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Buongiorno, mi chiamo Gabriele Francesco. Sono nato a Novara l’11 aprile 2013 e oggi avrei un mese, se fossi ancora vivo. Invece sono morto lo stesso giorno in cui sono nato. Adesso, tutti starete pensando che mamma e papà non si sono comportati ben… in effetti mi hanno lasciato solo, sotto un cavalcavia, con indosso pochi stracci e senza un biberon nei paraggi. Ma io non mi permetto di giudicarli. Certo è, che noi neonati siamo indifesi: ci buttano dai ponti, ci fanno esplodere sotto le bombe, ci vendono per pochi soldi. Siamo carne da telegiornale. Prima di chiudere gli occhi, mi sono raggomitolato tra i rifiuti, per cercare conforto e ho pensato: “Ma è davvero così brutto questo Mondo, che sto già per lasciare?” Poi mi sono sentito sollevare e, sulla nuvola da cui vi scrivo, ho visto che la bellezza c’è ancora. C’è bellezza nel camionista che mi ha trovato e nell’ispettore che mi ha messo questo nome meraviglioso. Sapete, è importante avere un nome: significa che sei esistito davvero. C’è bellezza nei poliziotti che per il mio funerale hanno fatto una colletta a cui si sono uniti tutti, dai pompieri alle guardie forestali. E c’è, la bellezza, nella ditta di pompe funebri che ha detto: “Per il funerale non vogliamo un euro!”, così i soldi sono andati ai volontari che in ospedale aiutano i bimbi malati. Dove sono nato io, metteranno addirittura una targa. Allora non sono nato invano. Mi chiamo Gabriele Francesco, e ci sono ancora.( 6 maggio 2013)

Cari Lettori, dopo aver impattato con questo testo (pubblicato da Massimo Gramellini e pubblicato, per la sua forza emotiva, in altri articoli di questo magazine) come con un pugno nello stomaco, diventa veramente difficile qualsiasi commento. Però, attendendo il tempo sufficiente a digerire lo scombussolamento (frutto di un mix condito da senso di impotenza, rabbia, rimorsi, rimpianti e sensi di colpa), possiamo osservare, come il sole che, ad Est, fa capolino ogni giorno da che Mondo è Mondo, il trasudare (attraverso i comportamenti dei vari protagonisti) delle diverse declinazioni del termine ONORE.

La sua radice latina, ha lo stesso tema di un’altra parola, a rischio di estinzione: ONESTO.

Ed ecco che, magicamente, ci caliamo in un ambito antico, dove una stretta di mano valeva più di un contratto scritto e l’aspirazione delle “belle” persone, consisteva nella ricerca di una buona reputazione acquistata con l’onestà e, soprattutto, col merito. Per ottenere rispettabilità, vanto e gloria

Accade spesso, nella foschia delle dispersioni esistenziali, di lamentarsi del fatto che non ci si sente capiti, compresi, accettati o, addirittura, di non avere libertà d’azione. In virtù di ciò, aumenta il disturbo legato al disadattamento. Sociale e personale.

Perché accade, quel che accade?

Perché, evidentemente, non riusciamo ad essere rispettati. Nè, a rispettare, però. Cioè: non riusciamo ad avere dagli altri quella considerazione e quel riguardo, né a darlo agli altri molte volte, che ci consentano di esercitare una certa libertà d’azione ma, al tempo stesso, forse senza accorgercene, ci comportiamo in maniera similare.

Quindi, è necessario conoscere i confini e i limiti di questa libertà d’azione, per evitare di fare agli altri, “quello che, non vorremmo, venisse fatto a noi”.

Un riferimento importante è, qppunto, quello dell’onorabilità, cioè dell’ossequio di regole che connotino l’appartenenza ad una condizione di adeguamento e adattamento alle virtù, intese come criteri di correttezza, onestà e, quindi, rispettabilità.

Ci sono due strade per arrivare all’onorabilità: una è l’orgoglio e l’altra è la dignità. Vedremo, nel prosieguo, qual è la differenza.

Quali sono le cose da cui si cerca di fuggire?

Tutti quegli elementi che non comprendi bene ma che intuisci essere lì per confonderti, per annebbiarti e per rendere più difficile il cammino che dia un senso a ciò che fai. E allora… lo ha detto Seneca, lo ha ripetuto Sant’Agostino, lo viviamo ogni giorno: è inutile che te ne vai in giro a contemplare vallate sotto le stelle e ad ammirare paesaggi quando, la vera libertà la puoi determinare soltanto all’interno di te, per apprezzare, in seconda battuta, tutto quello che la Natura ti offre.

