Intervista al dott. Claudio Curreli, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza, sui temi scottanti della Giustizia Italiana.
Si ringrazia il dott. Claudio Curreli, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza,per aver concesso quest’intervista, in esclusiva, al Settimanale online, La Strad@web.Tale documento, importante da un punto di vista sia umano che professionale, va ad inserirsi in un momento particolare, da un punto di vista storico e legislativo, cioè all’indomani dell’approvazione della legge Cirami sul legittimo sospetto. Attraverso le parole del magistrato, si mette in evidenza uno spaccato della giustizia in crisi ed, insieme, le emozioni di un uomo che sente profondamente il ruolo a cui è chiamato, al quale vorrebbe assolvere meglio già di quanto non faccia, tra tante difficoltà e disfunzioni del sistema giudiziario, con la segreta consapevolezza dell’importanza e delicatezza di un lavoro che va ad incidere in un ambito primario: la Vita di Esseri Umani.
D. Lei di recente, dottor Curreli, ha partecipato ad una conferenza, il cui tema è stato “Giusto processo o processo giusto?”, riscuotendo, tra le altre cose, molti consensi, secondo lei cos’è il “giusto processo” o cosa dovrebbe essere?
R. Cosa sia lo stabilisce l’art.111 della Costituzione, nella sua nuova formulazione, che, come ho già detto in occasione della conferenza citata, non rappresenta niente di nuovo, ma la riproposizione di altre disposizioni di diritto internazionale (art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, art.14 del Trattato Internazionale dei diritti civili e politici, art. 11 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo). E’ un processo regolato dalla legge, che si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti al giudice terzo ed imparziale: ciò vale per il processo penale, civile ed amministrativo. Quando si parla di processo, si parla di una sequenza di atti che si svolgono davanti ad un organo giurisdizionale, tesi al riconoscimento o meno della fondatezza di una pretesa. Nel processo penale ci sono una serie di principi e regole che lo disciplinano e che riguardano, innanzitutto, la persona accusata di un reato, la quale deve essere informata, nel più breve tempo possibile, dei motivi che sostengono l’accusa, deve disporre del tempo necessario per preparare la difesa, deve poter interrogare e far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa, acquisire ogni altro elemento di prova a suo favore, avere l’assistenza di un interprete se non comprende o non parla la lingua usata nel processo, avere la garanzia della formazione in contraddittorio della prova. La colpevolezza di un imputato, inoltre, non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, volontariamente, si è sempre sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. Sono previste, poi, una serie di eccezioni a questa regola della formazione della prova in contraddittorio, rappresentate: 1) dal consenso dell’imputato che manifesta la sua disponibilità a che determinati atti di indagine entrino comunque nel fascicolo del dibattimento e, che siano, perciò, utilizzati come prove nei suoi confronti; 2) da ragioni di natura oggettiva che rendono impossibile ottenere la ripetizione al dibattimento di un atto che sia stato compiuto nella fase delle indagini preliminari; 3) da comprovata condotta illecita che impedisce la riproposizione in dibattimento della prova raccolta nel corso delle investigazioni. Tali principi sono stati in parte attuati con la modifica del codice di procedura penale operata dalla L. 63/2001, ma molto resta ancora da fare. Questo è il “giusto processo” secondo la nostra Carta Costituzionale. Ma se vogliamo andare oltre le definizioni normative, possiamo dire che un processo è giusto nella misura in cui consente di fare giustizia, cioè di accertare la verità storica e di farla coincidere con la verità processuale. Infatti, un conto è la verità processuale, un conto è la verità storica. Nel processo si valuta la maggiore o minore credibilità di una verità che è quella portata dall’accusa rispetto ad altra verità che è quella portata dalla difesa. Non sempre la verità processuale coincide con quella storica.
D. Quindi, mi pare di capire che maggiore è la coincidenza tra verità storica e verità processuale, maggiormente il processo è giusto…
R. Proprio così.
D. Come mai hanno creato tanto scalpore i contenuti dell’art.111 della Costituzione, comunque già esistenti in altre fonti?
R. Più che scalpore, hanno creato qualche difficoltà interpretativa e applicativa agli operatori del diritto, i quali, rispetto al codice di procedura penale precedente alle modifiche determinate dall’approvazione dell’art. 111, hanno visto venire meno una serie di regole finalizzate a salvaguardare la certezza della prova. C’è stato cioè il timore che la prova emersa nel corso delle indagini, non potesse più formarsi, in maniera altrettanto chiara, davanti al giudice. Ma al di là di questo è bene chiarire che i principi introdotti dal nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione sono principi di civiltà giuridica. D’altronde, la legge costituzionale n.2/99 che ha modificato l’art. 111 della Costituzione è il risultato dei lavori della famosa Commissione Bicamerale, forse l’unico prodotto di quella Commissione, segno evidente di un incontro delle volontà di tutte le forze politiche dell’epoca che hanno voluto dar vita ad un testo che fosse espressione di principi condivisi da tutti.
