Per restare un po’ con me. Ogni volta che mi perdo.
Riflessioni
Punti di vista, modi essere e di affrontare, di volta in volta, intemperie e dolci brezze: insomma, i fatti della vita. Il tutto, espresso senza nascondersi dietro interpretazioni perfezionistiche ma con la sincerità e la naturalezza dell’essere, nel bene e nel male… normalmente umani.
Quale possibilità c’è di uscire a testa alta da questa storia camminando sulle mani senza allargare le pareti come fai tu … Come fai tu che pungi con gli aculei del silenzio e non dai segnali né segni di rimpianto, mi guardi e non mi riconosci più. Al tuo fianco avrei giurato guerra a tutto il mondo, scalato le montagne a mani nude… ma la ferita adesso, non si chiude e vorrei poterti dire che possiamo continuare; ma cosa è che ci unisce se non questo stare male, questo dolore cosi’ forte fino in fondo al cuore ? Poi, quando tutto va a memoria, sono i titoli di coda di una storia! Ma non è un finale, è che ci si lascia andare sempre più. Ma io, al tuo fianco, voglio mille notti in bianco e distinguere, con certezza, uno schiaffo o una carezza. Se niente ormai facciamo bene, se niente più ci tiene insieme, io resto qui a gridarti… amore non possiamo continuare all’infinito a farci male perché, se guardo nei tuoi occhi, io vedo solo amore. Al tuo fianco io, per tutto il tempo, cominciamo questa notte che si sta calmando il vento, io saprò inventare ogni giorno questo nostro amore. Ora dammi le tue mani. Noi più forti anche del tempo, noi che mai ci siamo persi… stringi forte amore, stiamo qui fino a domani, credi, che una possibilità c’è, di continuare a testa alta questa storia, tieni ancora le mie mani, non allargare le pareti, non serve più. (Vasco Rossi – A. Fornili – G. Curreri – S. Grandi)
Credo di poter essere ascritto nell’elenco di coloro che studiano parecchio. Non leggo molti libri, però. Non riesco a trovare energia mentale a sufficienza. Ad una certa ora, il mio cervello reclama la propria libertà dalle costrizioni cui lo sottopongo. E allora, dopo aver assorbito molte letture saggistiche (monografie tematiche di approfondimento), mi resta una certa voglia di entrare nelle vite degli altri. Ma non come psicoterapeuta. Solo per curiosare in punta di piedi.
Ecco che, nel tempo, ho imparato a dare importanza a quello che ascolto e osservo, durante ogni istante della mia giornata. Percorro molti chilometri in automobile, un po’ di meno in bicicletta. Ma, quando ci riesco, mi perdo, a piedi, sui monti della Sila, lungo sentieri che non ci trovi nessuno. Sono questi, i momenti in cui uso l’auricolare del mio Smartphone per ascoltare palinsesti radiofonici culturali e scientifici, conditi da musica e parole.
Essendo figlio della contestazione del 1977 ho, da sempre, apprezzato i cantautori impegnati, quelli che sussurrano versi in musica. Ivano Fossati con la sua Notte in Italia, Giorgio Gaber con L’illogica allegria, Francesco de Gregori col meraviglioso Infinito, Rosalino Cellamare (Ron) con Vorrei incontrarti fra cent’anni, Antonello Venditti col suo Giuda, Edoardo Bennato in Un giorno Credi, Samuele Bersani con il Mostro, Pacifico con Le mie parole, Lucio Dalla ne Le rondini.
Come le rondini… Volteggiare sopra i tetti delle città, mescolarsi con l’odore del caffè, fermarmi sul naso della gente mentre leggono i giornali; girare il cielo per fermarsi, ogni tanto a curiosare qua e là , avere il nido sotto i tetti al fresco dei portici e, come loro, quando è sera, chiudere gli occhi… con semplicità. Volare con la polvere dei sogni inseguire ogni battito del cuore, per capire cosa succede dentro e da dove viene, ogni tanto questo strano dolore…
Potrei pretendere altro?