Se non riesci a modificare quegli aspetti del tuo carattere che, per come hai imparato a vivere, ti rendono difficile il comprendere e l’esercitare la libertà di azione, anche nel rispetto di quelle regole che ti collocano sulla giusta traiettoria per raggiungere gli obiettivi sensibili, non sarai in grado di poter ottenere quello che ti aspetti e correrai in maniera ossessiva alla ricerca di qualcosa che il mondo esterno non ti può dare. Siccome lo pretenderai lo stesso, finirai per accettare le stesse condizione del disperato che si rivolge all’usuraio, perdendo dignità, rispettabilità e onore.

MEN OF HONOR (“I dodici passi”)

Comandante Hanks ho passato la mia vita in marina con l’unico desiderio di realizzarmi, un desiderio però che è costato gravi rinunce da parte dei miei cari: anche loro hanno affrontato sacrifici, anche loro hanno sofferto molto per aiutarmi … Se faccio quei 12 passi richiesti reintegratemi in servizio permanente, ridatemi il mio lavoro perché lo porti a termine e torni a casa in pace.

Senta, Capo Brashear, il mestiere di un moderno marinaio …

Mi perdoni Signore! Per me la Marina non rappresenta un mestiere; le sue lunghe tradizioni durante la mia carriera le ho seguite dalla prima all’ultima … le buone e le cattive. Ma certo non sarei qui, oggi, se non fosse per quella più grande di tutte …

E cioè? Quale?

… l’onore, Signore!

Proceda pure Capo Brashear.

Palombaro, in piedi! … Aggiusta il carico e avvicinati! … Uno! Due! Tre! Quattro! Cinque! Sei! Sette! Otto! ...

Signori, la gamba … Vi prego! … Signore … … Palombaro, basta così …!

Palombaro! Continuare …

Ammiraglio …

… Questo è il mio ordine! … Dannazione culo nero, muovi le chiappe! Li voglio tutti e dodici!

Nove! Il palombaro non è un combattente: è un esperto in ricerca e soccorso!

Dieci! Riporta su quello che è affondato, ritrova quello che si è perso in mare, toglie di mezzo quello che è di intralcio!

Undici! Se è fortunato muore giovane 70 metri sotto il pelo dell’acqua perché così soltanto può aspirare a diventare un eroe! Non capisco perché uno voglia fare il palombaro! Avanza fino alla linea culo nero! … Riposo.

Assistenti, sganciare la calotta!

È con orgoglio che la Marina degli Stati Uniti d’America restituisce il sottoufficiale palombaro Carl Brashear al servizio permanente effettivo!

Men of honor è un film del 2000 diretto da George Tillman Jr. e ispirato alla vera storia di Carl Brashear che fu il primo marinaio afroamericano ad ottenere l’abilitazione al servizio di palombaro e a divenire, nel 1970, Primo capo palombaro della marina militare statunitense.

Carl Brashear, figlio di un bracciante, va via da casa per entrare in Marina. Gli insegnamenti del padre, però, non verranno mai dimenticati: entrato nella scuola per palombari dovrà fare i conti con il suo superiore (interpretato da Robert de Niro) che non accetta l’idea di consentire ad una persona di colore la possibilità di diventare palombaro e lo sottopone a prove al di là di ogni sopportazione. Viste le enormi qualità morali di Carl, nasce fra i due un’amicizia tanto profonda da superare tutto. A seguito di alcune vicissitudini, durante un recupero in mare di un ordigno nucleare verso la fine degli anni 60, Brashear subisce l’amputazione della gamba sinistra.

Determinato a continuare, contro aspettativa, si allena e dimostra, agli occhi di chi doveva giudicarlo, di avere le capacità per resistere al dolore che si prova a camminare con un pesantissimo scafandro di rame, ingombrante, con scarsa capacità di ventilazione e, quindi, di respirazione: condizione indispensabile per riavere l’abilitazione a riprendere l’attività di Palombaro della Marina degli Stati Uniti d’America.

Grazie alla sua caparbietà, che ne mette in evidenza il rispetto del termine “onore”, determinazione, viene riabilitato in marina diventando, così il primo uomo handicappato, in servizio militare permanente.