D. Nell’ambito del giusto processo, fondamentale è stata la L. 63/01 che ha introdotto, appunto, modifiche alla formazione e valutazione della prova. Come si sono attuate concretamente tali modifiche nel processo penale?
R. Innanzitutto per seguire l’ordine degli articoli modificati, c’è l’art. 195, 4° comma c.p.p., in base al quale gli ufficiali e gli agenti di Polizia giudiziaria non possono più testimoniare sulle dichiarazioni inserite in verbali di sommarie informazioni o denuncie che abbiano acquisito nel corso di indagini preliminari. Poi, è la volta dell’art. 500 c.p.p., il cui testo precedente prevedeva che, laddove una persona sentita come teste avesse precedentemente reso delle dichiarazioni, queste potevano esserle contestate, e se vi era contrasto, le dichiarazioni rese precedentemente formavano piena prova se confermate da altri elementi di riscontro oppure addirittura, (ma questa è una fattispecie che è rimasta tuttora), ove si accertasse che la mancata conferma in sede dibattimentale dipendesse dall’esercizio di violenza, di minaccia, di promessa di danaro o di altra utilità fatta ai danni del teste che non confermava. In riferimento alla possibilità, attraverso riscontri, di provare i fatti oggetto delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari, ciò non è più possibile, ma è necessario che il teste confermi. Se non conferma, le precedenti dichiarazioni possono essergli lette a titolo di contestazione, ma sono utilizzabili solo per verificare la credibilità del teste. Poi c’è l’art. 526, comma 1° bis che richiama uno dei principi dell’art. 111 della Costituzione e cioè che la penale responsabilità di un imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre sottratto all’esame da parte dell’imputato o del suo difensore. Altre modifiche importanti sono quelle relative alla posizione del c.d testimone assistito, che sarebbe il soggetto coimputato nel medesimo procedimento oppure imputato in procedimento connesso o in procedimento collegato: costui, pur assistito dal suo difensore, non potrà avvalersi della facoltà di non rispondere, ma dovrà rispondere e rispondere secondo verità. E’ stata eliminata, poi, la famosa forbice tra fase cautelare e fase dibattimentale, nel senso che anche per la fase cautelare si richiede che i riscontri relativi alle chiamate in correità o in reità, che prima potevano essere solo oggettivi, ora debbano essere individualizzanti, cioè riguardare il coinvolgimento del chiamato nella commissione di quello specifico fatto. Non si potrà più verificare, quindi, ciò che spesso si è purtroppo verificato: e cioè di soggetti che venivano legittimamente sottoposti a misura cautelare sulla base di dichiarazioni di chiamata in reità o correità riscontrate solo oggettivamente ma non individualmente e che poi si vedevano assolti, altrettanto legittimamente, perché mancavano i riscontri individualizzanti. Con la conseguente condanna dello Stato alla riparazione per l’ingiusta detenzione sofferta.
D. Da ciò che lei ha spiegato in riferimento alle modifiche apportate al Codice di procedura penale, può sorgere una riflessione e, cioè che con operatori di un certo stampo e livello, si può forse arrivare ad un processo maturo, nel senso di garanzie di accertamento della verità, di maggiori garanzie per gli esseri umani, lei cosa ne pensa?
R. Sono d’accordo, perché un processo in cui la prova si forma in contraddittorio è un processo più capace di garantire il cittadino. E verso questo processo ci si sta muovendo in maniera più consapevole e matura rispetto al passato.
D. Ciò significa che gli operatori devono essere preparati ad affrontare le conseguenze di questo nuovo modo di fare giustizia, ci vuole competenza ed esperienza, vero?
R. Innanzitutto da parte delle forze di polizia giudiziaria nella conduzione delle indagini, poi da parte dei magistrati requirenti e dei giudici nella valutazione dei risultati delle investigazioni. La competenza, la professionalità e l’esperienza sono essenziali.
D. Lei è d’accordo sul fatto che, anche se al pubblico ministero spetta l’esercizio dell’azione penale, deve comunque rispettare un principio, e cioè l’accertamento della verità?
