un punto delle coordinate di una cartina geografica; Girgenti, invece, è l’incrocio obbligato dove passano tutte le mie emozioni; è gli stessi confini della mia anima, confini invisibili, ma incancellabili.

Per ognuno di noi è così: la città che ti porti dentro non ti abbandona, ti viene dietro.

Tutte le strade che percorri, ogni piazza che attraversi, sono le stesse strade, le stesse piazze e gli stessi angoli che hai già girato un’infinità di volte.

Ho amato la mia città come si ama la donna di cui sei innamorato; ma ho amato le città di tutti gli altri come si ama una donna che non ti appartiene, quella che non puoi avere, e che altri hanno il diritto di amare più di te.

Ma è guardando le loro città che mi sono accorto della mia; ho sentito che nelle città degli altri, c’erano gli stessi meravigliosi profumi, lo stesso tenace orgoglio di esserne figlio, la stessa eredità: passi, ombre, tracce, gesti, la stessa rabbia mescolata all’impotenza.

Perché, il sale del mio mare, brucia come il fiume di ciminiere in certe periferie metropolitane; il cuore arabo della mia Girgenti, ha gli stessi battiti di quello greco di Napoli; i vicoli delle mie città sono le stesse vene che disegnano i Carruggi di Genova; le pietre dei miei templi resistono immobili come le pacifiche Cattedrali di città toscane. E così, ho capito che non è la mia città quella che amo, ma la città che amano tutti gli altri… quella che sento dentro di me.

È una fitta ragnatela di emozioni che appartengono ad ognuno di noi. Palermo amore mio. Milano amore mio. Trieste amore mio. Napoli amore mio. Girgenti, già! Girgenti è la mia città!

E io mi chiedo, che cosa mai possa esserci di più mio, se non quello che mi accomuna a tutti gli altri. Per questo, la mia Girgenti, quella che amo, è sicuramente uguale alle vostre!

Mimosa o non mimosa?

Vengano pure le mimose o le rose, a patto che non siano ritualità ma un fermo impegno per lavorare giorno e notte affinché ogni donna possa scrivere la sua storia nel contesto sociale ed esercitare la libertà di volare nel modo che meglio le aggrada. Nel segno di quella Califfa che ha ricordato come si vive e si muore, con Dignità. Nel nome dell’Amore.

Enzo Ferraro – già Dirigente Scolastico, Umanista, Politologo

Giorgio Marchese – Direttore “La Strad@”

Un ringraziamento affettuoso ad Amedeo Occhiuto, per avere suggerito molti degli interessanti aforismi inseriti nell’articolo.

Cari Lettori, l’augurio, per noi “maschietti”, è quello di incontrare ciascuno, la propria “Califfa” in cui ritrovare quell’Amore e quella Forza che ci ha convinto a venire al mondo e che ci riscalderà in un cammino che non conoscerà parabole discendenti ma, al contrario, disegnerà una bellissima iperbole all’interno di una sceneggiatura esistenziale, simile a quella “musicata” da Ennio Morricone

Per far si che, i nostri genitori (ovunque siano), possano esclamare con orgoglio: “Quello è mio figlio!”

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