Capire il Passato, per anticipare il Futuro. Senza perdersi il Presente.
Questo articolo è stato pubblicato, sotto forma di dialogo, per la prima volta, il 10 Aprile 2006. L’argomento, invero, viene trattato in molti testi da vari autori e, su Internet, c’è una consistente bibliografia. Però, secondo l’obiettivo del “chiaro, breve e semplice” (pur considerando la complessità della tematica) si è pensato di parlarne in maniera comprensibile anche per i non addetti ai lavori. Non si poteva non riproporlo, con gli aggiornamenti legati alle scoperte che la scienza, ogni giorno, ci propone.
BUONA LETTURA
Caro Dottore, vorrei farle qualche domanda sulla psicogenealogia, di cui ho letto recentemente su una rivista di psicologia e, secondo la quale, il nostro destino sarebbe condizionato dalle esperienze di vita dei nostri antenati.
Va bene. È un discorso interessante con molti risvolti applicativi e sorprendenti.
Innanzitutto, si parla di condizionamenti derivanti da una sorta di memoria “inconscia” nella quale sarebbero racchiuse le esperienze vissute dai nostri avi.
Si, in un certo qual modo, è vero.
Allora, visto che le nostre scelte sono condizionate dai nostri apprendimenti, posso capire i condizionamenti derivanti da ciò che abbiamo visto o sentito dai nostri genitori e dai parenti, ma come è possibile affermare che le nostre vite siano condizionate da eventi accaduti a persone di cui noi non abbiamo mai saputo nulla? C’entra per caso il famoso “inconscio collettivo” di cui parla Carl Gustav Jung?
Anzitutto, qualche considerazione per capire chi era Jung. Nato in Svizzera, a Kesswil il 26 luglio 1875 e morto a Kuesnacht (vicino Zurigo) il 6 giugno 1961, figlio di un pastore protestante, fu allievo di Freud, da cui si distaccò per il rifiuto di credere che, al centro del comportamento psichico degli esseri viventi vi sia l’istinto sessuale. Nella concezione junghiana dell’uomo, il tratto caratteristico più importante è la combinazione della “casualità” con la “teleologia” (dottrina filosofica, che concepisce l’esistenza della finalità di un’azione, anche nei comportamenti involontari e inconsapevoli). Il comportamento dell’uomo non è condizionato soltanto dalla sua storia individuale e di appartenente alla razza umana (casualità), ma anche dai suoi fini e dalle sue aspirazioni (teleologia). Sia il passato (come realtà che si è determinata), sia il futuro (come potenzialità non ancora espressa), guidano il nostro modo di agire dell’oggi. Jung sostiene che entrambi le posizioni siano necessarie, in psicologia, per giungere a capire perfettamente la personalità. Per tornare alla sua domanda, dobbiamo rifarci, per un momento, al concetto di simbolo e di archetipo .
Come ha detto, scusi?
Non si impressioni. Tutto può essere reso semplice, quando l’obiettivo è quello di capire, per arrivare ad un conclusione degna di nota.
Meno male…
Il simbolo, svolge una funzione di mediazione fra la parte più inconscia e quella più percepibile. Una sorta di “oggetto codice”, che vuol significare qualcosa, al di là del semplice apparire in quanto tale. In parole povere, costituisce un qualcosa che induce a leggere “fra la righe”. Ogni cosa, in teoria, può funzionare da simbolo ma, alcuni di loro, hanno una ricorrenza universale, che rimanda all’esistenza di quelli che Jung chiama archetipi , cioè letteralmente modelli. Gli archetipi sono germi di potenzialità in grado di riprodurre (in maniera virtuale) esperienze compiute dall’umanità nello sviluppo della coscienza, trasmesse ereditariamente e rappresentanti una sorta di memoria dell’umanità, sedimentata in un inconscio collettivo, presente in tutti i popoli, senza alcuna distinzione di luogo e di tempo. In pratica, potremmo dire che, più o meno, il simbolo identifica e interpreta dei valori insiti in ciò che un vasto gruppo intende (grazie all’inconscio collettivo) come fondamentali e imprescindibili dalla propria Natura (archetipo). Giusto per fare un esempio, se riteniamo (ed è probabile) che in ogni persona sia insito (archetipicamente) il bisogno di libertà, possiamo esprimerlo attraverso la rappresentazione di un gabbiano, magari Jonathan Livingston (il simbolo).