Se non credessimo vera un’affermazione del genere, allora non varrebbe la pena impegnarsi verso obiettivi che, presumibilmente, non riusciremo a raggiungere. Nelle Sacre Scritture, viene spiegata l’avventura di Mosè, a cui Dio affida la liberazione del popolo ebraico. Dopo aver superato ostacoli apparentemente insormontabili e all’indomani di una lunga permanenza nel deserto (affrontando fame e sete), riesce nell’intento di condurre il suo popolo in Transgiordania meridionale e da qui, sul Monte Nebo. In vista della “Terra Promessa, Mosè muore senza poterla raggiungere. Così gli era stato spiegato: questa era la volontà di Dio.

Ebbene, se Mosè, non avesse trovato onorevole questo obiettivo, che senso avrebbe avuto faticare tanto per poi non arrivare?

Siccome noi, spesso, non veniamo cresciuti con questo tipo di valori ecco che, quando ci troviamo di fronte ad obiettivi il cui raggiungimento è dubbio, non abbiamo motivazione neanche a provarci perché vogliamo andare a colpo sicuro. Se poi aggiungiamo che, per presunzione negativa vogliamo tutto e subito, ecco che rinunciamo alla partita ancor prima che l’arbitro dia il fischio di inizio: perché riteniamo più onorevole evitare di far vedere che non eravamo all’altezza. E questo è un errore, perché possiamo ingannare gli altri ma non noi.

Meglio provarci, per non avere rimpianti, in maniera che, quando arriva il momento di lasciare posto agli altri, si possa dire: “Rifarei tutto, migliorandolo con l’esperienza acquisita!”

In pratica, questo aforisma richiama l’invito ad evitare l’errore di:

  • bloccare le reazioni emotive di fronte a tutto quello che sconvolge, per la sua bellezza o, anche per la durezza; anche quando si imboccata la via dell’ascetismo;
  • dimenticare il piacere della “leggerezza” che si prova nell’aprirsi alla letizia, anche nel momento in cui si affrontano tematiche impegnative;
  • non riconoscere il valore altrui, di fronte al quale, deporre le armi ed iniziare a dialogare.

Riprendiamo, per un attimo, il concetto di onorabilità e di onore, cioè di quel sentimento che ci porta ad aver cura del nostro buon nome ed è testimonianza di onestà e correttezza. Il fatto è che il parametro di riferimento di questo valore può essere inteso rispetto solo a ciò che pensano gli altri, oppure anche a ciò che risulta essere vero, dopo attente valutazione. È questo ciò che fa, realmente, la differenza fra orgoglio e dignità.

Cioè?

“La dignità non consiste nel possedere onori, ma nella coscienza di meritarli” (Aristotele). 

Il rispetto che gli altri mostrano nei nostri confronti, attiva il meccanismo dell’orgoglio. Il rispetto che portiamo nei nostri confronti, per ciò che sappiamo di valere (a prescindere dal giudizio altrui), riguarda la dignità e pone le basi per una corretta e solida autostima.

Facciamo un esempio

Potremmo cedere a compromessi e azioni poco edificanti: nel caso in cui nessuno ne fosse a conoscenza, manterremmo intatto l’orgoglio. Al contrario, nelle medesime condizioni, la dignità sarebbe profondamente incrinata, perché riguarderebbe il nostro rapporto allo specchio. Ancora, se per amore, subissimo dei torti, ad andare in crisi sarebbe l’orgoglio e non la dignità. Se, invece, accadesse una cosa simile per biechi interessi, allora anche la dignità resterebbe coinvolta, in senso negativo. 

L’orgoglio è una bestia feroce che vive nelle caverne e nei deserti; la dignità, invece, è quella guardia del corpo che ti impedisce di bruciare la tua integrità”. (Anonimo)

Quando, l’orgoglio, può definirsi positivo e quando, invece, negativo?

È corretto, ad esempio, sentirsi fieri di appartenere a quella cerchia di esseri umani integri e puliti, dal punto di vista dei valori importanti. In tal senso, non guasterebbe “abbeverarci” alla fonte della cultura orientale e giapponese, in particolare. Apprezzeremmo, così, fra l’altro, l’orgoglio e la dignità del sentire che il nostro lavoro, qualunque esso sia (a parte quelli disonesti, è ovvio), è utile in quanto anello di una catena senza cui i risultati in termini di ricaduta sul sociale, tarderebbero ad arrivare.

Al contrario, l’orgoglio è negativo quando si scade nella boria e nell’arroganza perché, tra l’altro, ciò starebbe ad evidenziare, oltre una maleducazione di fondo, anche un’autostima costruita con la paglia, anziché coi mattoni.

Si può mantenere la propria dignità anche quando di fronte abbiamo persone scorrette e arroganti che vorrebbero imporci il proprio modo di essere?