R. Si, il codice, a proposito del pm prevede che lo stesso, durante la fase delle indagini preliminari, compia le attività necessarie per l’accertamento dei fatti-reato, ed è anche previsto che debba acquisire ogni elemento utile in favore della persona sottoposta alle indagini. Questo è l’obiettivo. Il pubblico ministero deve porsi come unico scrupolo quello di individuare il responsabile di un reato e andare a giudizio se ci sono serie e concrete prospettive di condanna per quel soggetto sulla base delle prove raccolte. Il pubblico ministero, a mio avviso, dovrebbe essere sempre capace di vestire i panni del giudice e, qualora si rendesse conto, all’esito del dibattimento, che la prova non è sufficiente a motivare una sentenza di condanna, dovrebbe chiedere l’assoluzione.
D. Cioè amministrare la giustizia, senza intenti a tutti i costi persecutori, il messaggio è questo. Lei, in riferimento ad alcuni progetti di legge depositati in Parlamento per l’attuazione dell’art. 111 della Costituzione, conclude chiedendosi se effettivamente il legislatore miri a garantire a tutti i cittadini un giusto processo o, viceversa se cerchi di impedire che si celebrino nei confronti di alcuni, processi giusti. Queste sue considerazioni, in qualche modo, si possono ricollegare alla legge Cirami, di freschissima approvazione?
R. Della legge Cirami voglio dire solo questo: c’è stato un notevole miglioramento, nei lavori fatti alla Camera dei deputati, del testo che era stato partorito dal Senato, e che era un testo, per certi versi, addirittura di non chiara comprensione delle stesse espressioni italiane utilizzate per scriverlo. Adesso si sono superate, almeno prima facie, quelle perplessità di legittimità costituzionale che tutti gli operatori del diritto avevano immediatamente colto e che, da quello che si era letto sui giornali, erano state anche condivise dalla Presidenza della Repubblica. Il testo è stato migliorato, è stato eliminato il rischio della prescrizione, come anche dell’eventuale liberazione di chi, sottoposto a misura cautelare, sollevasse la legittima suspicione. Il legittimo sospetto è stato ancorato a gravi situazioni locali che turbino la serenità di giudizio del giudice o del collegio dei giudici, in caso di procedimenti davanti al Tribunale in composizione collegiale. Nel testo precedente ciò non era assolutamente chiaro. Questo è importante, perché è normale che non potrà essere un movimento d’opinione formatosi su scala nazionale a far ritenere quel giudice, dove in quel momento si sta celebrando quel processo, sospettabile di imparzialità, ma dovrà essere una serie di fatti locali che potranno giustificare il legittimo sospetto ed indurre, poi la Corte di Cassazione a ritenerlo fondato. Restano, comunque, delle perplessità sul fatto che questo testo non risolve i problemi della giustizia. Si tratta, ancora una volta, di una novità introdotta nel panorama giudiziario in materia penale che non soddisfa i bisogni di giustizia, ma incide su settori marginali e non so fino a che punto faccia gli interessi dei cittadini, perché, come ho detto anche altre volte, l’interesse del cittadino comune non è certo quello di vedere modificata la disciplina del falso in bilancio o sulle rogatorie, o di potere far rientrare in Italia capitali illecitamente esportati o, da ultimo, di avere la possibilità di chiedere lo spostamento del processo dalla sua sede naturale per legittimo sospetto.
D. Quindi ciò può collegarsi al dubbio se si cerca di impedire la celebrazione, nei confronti di alcuni, di processi giusti……
R. Si, questo è un dubbio che può essere legittimamente sollevato da iniziative legislative come quelle di cui ho parlato, ma soprattutto dai disegni di legge Anedda, Pittelli, Mazzoni che, per certi versi, rendono il processo impossibile; perché nel momento in cui si prevede che se il pm non esercita l’azione penale, o non chiede l’archiviazione, nel termine ordinario o prorogato per la conclusione delle indagini, tutti gli atti svolti sono inutilizzabili, si sta di fatto dicendo ai pm che il loro lavoro non potrà mai avere alcuna utilità. Sfido chiunque a dimostrare che sia possibile (e, parlo per le procure del centrosud, quelle in cui i carichi di lavoro sono decisamente superiori a quelle del centronord) esercitare l’azione penale o chiedere l’archiviazione nei sei mesi ordinariamente previsti per la conclusione delle indagini preliminari o nel termine prorogato. Ciò è oggettivamente impossibile, basti entrare nelle nostre stanze per rendersene conto; senza contare che, in tal modo, si spenderebbero anche inutilmente i soldi delle Stato, perché tutte le indagini fatte sarebbero vane.