Un anno fa, circa, ho iniziato ad apprezzare Gaetano Curreri con gli Stadio. E l’ho inserito nella playlist del Blue&Me della mia vetturetta sportiva (quella che uso tutti giorni, quando non mi raggiunge la nostalgia che mi fa rituffare nella mia vecchia Alfa). L’altro giorno, all’improvviso… una canzone che mi sale nel cervello, scendendomi nell’animo. È la numero 14. Il “sistema” non visualizza il titolo. Ma è bellissima. La cerco su youtube. La trovo. Al tuo fianco.
Esegesi. Testualmente, “interpretazione critica di un testo, al fine di comprenderne il significato”. È quello che ho sempre fatto, fin da piccolo, ogni volta che ho analizzato il testo di una canzone, la narrazione di un romanzo (Uomini e topi di John Steinbeck, ad esempio), il video di un film.
Da bambino ho contestato mia madre per i suoi metodi educativi rigidi. Mi sono emotivamente allontanato da lei, all’età di otto anni. Dopo un litigio e una serie di rimproveri che credevo di non meritare, ho infilato in una busta un po’ di indumenti e sono andato via di casa, da una zia. Ho accettato di tornare solo dopo aver ricevuto formali scuse. Eppure le ho voluto molto bene. E anche lei me ne ha voluto. Forse più di quello che gli ho voluto io. Che era, comunque, tantissimo.
Da adolescente ho incontrato una “perla” che sarebbe diventata, molti anni dopo, mia moglie. Da poco ho capito dove ho sbagliato. Ho cercato il forte legame che non ho concesso a quel genitore che mi aveva ferito senza accorgersene. Ovviamente, non ho voluto una seconda mamma quanto, piuttosto, un alter ego di rinforzo, con cui fare squadra, in ogni occasione, al di là di ogni avversità. Consegnandole la mia parte più intima e vulnerabile.
Facile dedurre che (pur volendomi tantissimo bene) si sia sentita caricata di troppa responsabilità, a discapito del suo sviluppo personale. Perciò, in quello slalom di impegni che l’ha vista ottima madre e donna di successo (nel mondo del lavoro) ecco che, il pallone per giocare, non ho potuto mai tiraglielo (se non in rare occasioni), per stare un po’ in nostra compagnia. Che peccato.
Se ci aggiungiamo che i rapporti familiari (la famiglia d’origine) risentono di fraintendimenti e rancori di antica memoria e che non si può dare di sé, ai propri figli, un’immagine dubbiosa e incerta… ecco che, anche quando mi sento stanco e avrei bisogno di una carezza, di uno sguardo dolce o di una parola di conforto… non mi “consegno” più a nessuno ma, indosso la mimetica antiproiettile, calzo il casco di protezione e ridiscendo in quel campo di battaglia che, a volte, è la vita. È così che deve andare.
Mariarita è un nome composto che identifica una persona amata capace di provare molto dolore per la sua sensibilità. In sostanza: una piccola perla. Forse è per questo che mi piace ascoltarla, quando me lo concede. Un paio di sere fa, in uno di quei momenti che nascono per caso, ci siamo incontrati come non lo si faceva da tempo. Non un padre e una figlia ma due bambini, persi in una dimensione spazio – temporale “fantastica”: “Ti ricordi di quando avevo i codini, che non volevo andare all’asilo? E il giorno in cui siete tornati dall’ospedale con quel fagotto di Valentina, appena nata? Vi ho scrutati a fondo per scoprire chi mi aveva impedito di saltare sulla pancia di mamma, in quegli ultimi nove mesi! E poi, ti ricordi di quando Maria, la baby sitter, mi doveva afferrare per i piedi al mattino, perché non mi volevo alzare? Però, faceva dei buoni panini col formaggino! E poi, che ridere, ti ricordi di quando (prima di trasferirci in questa nuova, grande casa) mi sono installata nella stanza in cui tu studiavi fino a tardi e ti osservavo, prima di addormentarmi, mentre lavoravi al computer? Mi sentivo protetta!”
Ricordo… memoria… emozione.