“A volte è difficile fare la scelta giusta perché o sei roso dai morsi della coscienza o da quelli della fame” (Totò). Dipende, in sostanza, da quanto ci siamo compromessi, con noi o con gli altri.

WE WERE SOLDIERS (Fino all’ultimo uomo)- Discorso all’esercito.

Guardatevi intorno! È il settimo cavalleria: abbiamo un Capitano che viene dall’Ucraina, un altro da Porto Rico, abbiamo Giapponesi, Cinesi, Neri, Latinoamericani, Indiani Cherokee, Israeliti e Gentili: tutti Americani! Qui, negli Stati Uniti qualcuno di questa Unità, forse è discriminato per ragioni di razza e di religione. Ma questo per tutti noi ora non conta più. Ora stiamo partendo per la valle oscura della morte dove guarderete le spalle all’uomo che vi sta accanto, come lui guarderà le vostre, senza badare al colore della pelle o con quale nome chiamate Dio. Lasciamo la nostra famiglia; ma noi andiamo dove Famiglia ha il suo vero significato.

Quindi, vediamo di capire la situazione: ci troveremo a combattere contro un nemico forte e determinato a vincere! Non vi posso garantire che vi riporterò tutti vivi a casa, ma giuro solennemente, davanti a voi e a Dio onnipotente, che al momento di combattere, io sarò il primo a scendere sul campo di battaglia e sarò l’ultimo ad abbandonarlo … e non mi lascerò nessuno di voi alle spalle! Vivi o morti vi giuro, ritorneremo tutti insieme a casa … e che Dio mi aiuti!

“We Were Soldiers – Fino all’ultimo uomo è un film del 2002 diretto da Randall Wallace, e si rifà alla Battaglia di La Drang, tra le forze americane e l’esercito popolare vietnamita. Il comandante del 1º Battaglione del 7º Reggimento Cavalleria, 1ª Divisione Cavalleria (Aeromobile), Hal G. Moore (interpretato da Mel Gibson), è un ufficiale di lunga esperienza militare che, con le sue truppe, si accinge a combattere per la prima volta in Vietnam. Il film illustra, dapprima, l’addestramento dei soldati e, successivamente, il trasferimento sul teatro degli scontri, in particolare nella valle del fiume in secca La Drang.

Durante l’ultima notte trascorsa a Fort Benning, dove gli ufficiali si sono trasferiti con le proprie famiglie prima della partenza, viene celebrata una festa a cui partecipano i vertici militari. In questo frangente, Moore scopre da un suo superiore che la sua unità è stata rinominata 1º Battaglione del 7º Reggimento Cavalleria: lo stesso del Generale Custer (massacrato dagli Indiani, a Little Big Horn). Inoltre, siccome il presidente Lyndon B. Johnson non aveva dichiarato lo stato d’emergenza nazionale, il battaglione di Moore sarebbe stato ridotto dei suoi soldati più anziani e meglio addestrati, circa il 25% del suo organico.

L’azione passa dunque alla battaglia, e mostra con cura l’organizzazione delle forze vietnamite e il loro capo che, dall’interno un bunker sotterraneo, dà gli ordini e coordina i movimenti della sua divisione, circa 4000 uomini. La fine delle ostilità, durate tre giorni, sembrerebbe suggerire che gli Stati Uniti abbiano vinto la battaglia; in realtà non fu cosi, poiché nessuna delle due parti raggiunse pienamente il proprio obiettivo e gli scontri si conclusero sostanzialmente con una situazione di stallo.Le inquadrature enfatizzano notevolmente la scena finale della battaglia, dove Moore (come promesso), oltre ad essere stato il primo a scendere dall’elicottero prima della battaglia, è l’ultimo che stacca i piedi da terra, una volta assicuratosi che tutti i suoi soldati, vivi o morti, siano sugli elicotteri per tornare a casa” (Fonte Wikipedia)

La dignità è una delle unità di misura che più di altre, calcola quanto meritiamo di essere rispettati, ai nostri occhi. Questo, per avere la netta percezione di potersi liberare dalla schiavitù dei compromessi, della vigliaccheria e dei “facili opportunismi”.

La ponderosità dell’obiettivo, potrebbe creare fratture motivazionali?

Quanto tempo impiegherò a guarire? Se devo risolvere tutti i miei problemi, prima di apprezzare un vantaggio reale, passerà troppo e io sto male! Come farò nel mentre?”

Queste sono le domande più frequenti che mi vengono rivolte, nella veste di Psicoterapeuta. La risposta è, oggettivamente e immediatamente, logica: non serve, per riuscire a star meglio, che tu aspetti di risolvere tutto quello che c’è da fare. È importante avere la percezione che ti stia dando da fare!