D. Secondo lei come mai continuano ad essere presentati progetti di legge di questo tenore?
R. Credo che ci sia una reazione della politica a qualche abuso commesso in passato da pochi magistrati (dico qualche perché credo veramente che siano pochi) e, certamente, alle molte disfunzioni che non dipendono dai magistrati. Questi disegni di legge prevedono che il termine per la chiusura delle indagini decorra dal momento in cui al pm giunge la notizia di reato con il nominativo della persona che l’ha commesso. Cos’è successo nel passato? Talvolta, o volutamente, ma ritengo in pochi casi o, per impossibilità di vedere subito le carte in cui si indicava il nominativo della persona sottoposta ad indagini, quel nominativo veniva iscritto nel registro degli indagati dopo parecchio tempo. Si è, pertanto, voluto reagire a questi abusi o ritardi, determinati dal numero delle carte, prevedendo che il termine suddetto decorra dal momento che il nominativo perviene al pm. Capisco il problema che il legislatore si è posto, ma ritengo che si possano trovare delle strade diverse per evitare gli abusi e, per provvedere alle dimenticanze necessitate. Per quanto riguarda gli abusi, prevedendo per esempio degli illeciti disciplinari che siano puntualmente previsti e che si traducano in sanzioni serie. Relativamente alle dimenticanze necessitate, incrementando gli organici di Procura e del personale amministrativo perché questi ritardi sono la conseguenza del fatto che ci troviamo ad essere sempre in meno rispetto al numero dei posti in organico, con un numero di assistenti veramente esiguo, senza segreterie organizzate. Questi sono i veri problemi della giustizia; e credo che molte disfunzioni verrebbero meno se si potenziassero le strutture e si colmassero i vuoti di organico, difronte all’elevatissimo numero di procedimenti, mettendo così i magistrati in condizioni di operare meglio. Ma non perché noi magistrati pensiamo di non poter fare il nostro lavoro. Con grandissimi sacrifici, lavorando mattina, sera e notte (e chi ci conosce lo può confermare), si riesce a lavorare, tenendo testa al numero di carte. Il problema è che il lavoro potrebbe essere migliore nella tempistica e nella qualità, se solo ci fosse data la possibilità di lavorare con un po’ più di respiro, per poter smaltire in maniera rapida i fascicoli, considerando che, dentro questi fascicoli, c’è la storia di una persona offesa che, magari, ha sporto querela tanti anni prima e che non vedrà mai fatta giustizia, o la vedrà fatta con estremo ritardo, o la vedrà iniziata ma non conclusa perché nel frattempo interverrà inesorabilmente la prescrizione.
D. In effetti il magistrato chiede di poter lavorare meglio e di poter assicurare la giustizia.
R. Esatto.
D. Un interesse comune al legislatore, al politico, al magistrato, alla società, quello di offrire un servizio, attraverso una categoria, quale quella della magistratura requirente che è chiamata, ad un ruolo, una funzione non semplice, molto delicata.
R. Si, io prendo atto che, negli ultimi anni, c’è stata una chiara volontà di delegittimare la magistratura. Capisco che questa volontà abbia origine in indagini che hanno sconvolto il panorama politico italiano ed, in abusi, che, in alcuni limitati casi, come ho già detto prima, possono essere stati commessi e che, se vogliamo, erano già stati corretti dallo stesso legislatore, quando, p.es., nel 1995 è stata modificata la disciplina sulla custodia cautelare, prevedendo dei limiti più stretti per poterla chiedere nei confronti di un soggetto per il quale si ravvisasse il pericolo di inquinamento probatorio. In questo modo si era voluto reagire al famoso “tintinnar di manette”, che aveva portato molti in carcere al solo scopo di farli confessare. C’è stato, pertanto, questo modo di operare non conforme pienamente allo spirito della legge, ma consentito, forse, dalla lettera della legge, e al quale però si era reagito con le modifiche al codice di procedura penale del 1995. Tutto ciò non può comunque giustificare un’opera di delegittimazione della magistratura così evidente, tale per cui i magistrati vengono additati quasi come peggiori dei delinquenti sui quali indagano o che processano. A riprova di ciò si pensi che nel disegno di legge Anedda è introdotto l’abuso d’ufficio del magistrato che è punito con la pena fino a 15 anni e che è sostanzialmente un’ipotesi speciale, ma decisamente più grave, dell’abuso di ufficio del pubblico ufficiale (punito con pena fino a 3 anni). Mi chiedo, inoltre, se sia logico, sempre nel disegno di legge Anedda, prevedere che un’ enorme fascia di reati passi alla competenza della Corte d’Assise sul presupposto che solo il popolo e, non i magistrati togati, possano bene esercitare la giustizia. Credo che certe proposte di modifica non si prefiggano affatto di migliorare il pianeta giustizia, ma, semmai, di chiudere una partita con la magistratura.