Qualcuno sostiene che il ricordo sia un’ombra che non si può vendere, anche nel caso in cui qualcuno volesse comprarla. Ricordo: sostantivo maschile che indica il richiamo dalla memoria di eventi, cose o persone, direttamente dal sottoscala del passato. Memoria: Sostantivo femminile che connota una funzione specifica del rapporto fra mente e cervello, in grado di accumulare informazioni
Il “segreto” del cervello consiste nel valutare le nostre esperienze mentre si verificano e selezionare istantaneamente quali memorizzare (per servirci da riferimento in seguito) e quali, invece, devono essere scartate, in base al “marchio” emotivo con cui sono state impresse.
Cara Mariarita, “riviverti” mi ha proiettato in un Universo che, credevo, non mi appartenesse più. Allora, forse, è proprio vero che il più bel sogno è quello che vivi ogni istante in cui ti accorgi di poter esercitare la libertà di pensiero, così come il miglior bacio è quello che immagini di restituire al tuo amore e, trattenendo il fiato dall’emozione, quel minuto durerà, per te, una vita intera.
Tempo. Come cambia il tempo, le cose della vita! Ma in bene o in meglio? Come sempre, dipende. Ma dipende da cosa? Da quello cui abbiamo rivolto, in maniera prevalente, le nostre attenzioni. Se curi troppo qualcosa, finisci col trascurarne delle altre… e non è detto che non siano altrettanto importanti
Perché, ad un certo punto della nostra storia, cambiamo così tanto? Siamo realmente liberi nel decidere i nostri percorsi di vita?
In linea di massima, la risposta potrebbe essere affermativa nel senso che basterebbe poter scegliere ciò che più piace e verso cui ci sentiamo più “legati”. Nella realtà dei fatti, qualunque attività decidiamo di intraprendere, dovremo sopportare dei costi pur traendone dei vantaggi.
Quali potrebbero essere questi costi?
Innanzitutto il tempo da dedicare per prepararci ad affrontare una determinata professione; poi le difficoltà da affrontare per inserirsi in un circuito lavorativo dignitoso; inoltre c’è da considerare le frustrazioni con cui, inevitabilmente, ci si scontra durante un percorso occupazionale; infine, non si può trascurare la necessità di sapersi barcamenare tra il tempo da dedicare al lavoro e quello da utilizzare per dare alla propria vita una dimensione di completezza ed equilibrio (affetti, amicizie, tempo libero, miglioramento personale, etc.)
Cos’è il rimpianto?
Uno stato d’animo determinato dal ricordo di qualcosa che avremmo potuto determinare ma che non abbiamo saputo vivere a pieno e ci ha lasciato un retrogusto amaro, in termini di aspettative non realizzate. E come se, ripensandoci, dicessimo mentalmente: “Peccato, quella volta ho perso un’occasione!”
L’importante, comunque, è non determinare situazioni dalle quali si possa generare una situazione di rimorso che, invece, è connotato da emozioni fortemente conflittuali, dolorosamente e intensamente fosche per qualcosa (che abbiamo fatto direttamente o meno ma che avremmo potuto e dovuto evitare) a seguito della quale, qualcuno ha avuto un prezzo pesante da pagare.
“Il tempo è bastardo… il tempo è amico, il tempo è solo un’idea… che grande bugia! Il tempo non è da buttare via. Il tempo è denaro ma è soprattutto nostro. Il tempo è amore e vita, sangue e passione… follia e poesia, malinconia e ricordo, sogno… il primo bacio, i gradini della scuola, i colori degli alberi a novembre, il Natale, i figli, le strette di mano, il letto da rifare, le fotografie, un amico che non chiama, una casa nuova e i problemi di prima. I discorsi di sempre. Imparare a crescere. Troppo, per una canzone sola. Ma ci si deve provare!” (G. Curreri)
Alla fine di ogni mia giornata, prima di abbandonarmi al piacere di raggomitolarmi in un caldo giaciglio, assaporo un altro privilegio: mi soffermo un po’ da Valentina (prima) e dalla primogenita (poi). Apro, con delicatezza, le ante dell’armadio della mia memoria e vi inserisco le istantanee dei loro visi assopiti, cercando di inspirare il più possibile di quell’ossigeno d’amore, prima che si trasformi. Ancora una volta. Ecco, questo è uno di quei rarissimi momenti in cui vorrei fermare le lancette che misurano il tempo e provare a non crescere più. Finchè sono ancora in tempo. Prima che l’orizzonte degli eventi mi inghiotta in quel buco nero che diventa, prima o poi, il futuro di ognuno.