“La mia vita è la storia di un’autorealizzazione dell’inconscio” (C. G. Jung).
Quale sarebbe, in concreto, l’utilità di andare a cercare informazioni sui nostri antenati, per ricostruire la propria storia familiare?
Conoscendo l’ambiente di provenienza, saremo in grado di renderci conto dei pacchetti di informazioni (modelli culturali, tradizioni, valori, riferimenti etc.) tramandati a livello generazionale che influenzeranno, più o meno direttamente, il nostro modo di essere, costituendo una specie di memoria familiare inconscia: l’evoluzione del concetto di inconscio collettivo e di subpersonalità.
Cioè?
Partiamo dal termine subpersonalità. Con tale espressione intendiamo il diverso modo di esprimersi, nelle varie circostanze “importanti”, in funzione degli algoritmi di base (in informatica, successione di informazioni sequenzializzata in ordine logico e finalizzata ad un risultato), sul piano educativo.
Che vuol dire?
L’ambiente di origine rappresenta una fonte di trasmissione di messaggi che incideranno una traccia nel DNA delle nostre cellule, influenzando il loro comportamento circa la modalità di captazione ed elaborazione dati (a livello di spin, lunghezza d’onda e frequenza, delle particella sub atomiche) che costituiranno le caratteristiche del nostro modo di essere: l’umore di base, insomma. Tutto questo si manifesta in base alle sollecitazioni del momento, ovviamente in maniera inversamente proporzionale alla solidità della propria identità.
Cosa s’intende per “inconscio familiare”?
Se intendiamo la memoria come un deposito di informazioni sotto forma di particelle, anche subliminali, trasmesse come parte di sé anche in maniera indiretta, che ci consente di costruire archivi in grado di determinare una personalità individuale, concluderemo che tutto ciò sarà in grado di influenzare i propri elaborati di pensiero. L’inconscio familiare, rappresenta quella linea guida fatta di elementi in comune, tramandati di generazione in generazione che costituisce una sorta di retroterra culturale identificativo.
Ma com’è possibile che alcune caratteristiche vengano evidenziate anche dopo alcuni salti generazionali? Ad esempio, non di padre in figlio ma, ad esempio, da nonno a nipote?
Con un meccanismo simile a quello dalla trasmissione genetica per i caratteri organici. A volte un gene recessivo riesce ad “esprimere ciò che ha da dire”, dopo qualche linea di discendenza, quando non interverranno geni dominanti che verranno letti (dall’RNA, che stimolerà la produzione di proteine corrispondenti a quel “codice”), prioritariamente.
Anche sul piano psicologico? Mi sembra un discorso un po’ difficile da seguire.
Meno di quanto lei creda. Mi spiego meglio. Lei ha mai trasferito immagini da un telefono cellulare ad un altro, via bluetooth?
Si, ma non vedo il nesso…
Lo scopo principale della nascita della tecnologia bluetooth risiede nella capacità di far dialogare e interagire fra loro dispositivi diversi (telefoni, stampanti, computer, elettrodomestici, etc.) senza la necessità di collegamenti via cavo. Il sistema prende il nome di Wireless e si riferisce a una tipologia di comunicazione in cui, appunto, i segnali viaggiano nello spazio e non su fili o cavi di trasmissione. In un sistema siffatto, la trasmissione avviene principalmente via radiofrequenza (RF). Wireless consente in un ufficio, in una casa, o altrove di far dialogare tra loro tutti i dispositivi elettronici presenti. Lo scambio di informazioni fra gli strumenti avviene attraverso onde radio, eliminando qualsiasi tipo di connessione fisica tra dispositivi. Tutte le apparecchiature bluetooth predisposte in un ambiente di lavoro sono nella condizione di generare piccoli network ( reti) senza fili, cioè un’interconnessione di comunicazioni dati, usando un ricetrasmettitore che opera nella frequenza di 2,4 GHz.