D. Qui, nel suo ufficio, lei ha una stampa di due magistrati, che hanno fatto storia, il dott. Falcone e il dott. Borsellino, vittime della mafia, cosa si sente di avere in comune con loro?
R. E’ difficile rispondere a questa domanda perché non credo di poter essere neanche lontanamente avvicinato a dei colleghi come il dottor Falcone ed il dottor Borsellino. Sono persone che hanno dato la vita per lo Stato, sono dei professionisti, anzi erano, anche se è difficile dire se erano o sono, con tale competenza, esperienza, senso della misura, capacità critiche e di giudizio che ogni paragone sarebbe fuori luogo. Credo, e non sono l’unico certamente, a condividere con i due colleghi, il senso di questo lavoro, che è un lavoro di servizio per lo Stato, per la collettività. Questo senso di servizio credo sia largamente diffuso, io mi auguro che sia un senso che tutti vivono, ma poiché gli uomini non sono tutti uguali e non sono soprattutto perfetti, come in tutte le categorie di professionisti c’è qualcuno che non adempie il proprio dovere come dovrebbe, così accade nelle nostra categoria. Mi sento di poter affermare che questa consapevolezza dell’alto valore delle funzioni che esercitiamo, questa chiara percezione che le nostre funzioni sono al servizio dello Stato e dei cittadini sia una percezione largamente diffusa.
D.”Gli uomini passano, le idee restano, restano le loro tensioni morali, continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.”, con queste parole G.Falcone, nell’aprile del 1985 chiudeva una lunga intervista, si dice l’unica che concesse nella sua vita, è d’accordo con questa visione delle idee che continuano a camminare sulle gambe di altri uomini?
D. Si, com’è scritto anche nel manifesto affisso nella mia stanza, sono d’accordo. La storia l’ha dimostrato, perché chi ha pensato che, uccidendo Falcone e Borsellino e gli uomini delle loro scorte, poteva fermare un percorso di accertamento di responsabilità penali di chi aveva commesso gravi fatti-reato e di individuazione dei responsabili, si è sbagliato. La lotta alla mafia si è incrementata proprio con la morte di Falcone e Borsellino. Questo dimostra che ci possono far fuori tutti, ma ci sarà sempre qualcuno dopo di noi che porterà avanti le stesse idee.
D.E allora questa sua affermazione può ricollegarsi alla continuazione della frase di Falcone:” Ognuno di noi deve continuare a fare la sua parte, piccola o grande che sia”. Qual è la sua parte come Pubblico Ministero ed, in particolare, in una città come Cosenza?
R. La mia parte è quella di fare il mio dovere di ricerca della verità, come dicevamo prima, quando viene commesso un fatto-reato; e accertamento della verità significa accertamento dell’effettiva commissione di quel fatto e individuazione del suo responsabile, sempre e per tutti i fatti-reato, non per alcuni, perché in questo sta la fondamentale garanzia per tutti i cittadini. L’obbligatorietà dell’azione penale significa che il pm accerta i fatti-reato e ne individua i responsabili sempre e, indipendentemente dal tipo di fatto-reato. In questa maniera la legge è uguale veramente per tutti. Questo principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, peraltro, messo, come sappiamo, in discussione da alcuni, dovrebbe diventare nella coscienza collettiva un pilastro fondamentale per capire che veramente la giustizia si attua, prima di tutto, accertando le penali responsabilità per tutti i reati e, poi, facendo in modo che il processo sia un processo giusto. Ma il processo non è veramente giusto se non ci verrà data la possibilità di fare processi per tutti i reati e per tutti i colpevoli. Allora il mio modesto contributo è questo: impegnarmi ogni giorno nel fare il mio dovere, indagando ogni reato come se fosse il più importante, o comunque, indagando tutti i reati con la stessa importanza, fermo restando, è chiaro, che ci sono dei fatti che, per gli interessi che coinvolgono, per le persone offese, per la gravità, hanno una oggettiva maggiore rilevanza, un oggettivo maggior spessore. Ma le energie e l’impegno devono essere uguali quando si indaga per questi reati come per quando si indaga per reati di minore importanza.
D. Sempre mutuando le parole di Giovanni Falcone:”Comprendo il dramma umano di chi mi sta di fronte, soffro, perché questo lavoro non può essere svolto se si è privi di umanità e occorre una profonda conoscenza degli uomini che non proviene dai codici. Fallo parlare…. fallo parlare il mafioso, fagli raccontare la sua verità, poi valuterai”. Lei ha la stessa visione del Dott. Falcone?