Invero, modificare il proprio modo di pensare (e, quindi, di essere) è estremamente difficile. Per ottenere un cambiamento riguardo alle proprie disposizioni caratteriali, bisogna attraversare almeno 4 momenti cruciali, di cui uno è il più difficile degli altri tre.

  1. La scoperta. Si determina nel caso che qualcuno (uno specialista della mente, un amico competente, o altri di pari livello) aiuti a puntare l’attenzione su aspetti caratteriali “controproducenti”.
  2. La consapevolizzazione. È la fase in cui ci si rende conto, “ad occhi aperti” (consapevolmente, cioè) di quello che è stato indicato nel punto precedente.
  3. L’accettazione. Rappresenta Il momento più difficile perché, solitamente, si pensa che sia l’equivalente della rassegnazione. Invece è prodromico, indispensabilmente, per pensare di ottenere qualsiasi risultato positivo. Accettare l’idea di essere portatore di una determinata problematica e, senza opporsi né, soprattutto vittimizzarsi, spinge a cercare (o a farsela spiegare) una soluzione.
  4. Il cambiamento. Ultimo punto del percorso. Avviene come risultato di una serie di riflessioni che hanno rimesso in discussione il proprio modo di essere. Di conseguenza, come per magia, si appalesa “spontaneamente” (inconsapevolmente, cioè). Quando l’impegno precedente è stato intenso e i risultati si sono mostrati adeguati, sì è in grado di concludere: “Ne è valsa la pena!” – e soprattutto – “Molti hanno contribuito a fare, per me più di quanto io, nell’intera mia esistenza, potrò restituire. Ma, comunque, me lo sono meritato!”

SALVATE IL SOLDATO RYAN – “Merita tutto questo, James!”

Sono i cacciacarri, Signore. I P51

Oh! Angeli sulle nostre spalle.

Cosa, Signore?

James, meritatelo! Meritatelo!

Mia cara Signora Ryan, è con il più profondo senso di gioia che le scrivo per informarla che suo figlio, il soldato James Ryan, sta bene e in questo preciso istante è in viaggio verso casa dai campi di battaglia Europei. I rapporti dal fronte indicano che James ha compiuto il suo dovere in battaglia con grande coraggio e costante dedizione, anche dopo essere stato informato della tragica perdita subìta dalla sua famiglia, in questa grande campagna per liberare il mondo dalla tirannia e dall’oppressione. Con immenso piacere mi unisco al Segretario alla Difesa, all’Esercito degli Stati Uniti e ai cittadini di una Nazione grata, nell’augurarle buona salute e molti anni di felicità con James al suo fianco. Nulla, neanche il ritorno di un amato figliolo sano e salvo, può compensare lei e le migliaia di famiglie americane che hanno subìto gravi perdite in questa tragica guerra. Vorrei condividere con lei alcune parole che mi hanno sostenuto nelle lunghe, buie notti di pericolo, di perdite e di accoramento. Le cito: “Prego che il Padre Celeste, possa mitigare l’angoscia del vostro cordoglio e vi lasci solo il ricordo meraviglioso degli amati defunti e, al contempo, la solenne fierezza che vi deriva dall’aver deposto un così costoso sacrificio sull’Altare della libertà”. (Abramo Lincoln.) Con grande deferenza e rispetto. George See Marshall, Generale Capo di Stato Maggiore.

“C’è la mia famiglia con me, oggi. Ha voluto accompagnarmi. Ad essere sincero con lei, non sapevo che cosa avrei provato a ritornare qui. Ogni giorno penso alle parole che lei mi ha detto quel giorno sul ponte. Ho cercato di vivere la mia vita nel migliore dei modi: spero che sia bastato … Spero che, almeno ai suoi occhi, mi sia meritato quello che tutti avete fatto per me”.

Questa si chiama “riconoscenza”.

Ognuno di noi, come si diceva prima, riceve dall’altro. E questa è una dinamica indissolubile perché, è grazie all’interscambio che, un sistema, si può reggere in piedi. In pochi, però, ci rendiamo conto di quello che riceviamo e, soprattutto, in quali condizioni di difficoltà, l’altro ce lo concede. Avere una visione chiara su questo, significa custodire in tasca, la prova dell’avvenuta maturazione. Conquistata con Onore e Amore.

Buona vita a tutti. Siamone degni!

QUESTO ARTICOLO NASCE DA UNA PUNTATA DELLA SERIE TELEVISIVA “MENTE E DINTORNI”

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