E quindi?
Le informazioni fra esseri umani seguono percorsi non tanto dissimili e si allocano, viaggiando attraverso le vie nervose periferiche e venendo rielaborati in zone specifiche della corteccia cerebrale. Questo, determina, attraverso vari meccanismi (Metilazione della citosina, modificazione degli Istoni, inattivazione del Cromosoma X, Silenziamento genico, etc.) una modificazione nella lettura dei geni grazie ad un effetto che si definisce epigenetico e che fa si che, a volte, non tutte le informazioni memorizzate si esprimano come fenotipo (in maniera evidente) ma rimangano fondamentalmente genotipiche (allo stato potenziale) magari rese silenti da apprendimenti di altre figure di riferimento, assenti in successive generazioni. Le informazioni, comunque, vengono trasmesse, a prescindere dalla loro manifestazione evidente. È così che si trasmettono le tradizioni e i comportamenti di base.
Non ho mai sentito che un uomo intelligente sia mai nato da una famiglia completamente stupida (Thomas Carlyle ).
Ma, allora, noi, alla nascita, abbiamo già delle conoscenze di base?
Certo, di tipo inconsapevole. Quelle che l’ambiente trasmette durante i nove mesi intrauterini. Comunque costituirebbero solo l’inizio, anche se già in grado, comunque, di influenzare il successivo meccanismo di apprendimento.
Un figlio adottivo, quanta assorbirà dalla nuova famiglia e quanto, invece, risulterà condizionato dalla vita condotta precedentemente?
È una domanda troppo articolata per riuscire a fornirle una risposta univoca. Dipende da tanti fattori. Età del bambino, ambiente in cui è vissuto fino al momento dell’adozione, autorevolezza della nuova famiglia, etc. Comunque, siccome il carattere di un individuo si forma in base alle esperienze che” plasmano” frequenza e lunghezza d’onda delle microparticelle della psiche umana, possiamo concludere che un figlio, naturale o meno, rappresenti una nostra traccia di memoria nel cammino evolutivo.
Come mai?
Perché saremo “dentro” di lui, nei suoi ricordi più intimi, per sempre.
Quando comincia la vita?
Ho già affrontato questo argomento un po’ di tempo fa. Non guasta ritornarci su. La vita, in quanto tale, inizia ancor prima dell’essere umano. Basti pensare al fatto che sia lo spermatozoo che l’ovulo sono dotati di un codice genetico dentro il quale, esiste la “base” di una vita organizzata grazie alle informazioni generate e trasmesse dalle particelle sub atomiche. Quando lo spermatozoo feconda l’ovulo, nello zigote che ne risulta, saranno contenute tutte le informazioni di base (che andranno attivate e arricchite) che governeranno l’andamento delle cose, dal punto di vista biofisico, per tutto l’arco dell’esistenza.
Per la psiche, come la mettiamo?