R. Sì, sì perché, fra l’altro, io ho sempre pensato che non si possa essere buoni magistrati se non si è persone per bene, ma, direi di più, delle persone di spessore, cioè persone che hanno una loro maturità affettiva, hanno un certo bagaglio culturale, una certa esperienza della vita, una certa esperienza del mondo e delle persone, cioè hanno avuto la possibilità, prima di diventare magistrati, di vivere delle relazioni piene e complete con il mondo e con la gente. L’umanità è fondamentale; non bisogna mai perdere di vista che anche il più terribile delinquente è comunque un uomo, una persona, che la pena è finalizzata alla rieducazione di quella persona e non alla repressione. Talvolta può perdersi di vista questo valore rispetto all’ esigenza di tutelare la collettività dai reati che quella persona può commettere; però non bisogna fare in modo che questa consapevolezza del valore della persona imputata o indagata venga mai meno. Il senso di umanità di cui parlava il dott. Falcone significa, quindi, avere consapevolezza del valore della persona che è sul banco degli imputati o che è in carcere, essere capaci di interagire con tutti, l’imputato, l’indagato, ma anche con le persone offese, di conoscere che cosa sta dietro, talvolta, ad un determinato reato, al dramma che si vive in una famiglia quando i reati vengono commessi in famiglia. Tutto questo è essenziale.
D. Giovanni Falcone, infatti, parlava proprio di quello che lei ha appena detto, che non dobbiamo dimenticarci della dignità di ogni essere umano, qualunque cosa abbia fatto.
R. Sì, sì, certo.
D. Proprio in virtù di quello che abbiamo detto finora, secondo lei, anche se in parte ha già risposto, colui che commette reati può essere una persona che ha vissuto condizioni familiari, ambientali, sociali difficili che in qualche modo hanno contribuito alla sua scelta di delinquere?
R. E’ sempre così. Il crimine è figlio del disagio, è figlio della povertà economica ma anche e soprattutto culturale, della povertà di orizzonti, di speranze, prospettive… però bisogna anche capire che non spetta alla magistratura requirente risolvere quei problemi sociali ed economici che stanno alla base del crimine. Quel compito spetta alle famiglie, agli enti locali, alla scuola; il compito di rendere possibile per ciascuno una vita fatta di opportunità, di chances, una vita in cui non ci sia mai la fame, in cui ci siano delle prospettive di lavoro. Diciamo che la magistratura penale ha il compito di accertare i fatti-reato e di punire i colpevoli, non può farsi carico di altro; naturalmente non deve perdere di vista che il reato è sempre figlio del disagio e non è un caso che nel nostro ordinamento ci siano le circostanze attenuanti generiche che, ovviamente, stanno a significare una presa di coscienza di queste situazioni che stanno a monte della commissione del reato, ci siano gli indici dell’art. 133 c.p. per la determinazione della pena che ancora una volta dimostrano che si tiene presente lo stretto legame tra disagio e reato. Però, lo ripeto, la magistratura ha un compito da portare avanti comunque, anche se tutti siamo consapevoli che un soggetto delinque perché la vita non gli ha offerto prospettive diverse e più allettanti.
D. Lei, quando ha di fronte una persona, un indagato, un imputato, e lo deve interrogare, dentro di lei tiene conto di queste cose?
R. Tenerne conto sicuramente è importante, e io cerco di farlo ogni volta. Vorrei anche che fosse chiara una cosa, che noi non accertiamo, non indaghiamo la persona, noi accertiamo e indaghiamo il comportamento della persona.
D. Sì, la condotta..
R. La condotta singola della persona. Allora, così come umanamente io non mi sento di condannare quella persona che ha commesso un reato, ancorchè grave, perché sono consapevole – perché me lo dice quella persona o perché io altrimenti lo so – che quella persona è arrivata a quel comportamento per la sua difficile storia personale, analogamente però io non posso esimermi dall’indagare quel fatto, quel comportamento perché è un comportamento che ha una rilevanza penale e non posso esimermi dal chiedere anche una pena grave, perché la legge la prevede, per chi ha commesso quel fatto. Ma io non mi sognerei mai di valutare, giudicare, condannare una persona per la sua storia. Quindi, per un verso, bisogna tener conto che non sta alla magistratura risolvere i problemi che stanno all’origine del crimine, per altro verso, non bisogna dimenticare che anche l’empatia con la quale si può ascoltare un indagato, un imputato, non può mai esimerci dal giudizio sul fatto… il giudizio, però, ripeto, è sul fatto e non sulla persona.