È proprio vero. Questa paura di crescere non è tanto legata ad alcuni aspetti intuibili (invecchiare, morire, perdere i propri cari, non sapere affrontare l’ignoto, non sopportare di sbagliare) quanto, piuttosto, alla nostalgia di momenti del passato che non potranno essere mai più vissuti.
Cognati, amici e soci nella gestione di un’agenzia di viaggi, Saverio e Filippo prendono una tale sbandata per Alice, che si fanno cacciare di casa dalle rispettive mogli e “titolari” di lavoro, rischiando addirittura di perdere il posto. Secondo molti critici, questo film del 1990 di Carlo Verdone, con Sergio Castellito e Ornella Muti, è stato insoddisfacente per via di un’indecisione più che di una contaminazione di generi: si passa dal comico al patetico, dal satirico al paradossale, dal frivolo al serio, senza che uno dei toni prenda il sopravvento e diventi la vera cifra narrativa del racconto.
Ad un’osservazione superficiale, una simile considerazione potrebbe non essere lontana dal vero. Però, se consideriamo la storia sotto un’altra inquadratura, le cose dovrebbero essere valutate in maniera diversa.
Due dirigenti di un’agenzia di viaggi religiosi, incontrano una donna (doppiatrice di film porno), fuori da ogni contesto fino a quel momento, vissuto e frequentato. Due uomini inconsapevolmente stanchi di una routine che sfiora la perfezione ma “spegne i colori”, a favore di una vita monotona. Preferiscono rinunciare al cliché per un ignoto che li porta a riveder le stelle. Alice, li abbandona (senza aver mai concesso nulla di significativo, in fondo) di punto in bianco e loro si rendono conto di aver chiesto qualcosa che va al di là del consentito.
Una simile sceneggiatura ha visto trionfare Gabriele Muccino ne “L’ultimo bacio” e “Baciami ancora”. Se solo, Verdone, ci avesse creduto!
L’abitudine. Quella condizione che ti porta a far finta di non voler capire il crinale degli eventi, la polvere del tempo, che spegne i colori e porta al crepuscolo…. si, perché, quando la luce si riduce, la retina comincia a funzionare in toni di grigio… non c’è più energia per attivare la zona che consente la visione a colori. “Due cose assolutamente opposte ci condizionano ugualmente: l’abitudine e la novità” (Jean de La Bruyère). In sostanza, il vecchio e il nuovo ci fanno entrambi paura. Solo che il nuovo possiamo sfuggirlo e il vecchio possiamo aggirarlo non pensandoci, dando voce ad altre istanze che, però, non basteranno a chiudere i conti e, spesso, apriranno le porte ai rimorsi.
Ribellarsi, si, costi quel che costi e decidere, finalmente quello che si cerca, senza alibi, pregiudizi e vittimismi… e poi pagare. Che almeno ne valga la pena. A tutti è concessa un’altra occasione, se non è, ormai, troppo tardi.
Un po’ come dire che la felicità sta nel gusto che proviamo nei confronti delle cose della vita (con curiosità e accettazione), piuttosto che nelle cose che la vita ci mette di fronte!