Nei codici genetici genitoriali, sono contenute anche le informazioni psichiche: alcuni neuroscienziati sostengono che le informazioni genetiche creino la base indifferenziata della personalità, su cui l’ambiente inciderà in maniera sostanziale; altri ricercatori sono convinti, invece, che nel DNA siano contenuti gli schemi comportamentali, che si attivano a seconda delle stimolazioni esterne. Come ho avuto di esprimermi in altre occasioni e in altre pubblicazioni, credo che si possano conciliare i due opposti estremismi, in questo modo:
La strutturazione anatomica di un essere umano, è il risultato di informazioni contenute nel DNA di ogni singola cellula;
Le strategie operative cellulari finalizzate alla propria sopravvivenza, sono sostenute prettamente dalla via genetica ereditaria (ogni cellula staminale, per esempio, sa come deve sopravvivere, fin da subito); quelle orientate alle operazioni funzionali pertinenti alle proprie competenze, pur sostenute da una base genetica, vengono condizionate dagli apprendimenti provenienti dall’ambiente esterno (ogni cellula, infatti, si specializza grazie alle informazioni acquisite): questa “meraviglia” viene resa possibile dall’effetto epigenetico, che è un meccanismo che influenza il fenotipo senza alterare il genotipo, grazie al ruolo dell’ambiente e a come noi ci adeguiamo ad esso.
Le cellule dei tessuti nobili (sistema nervoso) sono estremamente plastiche, cioè reagiscono agli stimoli esterni adattandosi e trasformandosi di conseguenza; siccome in questi tessuti si elaborano i pensieri complessi, possiamo concludere che l’ambiente esterno è preponderante nella creazione di un database in grado di strutturare la personalità.
E’ vero che il nome ed il cognome influenzano la personalità? E le date, soprattutto quella di nascita, e la posizione tra i figli?
Tanti fattori contribuiscono a determinare il cammino di una persona. Cognome e nome agiscono a livello di meccanismo identificativo verso avi di riferimento. La data di nascita connota un periodo particolare e irripetibile della propria famiglia di appartenenza. La posizione, all’interno della famiglia, gioca un ruolo altrettanto importante perché, ad esempio, essere primogenito o ultimo rampollo, connota un meccanismo di interrelazioni specifiche, in termini di responsabilità e vantaggi. Trovarsi in una posizione intermedia (ad esempio, secondo di tre figli), può creare confusione di ruoli, giacché, come si dice, non si è né carne e né pesce. Sarebbe opportuno, però, ricavare informazioni deduttivamente ed in modo oggettivo, evitando interpretazioni.
Secondo la psicogenealogia, l’inconscio familiare riporta le età in cui i nostri genitori e antenati hanno vissuto gli eventi più importanti della loro vita (nascita, matrimonio, filiazione, etc.). Come si spiega che ne saremmo condizionati e come fare per evitare di ripetere esperienze negative e dannose? Inoltre, non può essere rischioso andare a cercare informazioni sui propri antenati, perchè magari si potrebbe apprendere di disturbi di vario genere o di altre vicende negative e, conseguentemente sentirli come “propri”?
Come le ho già spiegato, rimaniamo condizionati da eventi passati, soprattutto per meccanismi di identificazione inconsapevole. È logico dedurre che, avviando un processo di maturazione che conduca ad una sostanziale emancipazione dal passato, affermiamo sempre più noi stessi come entità nuove in grado, semmai, di usare il proprio retroterra come serbatoio di valori cui far riferimento nei periodi “difficili”.
Questa sorta di inconscio collettivo può essere alla base della convinzione, che alcuni hanno, di aver vissuto un’altra vita?
Brian Weiss, psichiatra americano, ha scritto diverse pubblicazioni (Molte vite, un solo amore; Oltre le porte del tempo; Molte vite, molti maestri; etc.) che trattano argomenti in proposito. Posso ipotizzare che, quanto le ho proposto finora, in termini di trasmissione di informazioni, giochi un ruolo non indifferente. Di più non so dirle.
Ne è convinto?
“La parola credere è una cosa difficile per me. Io non credo. Devo avere una ragione per certe ipotesi. Anche se conosco una cosa non è detto che debba crederci” (C. G. Jung).
Cosa ne pensa dell’ipotesi che anche gli oggetti, come sostenevano gli antichi greci, possiedano un’anima?