D. Come cittadino, lei continua, considerando tutto quello che si dice, l’opinione pubblica, le manovre di cui abbiamo parlato prima, i tentativi di delegittimare la magistratura, ad avere fiducia nella giustizia?
R. Sì, sì… sempre. Qualche volta mi rendo conto che c’è uno iato, una distanza tra la verità storica e la verità processuale, però è fisiologica. Ci sono, talvolta, dei casi giudiziari in cui si ha la sensazione che non si faccia giustizia, però credo che siano, rispetto ai grandi numeri, comunque, un numero molto limitato e credo, purtroppo, che siano inevitabili: i giudici non possono essere presenti al delitto, si vedono raccontata una versione dei fatti, una storia del delitto e una storia diversa e devono valutare quale tra le due storie è quella più credibile, arrivando poi all’assoluzione nel caso in cui, ovviamente, non ci sia una prova certa e ragionevole di colpevolezza di chi è imputato. Però, voglio dire, anche laddove vi siano degli errori giudiziari, che sono, ripeto, nei grandi numeri, un numero esiguo, anche laddove ci sia e non possa non esserci questa differenza tra verità storica e verità processuale, bisogna sempre, almeno io personalmente lo credo, confidare nella possibilità che la verità processuale si avvicini il più possibile alla verità storica. E allora torniamo al discorso iniziale: l’obiettivo del processo giusto, cioè l’obiettivo di un processo che miri all’accertamento della verità storica, in cui la verità processuale sia quella storica, è un obiettivo che deve essere perseguito da tutti, senza distinzione di parti, dai giudici che lo fanno abitualmente, ma anche dalle parti. E qui entra in gioco un discorso importante anche di deontologia. Io, per es. , mi sono trovato recentemente ad appellare una sentenza di assoluzione nei confronti di un soggetto che era stato fermato e sottoposto a custodia cautelare per diversi mesi; l’indagine era mia, c’era un’ enorme mole di elementi a carico di questa persona, il più importante dei quali è stata l’individuazione personale e fotografica da parte di una delle persone difese. Al dibattimento questa persona ha confermato l’individuazione, però il tribunale, sulla base dei dubbi che c’erano a proposito dell’attendibilità di questa individuazione, ha mandato assolto l’imputato; questi, pur proclamandosi innocente, aveva reso tre versioni dei fatti tra loro contrastanti e smentite dalle risultanze delle indagini preliminari. Io non so se effettivamente sia stato lui a commettere questo reato, però ho letto la sentenza di assoluzione e mi sono trovato di fronte ad un dilemma che era umano e professionale, perché umanamente potevo anche credere all’innocenza professata da questa persona, professionalmente, però, dovevo anche ragionare sulla verità processuale che, in questo caso, a mio giudizio, era diversa da quella che era stata ritenuta dal Tribunale. Io ho ravvisato una verità processuale diversa, tant’è che avevo chiesto la condanna al dibattimento. Ecco, in questo caso mi sono chiesto che cosa dovessi fare nell’adempimento del mio dovere che era, comunque, quello di chi, di fatto, se pure sulla base, ripeto, di elementi a mio giudizio più che sufficienti, aveva tenuto in carcere una persona per più di un anno, persona che poi era stata, appunto, ritenuta innocente. Beh.. io ho ritenuto comunque di dover impugnare quella sentenza. E l’ho fatto col dubbio di aver fatto la cosa giusta, perché, lo ripeto, questa persona poteva anche essere ritenuta credibile nella sua professione di innocenza, almeno credibile nella versione dei fatti che ha reso, ma questo è un altro problema. Ecco, talvolta ci si trova in queste situazioni di conflitto di coscienza e bisogna anche saper recuperare il senso del proprio ruolo, sulla base del dato inevitabile di quella divergenza tra verità storica e verità processuale che ho più volte evidenziato. Quindi, io l’impugnazione l’ho fatta, non so se ho fatto la cosa giusta, ci saranno altri giudici che valuteranno e che potranno confermare la sentenza assolutoria o ribaltarla. Mi è capitato, per es., sempre oggi di aver saputo che una sentenza di condanna, pronunciata nei confronti di un imputato di tentata estorsione, che io non ho assolutamente condiviso, tanto che avevo chiesto l’assoluzione, convinto dell’impossibilità di pronunciare la condanna, è stata confermata dal giudice d’appello. Io sono convinto che quella sentenza non abbia fatto giustizia, però, nella vita professionale accade e questi sono i pochi casi, spero sempre pochi, in cui c’è il dubbio se la verità processuale coincida con quella storica. Però, insomma, credo che non ci sia giudice, non ci sia pubblico ministero, o meglio non dovrebbe esserci pubblico ministero, (e tutti dobbiamo essere consapevoli di questo), e non ci debba essere neanche avvocato, se vogliamo, che non debba mirare a quel risultato: la maggiore corrispondenza possibile tra verità dei fatti e verità accertata nel dibattimento.