Chiedi chi erano i Beatles
Se vuoi toccare sulla fronte il tempo che passa volando in un marzo di polvere di fuoco e come, il vecchio di oggi, sia stato il ragazzo di ieri… Se vuoi ascoltare, non solo per gioco, il passo di mille pensieri tu, chiedi: “Chi erano i Beatles?” Se vuoi sentire, sul braccio, il giorno che corre lontano come una corda di canapa tirata come la nebbia inchiodata fra giorni sempre più brevi… Se vuoi toccare col dito il cuore delle ultime nevi tu, chiedi: “Chi erano i Beatles?” Chiedilo ad una ragazza di 15 anni di età e lei ti risponderà… (la ragazzina bellina col suo sguardo garbato, gli occhiali e con la vocina), lei ti risponderà: “I Beatles non li conosco, neanche il mondo conosco; si, conosco Hiroshima ma, del resto, ne so poco; ha detto mio padre che l’Europa bruciava nel fuoco e che dobbiamo ancora imparare, noi siamo nati ieri; dopo le ferie d’agosto non mi ricordo più il mare, non mi ricordo la musica e fatico a spiegare le cose; per restare tranquilla scatto a mia nonna le ultime pose… ma chi erano mai questi Beatles? Voi che li avete girati nei giradischi e gridati, voi che li avete ascoltati e aspettati, bruciati e poi scordati, voi dovete insegnarmi, con tutte le cose, non solo a parole… ma chi erano mai questi Beatles?” (Norisso – Curreri)
Un muro, anonimo, uno di quelli che separano spazi concentrati di anime sparse, ciascuna intenta a ritrovare il bandolo di una matassa caduta nel tombino di quel “non luogo” che sono diventate le nostre città… su quel muro, un graffito: C’è differenza, fra l’Inferno e il Paradiso?
Un anziano signore ebbe un giorno la possibilità di domandare a Dio quale differenza ci fosse fra l’Inferno e il Paradiso. Dio lo condusse verso due porte. Oltrepassarono la prima. C’era una grandissima tavola imbandita ma le persone sedute attorno al tavolo erano magre e affamate e maldisposte le une verso le altre. Ciascuno aveva dei cucchiai dai manici lunghissimi, attaccati alle proprie braccia. Tutti potevano raggiungere il piatto di cibo e raccoglierne un po’ ma, poiché il manico del cucchiaio era più lungo del loro braccio non potevano accostare il cibo alla bocca.
“Bene, hai appena visto l’Inferno!”
Oltrepassarono la seconda porta. La scena che l’uomo vide, era identica alla precedente. C’era la grande tavola, i commensali avevano anch’essi i cucchiai dai lunghi manici…Questa volta, però, erano ben nutriti, felici e conversavano tra di loro sorridendo.
“Hai appena visto il Paradiso!”
“Non capisco la situazione è la stessa, come mai questi ultimi sono felici e in salute?”
“E’ semplice, essi hanno imparato che il manico del cucchiaio troppo lungo, non consente di nutrire se stessi, ma permette di nutrire il proprio vicino. Perciò hanno imparato a nutrirsi gli uni con gli altri! Quelli dell’altra tavola, invece, non pensano che a loro stessi. In buona sostanza, Inferno e Paradiso sono uguali, nella struttura. La differenza la portiamo dentro di noi, in base a come decidiamo di agire!” (Antica Parabola orientale)
Dove inizia il soldato, lì finisce l’uomo. Ma questo combattente, dov’è che porterà i suoi pensieri, se nessuno gli ha insegnato a capire il proprio cuore, per intendere meglio la paura? E se fosse solo un bambino indifeso, costretto ad agire suo malgrado?
E continuo a camminare. E non so se è un tramonto o un’alba, quella che mi viene incontro. Forse mi sono perso. Miliardi di neuroni, a volte, contano meno di un solo palpito nel petto. Chissà come si fa ad aprire la finestra dell’anima, per vedere se c’è una luce che l’illumina! L’anima, quella che, a volte, ci dà un po’ di dolore. Tutte le volte che vogliamo tenerla in gabbia, in mezzo alla gente muta, rassegnata all’idea che una cosa comincia e poi finisce, come una foto che sbiadisce. Fra poche ore, però, viene Domani. Ancora una volta. E se, all’improvviso, qualcuno si voltasse, mi guardasse e chiedesse, solo, pace?