Credo che si riferisca a quella corrente filosofica che ha preso il nome di Ilozoismo. Diciamo che sia un’ipotesi suggestiva quella secondo cui noi riusciamo a modificare in un certo qual modo, in maniera impercettibile, la struttura sub atomica di ciò che utilizziamo con una certa frequenza. Questo potrebbe essere alla base del fatto che un’automobile, una casa, un certo ambiente di lavoro, finiscono col “parlare di noi”. Comunque, a proposito della corrente “ilozoistica”, Talete, Anassimene e Anassimandro, sono stati i precursori e un certo Peppino Russo di Napoli (nato il 1921 e morto il 1975) è riuscito a perfezionarla, asserendo che tutte le cose del mondo possiedono una stilla di vita, avendola carpita agli esseri umani, nel corso della loro esistenza. Spesso riporto brani di Luciano de Crescenzo e mi è capitato di parlare del suo “Storia della filosofia greca”. Posso sintetizzarle gli elementi più significativi.
Il mio incontro con Peppino Russo fu del tutto casuale: neI `70 don Peppino viveva a Roma in una casetta di periferia dalle parti di Vigna Stelluti. Un giorno, in un viottolo trasversale, mi si parò davanti uno spettacolo incredibile: per un centinaio di metri, tutti gli alberi prospicienti alla strada erano stracarichi di bambole e di giocattoli vecchi… Ripassando altre volte, un giorno, ecco spuntare da dietro una siepe, un uomo con un orsacchiotto spelacchiato fra le mani. Mi invitò a bere un caffè a casa sua per dissertare di anima. “Non è che tutti i giocattoli, appena escono dalle fabbriche, hanno subito un’anima. In quel momento sono solo dei semplici oggetti. Come però un bambino comincia ad amarli, ecco che dei pezzetti dell’anima di colui che ama si vanno a ficcare all’interno della plastica e la trasformano in materia viva. La stessa cosa accade per qualsiasi altro tipo di oggetto. Quando è morto mio padre, io non ho provato alcuna emozione: mi rifiutavo di riconoscere il cadavere! Quella sagoma lì, stesa sul letto funebre, era solo una cosa, chiaramente priva di anima, che non aveva nulla a che vedere con mio padre. Fu solo il giorno dopo che, entrando nella sua camera per cercare dei documenti, vidi alcuni di quegli oggetti che siamo soliti chiamare: effetti personali. Vederli e sentirmi prendere dalla commozione fu tutt’uno: finalmente riuscivo a piangere! Ecco dove si era nascosto mio padre: nel plaid scozzese, nella stilografica col cappuccio d’oro, nella poltrona di pelle dai braccioli scorticati, nelle tante cose, con le quali aveva diviso ogni giorno la sua solitudine”. “Quindi noi trasmettiamo un po’ di noi, in tutto quello che ci circonda?” – “Certamente. Infatti esiste anche l’anima di questa stanza, quella del quartiere e quella dell’intera città. Queste ultime sono anime complesse, ottenute per sovrapposizioni successive di anime influenti”. Mi guardai intorno ed ebbi l’impressione che mille occhi mi stessero seguendo mentre preparavo il caffè.
Ci vuole un bel po’ di storia per spiegare un po’ di tradizione (Anonimo).
G. M. – Medico Psicoterapeuta, Counselor.
Si ringrazia Erminia Acri per la formulazione delle domande
Direttore Responsabile “La Strad@” – Medico Psicoterapeuta – Vicedirettore e Docente di Psicologia Fisiologica, PNEI & Epigenetica c/o la Scuola di Formazione in Psicoterapia ad Indirizzo Dinamico SFPID (Roma/ Bologna) – Presidente NEVERLANDSCARL e NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS (a favore di un invecchiamento attivo e a sostegno dei caregiver per la Resilienza nel Dolore Sociale) – Responsabile Progetto SOS Alzheimer realizzato da NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS – Responsabile area psicosociale dell’Ambulatorio Popolare (a sostegno dei meno abbienti) nel Centro Storico di Cosenza – Componente “Rete Centro Storico” Cosenza – Giornalista Pubblicista – CTU Tribunale di Cosenza.
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