D. Quindi, prima del magistrato, prima dell’ avvocato o del giudicante è necessaria la maturità dell’ uomo..
R. Sì
D. Quello che lei diceva prima, lo spessore..
R. Sì. Ed è un peccato veramente che nel nostro concorso, ad es., non sia prevista una valutazione della personalità.
D. Ecco, allora entra in gioco anche una valutazione psicologica…
R. Io sono convinto che per es. dei buoni test psicoattitudinali sarebbe opportuno venissero somministrati a tutti i candidati al concorso di magistratura ed a tutte le professioni che implicano delle responsabilità pubbliche, lo dico per noi, mi fermo qua, ma lo stesso discorso andrebbe fatto per tutti quelli che hanno una responsabilità che coinvolgono i valori fondamentali dell’individuo, quali la vita, l’incolumità fisica, la libertà personale.
D. Lei adesso mi fa venire in mente un collegamento con quello che ha detto prima, probabilmente gli abusi, forse quelli che in alcuni casi ci sono stati da parte della magistratura potevano, è un’ipotesi, potevano anche derivare dalla personalità… mancanza di esperienza, sufficiente maturità..
R. Lo so, bisognerebbe…
D. Verificare caso per caso..
R. Si potrebbe anche ipotizzare che si sia perso di vista lo scopo delle proprie funzioni, che non è tanto una conseguenza della scarsa maturità, quanto magari un essersi troppo innamorato di una propria tesi, e quindi, arrivare a perseguirla fino in fondo.
D. Certo, una valutazione psicologica in sede di concorso di magistratura potrebbe aiutare..
R. Del resto, non capisco perché in polizia questi test psicoattitudinali siano previsti e in magistratura, o anche in altre professioni che coinvolgono gli stessi valori coinvolti dall’attività quotidiana di chi è in polizia, non siano previsti. Mi sembrerebbe opportuna una rivisitazione dei meccanismi di selezione del personale che svolge queste mansioni.
D. Come vive lei il suo ruolo di magistrato con un importantissimo e delicato compito,con quello di padre, di componente di una famiglia?
R. Io credo che il lavoro sia una parte importante della vita di un individuo, ma non deve essere la parte più importante, perché non si deve vivere per lavorare, ma lavorare per vivere e io cerco di vivere in armonia e con equilibrio l’impegno del lavoro rispetto a quello che è l’impegno che dovrebbe essere prioritario di marito e di padre; non è facile perché quando si è costretti a lavorare troppo, il tempo che si dedica in casa è sempre un tempo limitato; ho fatto un conto delle ore che passo con i miei figli e di conseguenza anche con mia moglie, e forse non arriviamo alle due o tre ore giornaliere complessive che sono oggettivamente poche. Dipende un po’ dai giorni.Per questo che dico che noi magistrati dobbiamo essere messi nelle condizioni di lavorare non dico meno, ma certamente meglio. Dovremmo anche essere messi nella condizione di poter lavorare in maniera più serena, perché credo sia importante mantenere l’equilibrio di tutte le componenti della propria persona, perché solo se si è in equilibrio con quello che si è al di fuori del lavoro, si fa un buon lavoro… se no…non si fa un buon lavoro.
D. Bene, io la ringrazio..…
R. Grazie a lei.
D. E’ stato molto chiaro, conciso, pur toccando punti importanti. Questo glielo voglio dire e lo metterò anche nell’intervista… Lei ha confermato con le sue parole quello che si dice su di lei..
R. La ringrazio, ma io sono convinto di essere uno dei tantissimi che vive e lavora in questa maniera; poi gli uomini sono diversi, è chiaro, però la consapevolezza delle proprie funzioni e la voglia di vivere queste funzioni come un servizio, di viverle nel modo più sereno possibile, credo che sia veramente di moltissimi.
D. Sì, lo credo anch’io perché in questa procura ne ho conosciuti, ci sono stati alcuni suoi colleghi che l’hanno preceduta, ormai trasferiti, che in alcuni tratti mi ricordano lei. Grazie ancora dottor Curreli.
Maria Cipparrone