“Della tante canzoni che ho scritto ce n’è una che ha dato il titolo ad un album, nata in un momento drammatico, quello della guerra nell’ex Jugoslavia. Quando gli uomini muoiono in guerra, è un dramma di per sé. Quando, poi, muoiono uomini che fino al giorno prima avevano vissuto insieme tranquillamente… è qualcosa di mostruoso. Un giorno, vivendo nelle isole tremiti, sono uscito con un gommone d’altura, fuori dalle nostre acque territoriali, in Adriatico. Ad un certo punto, sulla mia testa, a non più di duecento metri d’altezza, sono passate decine di aerei, con un rumore assordante, che stavano andando a bombardare, al di là del mare. Un’esperienza che mi ha cambiato la vita. Mentalmente, con le lacrime negli occhi, ho scritto questa canzone, una preghiera laica pronunciata da uno dei soldati dell’altra parte, che, si sarebbe ribellato al proprio comandante e si sarebbe rifiutato di continuare ad uccidere”. (Lucio Dalla)
“Adesso basta sangue. Ma non vedi? Non stiamo nemmeno più in piedi… Un po’ di pietà! Invece, tu invece, fumi con grande tranquillità. Così sta a me, che debbo parlare, fidarmi di te. Domani, domani, chi lo sa… domani sarà! Non lo so quale Dio ci sarà: io parlo e parlo solo per me. Va bene, io credo nell’amore, l’amore che si muove dal cuore, che ti esce dalle mani che cammina sotto i tuoi piedi. L’amore misterioso, anche dei cani e degli altri fratelli; animali delle piante che sembra che ti sorridono anche quando ti chini per portarle via. L’amore silenzioso dei pesci che ci aspettano nel mare… L’amore di chi ci ama e non ci vuol lasciare. Ok, lo so che capisci ma sono io che non capisco cosa dici… Troppo sangue qua e là sotto i cieli di lucide stelle, nei silenzi dell’immensità. Ma chissà se cambierà, oh… non so se, in questo futuro nero buio, forse, c’è qualcosa che ci cambierà. Io credo che è il dolore che ci cambierà. E dopo, chi lo sa, se, ancora ci vedremo e dentro quale città, brutta fredda buia stretta o brutta come questa, sotto un cielo senza pietà. Ma io ti cercherò anche da così lontano ti telefonerò, in una sera buia sporca fredda, brutta come questa. Forse ti chiamerò perché, vedi, io credo che è l’amore che ci salverà” (Lucio Dalla)
Vita, ti ho vista nel grembo di una madre a chiedere speranza, un futuro imprevedibile una base, una partenza! Ti ho visto sui gradini di una chiesa a chiedere benedizioni a Dio perché potesse darti senso, direzione e forza…Forza per quella vita che è in te, “vita” e che ti vede crescere e morire ad ogni passo, ad ogni sorriso, ad ogni lacrima! Perché, ” vita”, sei futuro, perché sei presente e sei passato. Perché ognuno di noi è quello che è, per quello che ha già dato e avuto… per quello che è già stato. Perché tu ” vita”, ti svegli ogni mattina col sole o con la pioggia. Perché cadi e ti rialzi. Perché non conosci stanchezza…E non conosci regole. Perché sei come il tempo e, nel tempo, inesorabile, scorri. C’è sempre la speranza della vita, nella vita e, anche quando il dolore cammina in braccio ad un sorriso, sarà sempre la vita a sorgere sul mondo finché il mondo stesso avrà una vita in cui poter rinascere. (Stefania Labate)
G. M.
Si ringraziano Emanuela Governi e Stefania Labate, per i loro interessanti spunti di riflessione.
Direttore Responsabile “La Strad@” – Medico Psicoterapeuta – Vicedirettore e Docente di Psicologia Fisiologica, PNEI & Epigenetica c/o la Scuola di Formazione in Psicoterapia ad Indirizzo Dinamico SFPID (Roma/ Bologna) – Presidente NEVERLANDSCARL e NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS (a favore di un invecchiamento attivo e a sostegno dei caregiver per la Resilienza nel Dolore Sociale) – Responsabile Progetto SOS Alzheimer realizzato da NEVERLAND “CAPELLI D’ARGENTO” ETS – Responsabile area psicosociale dell’Ambulatorio Popolare (a sostegno dei meno abbienti) nel Centro Storico di Cosenza – Componente “Rete Centro Storico” Cosenza – Giornalista Pubblicista – CTU Tribunale di Cosenza.
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